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#Campaign4Change

Per Invernomuto il fallimento non è così male

Il duo artistico ci ha raccontato i suoi esordi nella provincia italiana e ci ha spiegato perché il processo è più importante del risultato finale.

Questo post fa parte della nostra serie #Campaign4Change

Se vi interessate di arte o musica probabilmente avrete sentito parlare mille volte di Simone Trabucchi e Simone Bertuzzi negli ultimi anni anche se non ve ne siete resi conto. Infatti operano sotto pseudonimi sia quando fanno musica—rispettivamente come Dracula Lewis e Palm Wine—sia quando fanno arte in duo con il nome di Invernomuto.

Si sono incontrati all'Accademia di Brera anche se vengono dalla stessa cittadina in provincia di Piacenza, Vernasca, e hanno cominciato a collaborare nel 2003. Li abbiamo incontrati per parlare del loro modo di fare arte per decentramento rispetto a un input iniziale—e ci hanno raccontato che molto spesso il fallimento di un progetto non fa che nascondere la nascita di qualcosa di più grande, soprattutto nell'arte.

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VICE: Quando è iniziato il progetto Invernomuto?
Simone Bertuzzi: Lavoriamo insieme dal 2003, principalmente nell'ambito delle arti visive, anche se spesso ci piace debordare in altri mondi come quello musicale. Anche se abbiamo iniziato a lavorare con le immagini in movimento, negli ultimi anni ci siamo occupati anche di installazioni, scultura, oltre al lavoro sul suono che per noi è centrale a livello concettuale.

Come funziona il vostro processo artistico?
S.Trabucchi: Tutti i lavori partono da un'analisi anche di un piccolissimo dettaglio, poi i progetti vengono espandendosi e inglobando realtà o aspetti che all'inizio non erano stati presi in considerazione—i nostri progetti sono sempre in progress.
S.B.: Un esempio in questo senso è Negus, un progetto che abbiamo iniziato ormai tre anni fa ed è tuttora in corso, nato da un fatto storico preciso che risale alla metà degli anni Trenta e ha a che fare con l'esperienza coloniale italiana in Etiopia. Un soldato originario di Vernasca era in guerra in Etiopia, è stato ferito e rispedito a casa dall'esercito e una volta tornato gli abitanti del paese hanno organizzato uno strano rituale—che oggi vediamo come oscuro ma ai tempi era normale: costruire un fantoccio di Hailé Selassié, ultimo imperatore d'Etiopia, e bruciarlo in piazza. Il progetto è nato da una serie di racconti orali anche dei nostri nonni. Quello che volevamo fare era un re-enactment della celebrazione, poi l'idea iniziale è stata tradita.

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In che senso?
S.B.: È stato tradito perché ha iniziato a crescere, siamo stati invitati a fare una residenza ad Addis Abeba e non abbiamo fatto altro che portarci una camera e andare nella comunità rastafariana di Shashamane—il progetto da incentrato sulla nostra storia è diventato qualcosa che riverberava cose successe in Giamaica, in Etiopia. Il nostro approccio è molto aperto nel senso che come spugne cerchiamo di succhiare elementi che troviamo in un determinato luogo. Molto spesso in questo senso tradiamo le aspettative iniziali o delle linee guida che ci eravamo dati all'inizio.

Volevo affrontare insieme a voi il tema della presenza-assenza, del vostro ruolo di impaginatori che si tengono sempre il più possibili ai margini per creare opere che siano vostre come punto iniziale ma poi vanno avanti da sole.
S.T.: Dal punto di vista video significa posizionare la camera e lasciare che le cose succedano. Per esempio c'è una parte del video che abbiamo girato in Etiopia dove avevamo piazzato la camera per riprendere delle sorgenti calde quando la nostra guida ha iniziato a raccontare la storia delle sorgente, allora d'impulso gli ho detto di andarlo a dire in camera. Gli abbiamo detto di parlare in un microfono perché c'era troppo caos, perciò lui parlava ma noi nemmeno sentivamo cosa dicesse. L'abbiamo visto solo in fase di montaggio.
In questo caso dobbiamo essere impaginatori perché il nostro ruolo è quello di prendere le cose, digerirle e restituirle in modo che siano il più possibile rispettose della fonte e allo stesso tempo abbiano uno spazio nella costellazione di segni che abbiamo disegnato.
S.B.: Noi ci definiamo impaginatori perché abbiamo un approccio da outsider: ci interessa stare ai margini. Probabilmente è anche dovuto al fatto che siamo in due, che abbiamo già un filtro interno. Perciò forse è fisiologico che quando ci rapportiamo a un oggetto ci viene spontaneo guardarlo dall'esterno ma nel contempo di entrarci di pancia—la difficoltà sta nel trovare un equilibrio tra questi elementi.

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Se dovessimo parlare di un messaggio della vostra arte, si potrebbe dire che sta nel lasciare che elementi diversi dialoghino senza che ci sia una prevalenza.
S.B.: Non diamo nessun messaggio di base, piuttosto mettiamo insieme elementi la cui somma è un mondo generato da una serie di scontri e incidenti di percorso—e questo mondo nuovo è il messaggio.
S.T.: Tutto il lavoro di Invernomuto nasce da analisi e ossessione per le storie minori. Penso che non ci sia un messaggio voluto ma un intento sociale di andare a scavare dentro una sottocultura o una cultura, prendere un dettaglio piccolo una storia nascosta e dimenticata e da lì costruire e impazzire e lasciare entrare cose finché il progetto esplode e noi anche.

Quindi gli incidenti di percorso sono parte integrante del vostro processo artistico.
S.B.: Sì, assolutamente sì.

Adesso state a Milano, ma qual è la centralità di Vernasca, perché avete deciso di fare delle cose lì? In che senso stare ai margini è stato centrale per lo sviluppo dei vostri lavori?
S.T.: Noi abbiamo cominciato a lavorare insieme quando vivevamo ancora in provincia di Piacenza, e nello specifico abbiamo cominciato a guardarci intorno alla ricerca delle tracce di questo paesaggio che raccontavano delle storie, degli incipit per andare a analizzare come degli sfondi o dei segni riverberavano dentro le sottoculture. La nostra sfida è stata partire dal nulla.

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Quindi per voi il processo è molto più importante del traguardo, giusto? Questo però vi lascia in balia della possibilità di fallire.
S.B.: Molto raramente decidiamo un goal: partiamo da una serie di elementi senza preoccuparci di come verranno concretizzati, per noi l'importanza sta nel processo, nella crescita di un insieme di idee e di tutti i fallimenti che queste idee nel loro processo generano. L'importante è provare a capire come questi fallimenti e idee nel loro processo si intersecano e arrivano ad avere una forma concreta. Un esempio di questo processo è sicuramente Village oblivia, per cui abbiamo messo 15 cosplayer di Seconda Fondazione in un mondo creato da noi: ma si è generato uno scontro tra codici senza possibilità di dialogo. Sicuramente un fallimento da un certo punto di vista, anche il pubblico reagiva in maniera negativa. Però allo stesso tempo ci ha insegnato tantissimo, il fallimento per noi è un aspetto positivo del processo di lavoro.

Come mai vi chiamate Invernomuto?
S.T.: Invernomuto viene da un romanzo di William Gibson, Il neuromante, quando ci siamo conosciuti all'accademia di Brera entrambi lo stavamo leggendo: Invernomuto nel libro è una matrice. Abbiamo deciso di usarlo perché dava una fotografia molto chiara di quello che era il paesaggio italiano e di qual era la nicchia che volevamo indagare. Ovviamente non ne possiamo più di quel nome.

Rispetto al mercato dell'arte come vi ponete?
S.B.: In passato abbiamo avuto esperienze isolate con gallerie commerciali. Attualmente stiamo iniziando un lavoro con una galleria di Genova per una mostra a fine anno, Pink Summer. Soprattutto in Italia, un lavoro come quello che facciamo è difficile da canalizzare in un sistema di mercato, anche perché il video ha spesso costi che l'arte non può sostenere. Negli ultimi tre anni invece abbiamo iniziato a produrre scultura—ma anche un progetto come Negus che nasce come immagine in movimento, ha generato delle mostre di collage, sculture e altri elementi più facili da canalizzare nel sistema dell'arte.
S.T.: I primi dieci anni di lavoro sono stati un periodo di training che ci ha portato a fare progetti con più sostanza, opere con dieci anni di lavoro alle spalle. E il fatto che siamo arrivati ad affacciarci a un mercato con una consapevolezza maturata in questo lungo periodo è sicuramente un lato positivo che ci rafforza e ci porta anche a viverla in modo un pochino più rilassato.

La vostra idea di cambiamento ha a che fare con la perseveranza, ma anche con il non prefiggersi obiettivi, giusto?
S.B.: Non è importante prefiggersi dei traguardi ma lasciarsi coinvolgere completamente nei processi e alla fine dei conti un risultato positivo arriverà. Failure is not fatal.

"Failure is not fatal" è la #Campaig4Change di Invernomuto. Qual è la tua? Condividila qui.