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“Il diciottesimo film di Kim Ki-duk”

Kim Ki-duk, alla lezione della scuola di cinema in cui insegnavano a non darsi troppe arie, era assente. Tant'è vero che nei titoli di testa di Pietà si è auto-assegnato quattro ruoli, uno di seguito all'altro.

Questo post appartiene alla nostra serie sul meglio del catalogo Sky Online.

Kim Ki-duk, alla lezione della scuola di cinema in cui insegnavano a non darsi troppe arie, era assente. Tant'è vero che nei titoli di testa di Pietà si è auto-assegnato quattro ruoli, uno di seguito all'altro, perché non solo l'ha prodotto, non solo l'ha scritto e diretto, ma ci ha anche messo i soldi. Kim Ki-duk: il produttore esecutivo dell'autoreferenzialità.

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I titoli di testa del film includono anche la scritta “Il diciottesimo film di Kim Ki-duk”, come se Kim, quel vecchio volpone, ci venisse a fare gomitino dicendo “Credevate che il mio ultimo film fosse Dream, eh? Andate a ricontrollare su Wikipedia, stronzi.”

E cosa ci ha fatto, con questo diciottesimo film, Kim Ki-duk? Ci ha vinto il Leone d'Oro a Venezia.

Pietà è il primo vero gran film di Kim Ki-duk dopo una pausa sconveniente fatta di film pieni di simbolismo-for-dummies e vuoti di effettivo contenuto.

E perché? Perché sottopone ogni guizzo di formalismo alla necessità di raccontare una storia, e infatti Pietà è forse anche il film recente di Kim Ki-duk più imperfetto: è pieno di piccole sovraesposizioni pazze, primi piani non intenzionalmente fuori fuoco, tagli vistosi. Se lo può permettere perché funziona con il meccanismo meglio oliato degli ultimi Kim Ki-duk: incede lentamente, selezionando qui e là bocconi di informazioni da dare in pasto allo spettatore, finché, BARAANG, eccoti tutte le informazioni di cui hai bisogno, spettatore: riordinale secondo la metafora più appropriata, e accetta la dura realtà.

Pietà sembra aprirsi raccontando la vita quotidiana di Kang-do, uno strozzino inespressivo che si masturba nei cuscini e che mutila i suoi debitori per riscuoterne, al posto loro, l'assicurazione a copertura degli interessi. Kang-do è un uomo orribile che si aggira di povero cristo in povero cristo con l'implacabilità di un troll di internet: non mostra la minima empatia, quando ha finito con un debitore, è pronto per andare a bucare il metacarpo a un altro.

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A un certo punto della sua vita di uomo orribile, Kang-do riceve la visita di una signora di mezza età che sostiene di essere la madre che lo aveva abbandonato neonato. Kang-do non le crede. Lei comincia a seguirlo in silenzio, come del resto sono abituati a fare i personaggi di Kim: in Ferro 3 – La casa vuota, il film che gli valse un Leone d'argento, i personaggi si inseguono di soppiatto per un terzo del film.
La donna gli cucina anguille, rimprovera i suoi nemici, fa la maglia in casa. Lentamente, sembra addomesticarlo.

Chinarsi nei frigoriferi: che passione

E così, il primo atto del film è un dramma ben congegnato sul senso di colpa individuale, una riflessione su ciò che l'essere umano è disposto a fare pur di espiarlo. Perché questa madre cerca di farsi perdonare il fatto di aver abbandonato il figlio, ma giunge ad accettare tutto ciò che il proprio figlio rappresenta? Pietà è la versione esasperata di un più generico sentimento materno, e la presenza di Mi-sun, la madre di Kang-do, sembra essere un monito per tutti che, ok, tua madre ti romperà anche sempre i coglioni, ma è la cosa più pucci che ti possa mai accadere.

Il secondo atto del film è anch'esso una riflessione sul senso di colpa individuale, ma ribaltato.

Persino l'immagine della Pietà di Michelangelo, che viene urlata da tutto il film (è sulla locandina, è nel titolo, è nella testa dello spettatore), non è quello che ci si aspetta che sia.

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In molti hanno parlato della “violenza” del primo atto di Pietà, ma non è tanto la violenza fisica a sconcertare: quella avviene quasi tutta fuori campo, quella psicologica no. E la violenza somma, nel film, sembra essere l'offerta di uno spiraglio di ricostruzione che viene, subito dopo, negato.

Non che il piano politico abbia mai la prevalenza assoluta nell'opera di Kim Ki-duk, ma Pietà ha una rilevanza sotto quel punto di vista. Kim ha cercato di offrire l'ultima testimonianza di Cheonggyecheon, un quartiere di Seul ora simbolo della modernizzazione, che un tempo era un quartiere di piccole botteghe industriali i cui proprietari furono gettati in povertà, bolla economica dopo bolla economica.

Il divario tra classi sociali, in Corea del Sud, è devastante, e il cinema spesso non lo riflette nel modo più appropriato: ho visto più film coreani di quanti possa contare sulle dita di due mani—non ultimo il blockbuster dell'estate Hide and Seek, e Bedevilled, curiosamente diretto da un aiuto regista di Kim Ki-duk—in cui i poveri sono generici, lerci e, soprattutto, sono una manifestazione del male.

Non che Kim si soffermi più del dovuto sui problemi dei suoi, di poveri, quelli del film, ma il fatto che riconduca i loro problemi a un problema più vasto e radicato di una sottesa giustizia divina è una boccata di aria fresca, se si considera che Pietà, in Corea del Sud, ha raccolto più di mezzo milione di spettatori in un solo fine settimana. Dopodiché, Kim ha deciso di interrompere le proiezioni, nella speranza di dare spazio a film più che hanno ricevuto meno visibilità da parte dei media.