FYI.

This story is over 5 years old.

Stuff

Intervista agli autori di Boris

I retroscena della serie TV sui retroscena delle serie TV, raccontati dai suoi autori.
boris

Se non hai mai visto Boris mi dispiace per te, però secondo me l’hai visto. Boris è una sitcom italiana che è arrivata alla terza stagione, e nonostante non sia mai andata in onda in chiaro ha avuto un successo enorme. È una metaserie che più meta non si può, porta in scena il dietro le quinte di un’altra serie immaginaria, e inoltre è divertentissima. Ci sono le attrici cagne, i registi disperati, i direttori della fotografia cocainomani, i produttori con processi penali a carico, le maestranze violente e gli stagisti alla canna del gas, che detto così sembrerebbe un programma qualsiasi di Rai Uno, solo che non ti fa venir voglia di appiccare fuoco al tuo condominio. Vi è mai venuta la curiosità di capire come mai certe cose vanno in onda in un paese industrializzato dell’occidente e altre no? Boris è qui a fornirci qualche spunto per la riflessione su questo e altri argomenti limitrofi. Ah, e ci ha dato moltissime espressioni divertenti come “smarmellare” e “a cazzo di cane”. È prodotta da Wilder, per Fox Italia, il suo titolo originale era Sampras e nel marzo di un anno futuro e imprecisato—che qualcuno sospetta essere il 2011—uscirà anche un film nato dalla serie. Mattia Torre, Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico la scrivono e la dirigono. Vice ci ha fatto due chiacchiere. Abbiamo riso moltissimo, detto un sacco di parolacce e li abbiamo persino convinti a farsi scattare una fotografia. Che è una cosa contro la loro religione.

Pubblicità

Vice: Una domanda che non vi avranno mai fatto. Com’è possibile che una serie basata su un concept così prepotentemente da insider abbia appassionato tantissime persone che non sono dell’ambiente e fino a ieri non avevano la più pallida idea di cosa fosse una segretaria di edizione?

Mattia Torre: Quello a cui miravamo era una spiegazione, qualcosa che potesse rappresentare un ambiente di lavoro. Chiaramente è un set, un dietro le quinte. Ci sono dei tecnicismi, però emergono temi presenti ovunque: gerarchia, precariato, violenza, mancanza di comunicazione e di condivisione. E poi i personaggi.

Giacomo Ciarrapico: Ci sono un sacco di serie che partono da mestieri che non conosco. Non so come funziona un ospedale, però se gli autori sono bravi allora te lo insegnano. Non è che solo i medici possono guardare E.R.

MT: Quello che speriamo è che racconti anche la storia del paese, che la specificità del mestiere vada un po’ in secondo piano. Una metafora.

Avete una libertà creativa incredibile. Direi che siete gli unici a potervi permettere della satira così esplicita. Com’è questa storia?

Luca Vendruscolo: Be’ il rapporto con Fox si è basato sostanzialmente sulla loro inesperienza, sulla loro verginità. [ride] In realtà è una cosa che hanno scelto e deciso. Hanno capito che se volevano fare una fiction diversa dovevano assoldare qualcuno che non facesse parte di quel mondo. Non avevano persone plasmate da un altro tipo di ambiente.

Pubblicità

Per esempio persone sotto i 92 anni.

LV: [ride] Sì, per esempio. O comunque persone che non avevano fatto La Squadra o Un posto al sole.

MT: Alcuni non erano neanche italiani, pensa. Incredibile.

LV: In un secondo momento hanno cercato di introdurre un editor. Il rapporto con lui è stato da subito conflittuale. Finché non siamo riusciti a farlo fuori.

MT: E senza commettere reati. [ride]

LV: Si sono resi conto che lavoravamo facendo gli editor di noi stessi e che era meglio così.

Quindi i problemi non sono arrivati all’inizio, ma dopo. Avete dovuto difendere la serie da interventi che l’avrebbero snaturata.

LV: Sì. Dopo un primo anno selvatico, che secondo me è andato bene…

GC: Secondo me la vera libertà è arrivata dopo il primo anno. Avevano tolto tantissime cose. Poi hanno visto che la serie funzionava proprio perché si superavano delle paure e hanno cominciato a incitarci.

LV: Sì, però il secondo anno è stato anche quello in cui ci hanno messo l’editor.

MT: No, vabbe’ è che c’erano due binari: da una parte una questione di contenuti, e lì loro hanno capito che più ci si differenziava, più si era ruvidi e liberi e più il pubblico godeva. Magari erano più prudenti su altri aspetti. Di libertà ce ne hanno data tanta. D’altra parte però Boris 1 era considerato sempre troppo caotico e disordinato. Ci chiedevano una maggiore compiutezza, più solidità, e a noi è sembrata una cosa interessante. Poi sperimentavamo di volta in volta. [a Ciarrapico] Ti ricordi?

Pubblicità

GC: Avevamo la parete piena di fogli e foglietti…

LV: Poi, il primo anno, c’è stato un caso, accaduto proprio per tutto questo terrore che la rete aveva. Quello di non fare proprio quella puntata lì.

GC: Sì, la decima puntata della prima serie. Se ci fai caso è una puntata molto strana. È quella della conferenza stampa. Era nata perché a un certo punto della serie ci era venuta voglia di fare un documentario sulla fiction italiana. Iniziava con una cosa surreale, incredibile: un’intercettazione telefonica fra il Dottor Cane [il personaggio che rappresenta la dirigenza del network, nella serie] e un’altra persona. Era esattamente un anno prima della famosa telefonata di Berlusconi ed era nettamente più all’acqua di rose. [ridono] Ma pareva una provocazione gigantesca.

LV: Oggi sarebbe sembrata una cosa banalotta.

GC: Sul momento ci dissero che era troppo provocatoria e che non avrebbe funzionato, e ci siamo fatti convincere. Abbiamo cambiato la puntata.

Visto che siamo in argomento “paura”, parliamo un po’ della TV italiana. Perché tutto funziona così male? Sembra che ci si rivolga a un pubblico anzianotto e poco acculturato. È una scelta controproducente. Da un punto di vista economico è il target di persone meno lucrativo in assoluto. Da quello artistico si tratta di un pubblico che non permette nessuna innovazione di linguaggio. Perché continuano a rimanere attaccati a questo tipo di programmazione?

Pubblicità

MT: Perché per loro funziona. Hanno un ritorno, hanno degli ascolti, hanno delle inserzioni pubblicitarie. La macchina procede. Il fatto che poi non costituisca alcuno stimolo intellettuale, culturale, a loro non importa niente. A volte sembra che ci si preoccupi solo di difendere la posizione, non di sperimentare, rischiare. Ma per cosa poi? Tanto le cose vanno bene così, no?

GC: Io ho una risposta più dietrologica. Se vuoi piacere a una fascia di popolazione che non ha molto da chiedere alla vita è come dire che speri che in Italia nessuno in generale abbia più molto da chiedere. E poi è più facile da scrivere. Di un dialogo banalotto puoi scriverne venticinque pagine in botta. Di un dialogo più complesso puoi scriverne al massimo due-tre pagine al giorno. Costa di più.

LV: C’è una certa sclerotizzazione. L’abitudine a fare le cose sempre in un certo modo. Il tipo di spettatore che loro si sono immaginati negli anni è diventato quello che hai descritto. Il fatto è che poi questo tipo di prodotti funziona.

C’è una gerontocrazia dilagante.

LV: Sì. Sono prodotti quasi pedagogici—in senso negativo. Potresti provare a dire qualcosa di sensato con le sitcom, raccontare il mondo. Invece inquadri una macelleria con un’insegna che dice, “Macelleria da Ugo”, e poi ci fai passare un personaggio che dice, “Oh, guarda la macelleria di Ugo!” perché il pubblico non ha voglia leggere, oppure non sa cosa significa la parola “macelleria”. [ridono] Così si abbassa tutto. Io credo si dovrebbe fare il contrario.

Pubblicità

MT: Raccontare un posto di lavoro, un mondo, è complicato e anche stimolante. Noi ci poniamo sempre problemi come, “Capiranno cosa vuol dire piano sequenza?” Poi cerchiamo di dare gli strumenti allo spettatore per capirlo. E speriamo anche che se uno ha voglia, è curioso, lo chiede.

Riuscite a farlo in modo non didascalico. Non si tratta di, “Oh, guarda la macelleria di Ugo.”

MT: Ci sono delle serie americane di cui io non capisco una mazza. Ci sono certi dialoghi del Dottor House che io sto lì, mi dico, “Bah, speriamo bene.” [ridono] Ma non so davvero se ha detto qualcosa di positivo o negativo.

Ecco, parliamo di serie americane. Boris è una serie metatelevisiva. Nonostante la forte caratterizzazione italiana si inserisce perfettamente nella tendenza internazionale della sitcom, passata dalla focalizzazione sulla famiglia, negli anni Novanta, a quella sul posto di lavoro, con moltissimi esempi ben riusciti come The Office e Parks and Recreation.

MT: Quando le fiction americane che arrivavano erano cinque o sei io le guardavo tutte. Adesso che sono diventate milioni non riesco a seguirle. The Office mi piace molto. Ho seguito quello inglese, che rispetto a quello americano è tutta un’altra cosa.

LV: Io sono quello che le segue di più, ma relativamente, ecco, sono più dei buoni propositi. Forse lo farei con più costanza se dovessi affrontare una serie “seria”, un dramma con puntate lunghe, da cinquanta minuti. Il nostro è un prodotto artigianale, in questo senso.

Pubblicità

GC: Con Scrubs abbiamo trovato qualche affinità.

LV: È molto divertente e molto ben fatto, però è un prodotto industriale. Quello che rende unica Boris è che è una serie militante. Ha un obiettivo polemico. Non vuole raccontare le contraddizioni generiche di un mondo, vuole proprio sfondarlo. Quando abbiamo visto con Scrubs e The Office abbiamo preso delle cose precise, come lo stratagemma dell’ultimo arrivato per introdurre gli spettatori in un mondo e la minaccia della chiusura dell’ufficio. Però la comicità abbiamo dovuto inventarcela, non somiglia a niente. Non è americana perché rischi di ottenere solo uno stile di plastica, con battute che lì suonerebbero naturali e qui non lo sono affatto.

GC: In Boris si amano i personaggi cattivi. Noi abbiamo una gran difficoltà a far ridere con Arianna [il personaggio dell’assistente alla regia, nella serie] con cui ci identifichiamo completamente. Invece con Stanis [l’attore, nella serie] o con Duccio [il direttore della fotografia] che sono personaggi con cui non abbiamo niente in comune ci divertiamo come dei ragazzini. Eppure sono delle specie di mostri.

Boris non assomiglia neanche alla commedia italiana.

MT: Di questo sono molto felice. Ci ragionavamo ultimamente. Direi che forse non se ne può più di questo mito della commedia all’italiana.

GC: Adesso però non andare a dire in giro che diciamo queste cose! [ridono]

MT: Sai tutti i registi, “Io mi sono ispirato a Monicelli.” Due palle, dai! È finita quella roba là! È finita.

Pubblicità

GC: In pubblico naturalmente ci sentirai dire l’esatto contrario. “Ci ispiriamo alla grande commedia all’italiana e ai grandi maestri come Monicelli perché…” [ridono]

Ma funzionerebbe Boris in chiaro?

GC: Magari in seconda serata su Rai Tre.

MT: Ma ci sarebbero mille collocazioni, magari su La7, ma dove te pare guarda. [ridono]

Nell’ultima stagione avete alzato un po’ il tiro. Arrivano le parolacce, la parodia su un prodotto di punta venerato in rete, Tutti pazzi per amore. Quanto si sono incazzati?

MT: Guarda, la metafora può essere sgradevole, lo so, ma Boris è come una mitraglietta. A volte qualche colpo parte per errore. In realtà all’inizio non era così deliberato. Dopo un po’ ci siamo resi conto, “Cazzo ma è proprio Tutti pazzi per amore.” È venuta fuori un po’ brutale, ecco.

GC: Dopo sembriamo la sinistra italiana che attacca il centro sinistra e viceversa, dai. Comunque a me Tutti pazzi per amore fa cagare.

Quindi la comicità non è apprezzabile se non c’è un obiettivo polemico, se non si fa satira.

LV: Assolutamente.

MT: Sono tre anni che scriviamo Boris e abbiamo ancora il furore.

GC: In Svezia non faremmo ridere nessuno, ad esempio.

MT: Ti dico un segreto. Quando Veltroni si è presentato alle elezioni noi abbiamo pensato che avrebbe vinto e migliorato il paese e noi avremmo chiuso. [ridono] Poi fortunatamente tutto è andato a puttane e siamo ancora qui.

Dinamiche creative: siete un gruppetto chiuso e secolare che si conosce da sempre e lavora sempre insieme?

Pubblicità

MT: Sì: siamo sempre noi e ci scambiamo tutti i ruoli possibili, dal molestatore, all’intrattenitore al prenotatore di ristorante. [ridono]

In Boris si riproduce un meccanismo molto comune, quello delle pesanti interferenze del network nella gestione dei contenuti. Vi è mai successo?

MT: Luca e io abbiamo lavorato per anni a una soap-opera, Cuori rubati. Poi ha chiuso. E lì succedeva di continuo. È da lì che vengono molti pezzi di Boris—da quella tragedia.

LV: Io ho lavorato per un’altra soap-opera orribile. Ero al gradino più basso, il dialoghista. Mi arrivavano questi soggetti, e li dovevo sceneggiare. Non so perché, ma tutte le correzioni fatte dalla rete erano in grassetto e quindi rintracciabilissime. Una volta hanno infilato questo intruso senza alcun senso nella storia d’amore fra due ragazzi: arrivava inspiegabilmente un prete buono. Vedevi questi due che si preparavano per andare al mare e poi in grassetto, “E poi arriva Don Michele”. [ridono] Ma non aveva alcun senso all’interno della storia, stava lì, diceva delle cose…

Diceva delle cose buone random e se ne andava.

LV: Esatto. [ridono]

MT: Poi c’è la cosa della droga, l’abbiamo messa anche in Boris, il network voleva che Stanis dicesse di aver trovato il bagagliaio di un’auto “pieno di DROGA” così, senza specificare. Poi ’sti soggetti che ti arrivano da sceneggiare sono anonimi, capito? Senza firma, così non sai niente.

GC: A me non è mai successo, però mi hanno raccontato che non si può dire buddismo, perché non sanno bene come cazzo gestirlo. Se scrivi, male dell’Islam va bene, oppure se scrivi bene del Cattolicesimo è a posto, ma il buddismo no che non ci si capisce un cazzo. [ridono]

MT: Poi le vecchiette si disorientano. [ridono]

La comicità riuscita scaturisce sempre da un insieme di fattori molto complesso. Siete dei maniaci della sceneggiatura o lasciate spazio agli attori?

GC: Cambiamo in continuazione, perché ovviamente ci fa cagare tutto quello che abbiamo scritto. [ridono]

MT: Spesso, per la gioia di operatori e di tutto il cast tecnico, lasciamo gli attori a improvvisare un po’ dopo la chiusura, per vedere se ne viene fuori qualcosa di interessante. Però statisticamente finiamo più spesso a rimanendo fedeli alla sceneggiatura.

LV: Facciamo in modo che il meccanismo comico che ha funzionato nella stanzetta in cui scriviamo funzioni anche sul set. A volte immagini una cosa che ti sembra che funzioni e poi non fa ridere, ti trovi spiazzato.