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ZAM, i sogni non si sgomber... Ah, no

Abbiamo parlato con uno dei ragazzi di ZAM subito dopo lo sgombero effettuato dalla polizia.

Stamattina a Milano è stato sgomberato un posto che conoscevo abbastanza bene, lo ZAM (Zona Autonoma Milano), che da due anni e mezzo a ieri abitava in via Olgiati, in un'ex acciaieria abbandonata da circa un decennio. Come nei migliori film d'azione, le coincidenze e i colpi di scena fanno sì che la proprietà dello stabile si sia svegliata da un paio di mesi dal suo torpore e abbia deciso che fosse ora di riprendersi i propri cocci, guardacaso nel momento in cui i ragazzi di ZAM avevano ripulito anche il primo piano del palazzo e avevano iniziato a costruire un auditorium (un paio di mesi fa, insieme al compleanno di ZAM c'è stato il loro primo film festival).

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Chiaramente le ragioni che il comune ha apportato alla causa sgombero sono le classiche ragioni per cui se il proprietario reclama le mura, indipendentemente dalla storia legale del proprietario stesso o dallo scopo a cui intende votare lo stabile, non ci si può fare niente, perché la legge è legge e la legalità è univoca. So che con la filosofia non si va da nessuna parte, perché tira di più un trattore, ma personalmente ritengo che la sottile linea che separa ciò che è legale e ciò che è lecito non sia tanto sottile nel momento in cui la legge si applica in una sola direzione, come nei casi in cui un'attività culturale istituzionalmente illegale cede il posto a una speculazione edilizia legale.

Arrivo nella via di ZAM quando lo sgombero è praticamente già ultimato, tra le forze dell'ordine e i ragazzi non ci sono state particolari tensioni, nonostante le immagini sensazionalistiche diffuse dai giornali, c'è stata una resistenza organizzata più come simbolo che come atto violento: sono stati esposti pezzi di quello che c'era durante i due anni e passa di attività, e tali pezzi sono stati utilizzati come barricate. Una volta che la ruspa della polizia ha abbattuto una dopo l'altra queste barricate, sono rimasti per un po', sul tetto di ZAM, due ragazzi. Ho parlato con uno di loro, quello a destra nella foto qui sotto, poco dopo che è sceso.

VICE: Ciao Andrea, raccontami com'è andata oggi.

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Andrea: Stamattina si sono presentati davanti a ZAM degli omini vestiti di blu e hanno sgomberato. Io sono salito sul tetto per tentare di difendere fino all'ultimo momento una cosa a cui tengo, che ritengo importante non solo per me e per chi fa parte di ZAM, ma in generale per la città. Dopo un po' di resistenza siamo scesi dal tetto perché ci sembrava opportuno portare il nostro caso per le strade della città, in direzione Palazzo Marino.

Lo striscione all'inizio della via dice, "Da grandi poteri derivano grandi responsabilità" e avete usato come icona l'Uomo Ragno, come mai?

Perché è un supereroe sfigato, precario, che litiga con la fidanzata, è povero in canna e vive in maniera tormentata il fatto di avere un potere che molto spesso non viene riconosciuto dalla città in cui lo esercita, un po' come noi. La nostra responsabilità è quella di promuovere un'alternativa culturale, e noi ci prendiamo questa responsabilità molto volentieri anche se questo comporta un po' di sofferenza.

Quando è nato ZAM?

ZAM è nato il 29 gennaio del 2011 da quello che era il collettivo dei Corsari Milano, un gruppo di azione che ha fatto una lettura sulla città. Erano tanti anni che non c'erano occupazioni, l'ultima era stata la rioccupazione di Conchetta che aveva generato un grande movimento ricompositivo delle realtà occupate ed era riuscito con forza a riprendersi lo spazio.

Ragionando sul fatto che fosse centrale ricominciare ad appropriarsi di spazi in un periodo di crisi, l'idea era quella di fare una tre giorni, una TAZ, ed è stata fatta a fine ottobre 2010 in Viale Molise, in quelli che ora sono gli spazi di Macao. Poi abbiamo continuato a lavorare finché non abbiamo occupato ZAM.

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Come mai avete deciso di chiamarlo ZAM?

Inizialmente non doveva essere il nome, ma il pre-nome. Da un sacco gli spazi si chiamavano CSOA, "centro sociale occupato autogestito", e noi avevamo intenzione di trovare una nomenclatura nuova, anche perché il concetto di centro sociale "classico" probabilmente aveva fatto anche il suo tempo, ora è normale che con l'evoluzione della società cambi anche la risposta, quindi era ora di trovare una nuova definizione.

Abbiamo occupato con la precisa idea, poi non proprio realizzata, di essere uno spazio principalmente diurno, più che notturno. Volevamo creare, oltre alla palestra (forse eravamo uno dei pochissimi spazi autogestiti in Italia ad avere una palestra di arrampicata), anche una cucina, un'aula studio e altre cose che non siamo ancora riusciti a fare. Il nostro scopo era diventare uno dei punti di riferimento per la cultura underground cittadina, una cultura che fosse popolare anche perché a basso costo.

Quello che in questi due anni abbiamo fatto, oltre a concerti e serate, è stato aprire un auditorium e ospitare un film festival, letture, presentazioni.

Sì, sono stata ad alcune delle vostre serate.

Oltre a voler proporre cultura a prezzi molto bassi volevamo cercare ovviamente di passare un messaggio politico: abbiamo ospitato serate come EXIL di Strasse, VodkaVagina, o serate legate al collettivo Ambrosia e prima al gruppo G dei Corsari che in maniera diversa approfondivano questioni legate all'integrazione, quindi all'antisessismo, all'antirazzismo. Anche sul tipo di musica da proporre durante le nostre serate reggae o hip-hop abbiamo fatto scelte precise.

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Oggi avete scelto di resistere allo sgombero in maniera attiva, mi spieghi perché?

Perché uno spazio autogestito, oltre a promuovere attività culturali, passa il proprio messaggio anche attraverso il conflitto. Questo concetto è molto importante perché innanzitutto ci opponiamo ai meccanismi con cui viene divulgata la cultura "canonica". Nel nostro Paese molto spesso la diffusione culturale è legata al profitto, quindi in assenza di fondi si privilegia ciò che è legato a interessi economici. Basta vedere la chiusura di cinema, di teatri pubblici, di sale di concerti. Legare l'arte, la cultura all'economia non permette che ci sia un'evoluzione.

Questo meccanismo del conflitto passa per metodi non propriamente legali come l'occupazione.

Anche questo è un messaggio che vogliamo passare. Il compito di chi prende in mano uno spazio e decide di autogestirlo è anche quello di sottolineare il confine di ciò che è ritenuto legale, ovvero conveniente agli interessi della classe dirigente, per tentare di spostare questo confine. Noi riteniamo che sia molto più legale, eticamente parlando, utilizzare uno spazio abbandonato da dieci anni per organizzarvi attività che ravvivino il quartiere e la città rispetto alla legalità istituzionale in cui rientrano meccanismi di speculazione edilizia e unidirezionalità della cultura.

Avete dialogato con il comune?

Ci stiamo muovendo verso Palazzo Marino per chiedere risposte alla giunta Pisapia, dal momento che l'insediamento di questo sindaco è stato centrale non solo per Milano ma anche a livello nazionale, per i concetti che hanno sostenuto la sua campagna elettorale. Il cambiamento riguardo alla gestione e moltiplicazione degli spazi culturali di cui Pisapia si faceva forte si è espresso principalmente tramite l'istituzione di bandi di concorso, che sono utili magari per associazioni, ma non tengono conto della varietà dei metodi e delle condizioni con cui l'aggregazione culturale avviene, magari anche spontaneamente. Ti faccio un esempio: hanno appena sgomberato l'ex CUEM, in cui per mesi ragazzi avevano lavorato per creare una libreria ed erano riusciti a fare grandi cose. E lo sgombero è avvenuto in forza di un bando che era stato vinto da un'associazione. Strumentalizzando i bandi comunali come unica via di accesso alla produzione culturale, quindi mettendoli in chiara opposizione all'aggregazione spontanea, il comune crea automaticamente una situazione di alterità, cui noi ci opponiamo.

Quando vi è stato comunicato lo sgombero non vi è stata proposta nessuna alternativa? 

No, l'unica risposta è stata una cosa come "lo spazio è privato, non possiamo farci niente". Come se non lo sapessimo. Quello che chiediamo al comune è un dialogo con le realtà autogestite, un passo, mentre noi la voce del sindaco non l'abbiamo proprio sentita, non si è esposto, nonostante i presupposti della sua campagna. Per questo andiamo oggi a Palazzo Marino, per cercare di dialogare direttamente con lui. Non può permettersi di stare in silenzio.

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