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Il letteralmente del mese

Puntuale come un orologio svizzero senza batteria, ritorna la nostra rubrica di recensioni letterarie.

Puntuale come un orologio svizzero senza batteria, ritorna la nostra rubrica di recensioni letterarie. Questo mese abbiamo recensito per voi: i colpi di scena di Pira, il lato selvaggio della California anni Ottanta, una cittadina russa fotografata da Rob Hornstra, gli outsiders di Gilles Larrain, il nuovo libro di Ragnar Persson, tutti i menu d’America e l’ultima fatica di Johnny Ryan, un geniale mix tra l’iperviolenza e l’iperlunghezza di Berserk e l’estetica raffinata di Power Masters.

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GATTO MONDADORY E IL TELEFONINO FATATO | Dr. Pira | Grrrzetic

Non so cos'altro dire sul Pira. Pubblichiamo i suoi fumetti da 6 anni. Ne ho parlato e scritto lodandolo ininterrottamente da quando l'ho conosciuto, su un treno Firenze-Milano, nel 2005. Più di questo che devo dire? Che mi piace? Se non mi piacesse non l'avrei pubblicato tutti i mesi per 72 mesi di fila (con alcune pause, tipo sui Photo Issue). Tolta questa considerazione generale, quindi, che dire del suo ultimo sforzo, che è anche il suo primo graphic novel, Gatto Mondadory e il telefonino fatato? Beh, prima di tutto, c'è da dire che è un fantasy totalmente assurdo e demenziale che segue, però la trama classica del romanzo d'avventura/fantasy (la missione dell'eroe ecc.). Poi c'è da dire che, per quanto adori i fumetti del Pira, non avevo mai letto un suo sforzo più lungo di Gimba - Il campione mascherato del minigolf, che è tipo 20 pagine. E quindi, l'unico dubbio che avevo, prima di vedere il libro, era legato alla capacità del nostro di reggere una narrazione continuativa di decine e decine di pagine. La forza del Pira, per me, è sempre stata legata all'immediatezza. Perdersi su fumettidellagleba.org per due ore funziona perché ogni fumetto lo leggi in dieci secondi, e poi passi a quello dopo. E la costante alternanza tra personaggi, stili, colori, trame e situazioni rende tutto fresco e mai stantio. Ma leggere la stessa storia per due ore di fila è tutt'un'altra bestia. Dubbi leggittimi, penso. Ma subito fugati, perché il Dottore è riuscito nell'impresa di reggere una narrazione lunga, pur mantenendola fresca di capitolo in capitolo, introducendo una quantità mostruosa di colpi di scena—uno a capitolo, almeno. E poi, tolto anche questo punto, cosa c'è da dire? Beh, senza tirarla per le lunghe, Pira è il solito genio inventivo che spruzza dozzine di idee brillanti ovunque, i suoi dialoghi sono sempre buffissimi, e il libro in se è proprio bello, cartonato, con gli inserti dorati, la carta spessa, e i numeri di pagina romani, scritti a mano dal Pirelli. E poi nel fumetto c'è la mia versione preferita di Mago Merlino: uno stronzo forzutissimo che spacca tutto a pugni, vuole sempre bere, interrompe bruscamente gli altri se lo annioano, è generalmente antipatico e non cambia mai espressione. Cuoro.

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TIMOTEO PICCOLO

SURF RIOT | Nick Waplington | Dashwood

A volte, per fare foto che valga la pena fare, e soprattuto vedere una volta fatte, bisogna avere culo. Tanto culo. Bisogna trovarsi nel fatidico "posto giusto al momento giusto," quando qualcosa di pazzo/strano/stupendo (tanto meglio se tutto allo stesso tempo) sta accadendo. Ovvio che bisogna anche avere la capacità di sfruttare situazioni del genere, e far sì che questi colpi di fortuna possano alla fine ritenersi davvero tali. Surf Riot è frutto di uno di questi casi: botta di culo unita a bravura del fotografo, ovvero l'inglese Nick Waplington. Il mattino del primo settembre del 1986, Nick sente alla radio la notizia di un incidente aereo, uno scontro tra un DC9 e un velivolo leggero in cui sono rimasti uccisi piloti, passeggeri e gli sfortunati che si trovavano nelle case di Huntington Beach dove i resti dell'aereo sono andati a cadere. Dopo essersi recato sul posto, dove sarebbe comunque andato per assistere a una gara di surf, Waplington si ritrova nel mezzo di una delle rivolte più scenografiche e potenzialmente devastanti mai verificatesi in quella zona. Cinquemila persone, tra cui vari surfisti impazziti, contro dieci poliziotti, in un'esplosione di violenza collettiva totalmente casuale e spontanea. Waplington aveva solo un rullino con se, 25 scatti che, coma dicevo sopra, ha saputo sfruttare al meglio. In Surf Riot, il candido immaginario dei biondi surfisti californiani, cominciato con i Beach Boys e rimasto ancora oggi intatto nella memoria collettiva, viene letteralmente preso a calci in culo dal lato selvaggio degli anni Ottanta, che emerge in tutta la sua esuberanza nelle foto di Waplington. Esuberanza che ora è finita racchiusa in una pettinatissima e costosissima edizione di sole 300 copie, pubblicata da Dashwood.

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LORENZO MAPELLI

SOCHI SINGERS | Rob Hornstra | Autoprodotto

Esce a novembre la terza pubblicazione annuale del nostro amico Rob Hornstra. Se volete che Rob diventi anche amico vostro dovete fare due cose: a) guardare il mini-documentario che abbiamo girato su di lui così la prima volta che berrete una birra insieme eviterete di fargli domande cretine tipo “Perché vai tre volte l’anno in Russia?” e b) dargli dei soldi. “Dare dei soldi” è un regalo perfetto—meno pacchiano di un giro sul tram-ristorante, decisamente più sincero di un libro sul packing design nella Germania dell’Est e più utile di un pigiama di flanella. E, nel caso specifico, “Dare dei soldi a Rob Hornstra” è un modo efficace per aumentare il tasso di produzione di libri fotografici belli e indipendenti. Infatti, il giovane olandese con la parlata monotona è un ottimo fotografo, uno slow journalist e una macchina produci-libri e tutto questo grazie alla mossa geniale del pre-sale. Con il primo libro pubblicato in questo modo, Communism & Cowgirls, Rob è arrivato a Paris Photo, Ny Photo e un’altra cifra di festival dove ha fatto incetta di premi. Il prossimo libro si chiamerà Sochi Singers e, chi l’avrebbe mai detto, raccoglierà dei ritratti fatti ai cantanti da ristorante di Sochi, la cittadina russa che nel 2012 ospiterà le Olimpiadi e che, più in generale, ogni estate ospita quintali di panze e chiappe russe in cerca di un po’ di abbronzatura. Il libro ha diverse cose che mi piacciono molto: la rilegatura sul lato alto che lo fa sembrare un album, stralci di canzoni russe che parlano di amori perduti, nostalgia e dura vita nella taiga, un testo che spiega la scena musicale popsa (chanson sovietica + techno = popsa = wow) e ovviamente le foto, ma quelle è inutile che ve le spiego—sono belle.

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SERENA PEZZATO

IDOLS | Gilles Larrain | powerHouse Books

Nel 1973 viene pubblicato per la prima volta il libro Idols di Gilles Larrain. Sul Village Voice, uno dei settimanali più famosi e longevi di New York, le fotografie pubblicate su questo libro vennero giudicate come “l'incarnazione della moda”, roba da far impallidire Vogue. Peccato che Larrain detesti la moda, e i soggetti di Idols non abbiano nulla a che fare con quel mondo, almeno finché lo stesso Larrain non li rese degni di essere guardati non solo come dei pacchiani outsider. Gli "idols" del titolo sono un folto gruppo di travestiti, transessuali e altre personalità della New York degli anni Settanta, nei primi anni del movimento per i diritti degli omosessuali, che passavano per il leggendario studio di Soho di questo fotografo interessato alla stravaganza. Larrain racconta che ogni tanto si ritrovava circondato da una ventina di persone che iniziavano a scambiarsi i vestiti più appariscenti e i trucchi più pesanti che ci si possa immaginare, mentre lui dipingeva d'oro e mille colori gli sfondi per i ritratti (prima di arrivare a New York e diventare fotografo, Larrain era pittore e uno dei nomi di spicco dell'arte cinetica, nella fase in cui stava per trasformarsi in op-art). Sotto una luce che nulla offusca o cerca di rendere "romantico" o "maledetto", ma che sembra voglia prenderti a schiaffi, come quella che ti si infila negli occhi al mattino quando lasci le tapparelle alzate, questi idoli sembrano dire, "Be', noi ci stiamo divertendo un mondo. Tu, invece?" Ponetevi questa domanda quando guardate le foto. Grazie a quei dritti di powerHouse che hanno deciso di ripubblicare questo splendido libro con l'introduzione di Ryan McGinley, che tra l'altro ha intervistato il fotografo per noi un annetto fa (perché anche noi siamo dei dritti. Autoreferenziali, ma dritti).

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CHIARA GALEAZZI

SLEEPING VILLAGE | Ragnar Persson | Happa-no-Kofu

Il fatto che non capisco una mazza di arte mi porta ad approcciare la stessa in un modo trasversale, in pratica apprezzo soltanto le opere di cui posso capire la genesi e lo sviluppo. Cioè, la Guernica non mi diceva niente finché non ho visto i passaggi con cui Picasso ha progressivamente attorcigliato tutte le figure. E la stessa cosa mi succede con le illustrazioni di questo giovanotto cresciuto in un paese buco di culo del nord della Svezia, Tavelsjö; me lo immagino che gira per i boschi con un paio di matite in tasca e un quadernino ingiallito e si mette a disegnare cavalli molto in forma e belle ragazze che prendono la via buia della foresta circondate da branchi di lupi e metallari mangiapipistrelli. Mi sarebbe piaciuto fare lo stesso per le vie di Milano se Madre Natura non si fosse scordata di me quando distribuiva il talento artistico. Le illustrazioni di Ragnar Persson sono sdrammatizzate e valorizzate da un vigore adolescenziale che le rende tangibili e familiari, lui si prende talmente poco sul serio che ad alcune lascia attaccati pezzi di scotch e su altre ha evidentemente appoggiato una tazza di caffè. La parte più fica dei suoi disegni però sono le chiazze nere con cui cancella quello che non gli va a genio, così, come farebbe un tuo compagno delle medie che ti ha scritto HASTA LA VISTA SIEMPRE CEGHEVARA sulla Smemo. In questo volume uscito per Happa-no-Kofu a solo un anno di distanza da Feel The Darkness, oltre ai disegni di Ragnar troviamo anche una mini photozine e alcune sue riflessioni sui posti in cui è cresciuto, cosa che chi la pensa come me sull’arte apprezzerà senza dubbio.

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VIRGINIA W. RICCI

MENU DESIGN IN AMERICA | Jim Heimann (a cura di) | Taschen

Già dalle prime righe di introduzione si scoprono cose, tipo che esiste una golden age dei menù dei ristoranti americani. Davvero. Come con i fumetti, solo che invece di essere un ventennio (la cosiddetta età dell'oro dei fumetti va tradizionalmente dagli anni Trenta ai Cinquanta, più o meno dal debutto di Superman fino al lancio degli horror della EC) copre un secolo e un quarto, a partire da metà Ottocento. Alcune domande rimangono però senza risposta: a me interesserebbe ad esempio sapere come viene classificato fra i collezionisti lo stato di conservazione dei menu, tipo da fair a near mint. Immagino sia molto complicato trovarne uno senza neppure una macchiolina di caffé. Il libro non fornisce informazioni al riguardo, peccato. In compenso ci sono centinaia di riproduzioni di queste carte, e non fatico a credere che i clienti un tempo se le portassero spesso a casa come souvenir: tutte stupende, con copertine e decori in stili che vanno dal costruttivista al pop. Una bomba. Chissà perché oggi invece, anche nei ristoranti più pettinati, al massimo ti danno un A4 ripiegato e stampato con font Brush. Pensare che il grafico è ormai il mestiere più diffuso nel terziario dopo il giornalista e l'avvocato. Boh. Comunque. Menu Design in America è curato da Steven Heller, che dichiara in curriculum 120 libri su design e illustrazione, dal critico gastronomico di Esquire John Mariani e dal grande capo della Taschen americana, Jim Heimann, che come tipo dev'essere il classico zio super-nerd con la casa che trabocca di collezioni assurde. Ci vorrebbe più gente come lui, al mondo.

MICHELE R. SERRA

PRISON PIT: BOOK THREE | Johnny Ryan | Fantagraphics

Il grande fumetto d'azione giapponese iperpopolare, come Dragonball Z o Berserk, non è solo interessante in quanto iperviolento o divertente. Anzi. La cosa più interessante, secondo me, è che ti mette in trance, tramite l'espansione estrema dei momenti d'azione—e la conseguente sospensione dello sviluppo narrativo tradizionale. Quando, in altre parole, il lettore divora 60 pagine in due minuti, perché in realtà non sta leggendo praticamente nulla, ma sta solo assistendo alla successione di tantissimi micro-gesti, e poi deve aspettare due settimane per le prossime 60 pagine, e anche lì la trama procede di pochi istanti; quando il fumettista prende una cosa e la allunga all'infinito e sospende la trama e si prende un anno e 1000 pagine per far accadere cose che altri fumetti risolvono in 20 pagine—che altro termine per definire quella specie di limbo perenne? Anche Prison Pit, il capolavoro di Johnny Ryan, è un po' così. Narra le avventure di Cannibal Fuckface, una specie di luchador imbattibile coperto di sangue, senza naso, e coi denti da squalo, in una prigione / deserto sotterranea, dove non fa altro che menarsi a sangue con tantissimi mostri assurdi. È evidentemente un tributo a cose come DBZ e Berserk (ne ha già parlato lo stesso Johnny), filtrato attraverso l'estetica di JR e portato a livelli ancora più estremi. Sia DBZ che Berserk iniziano in maniera abbastanza standard: si introducono i personaggi, c'è un conflitto, e poi iniziano a fare la cosa che fanno—in DBZ si saccagnano di botte, in Berserk si saccagnano di spadate. Solo che, generalmente, dopo il primo atto, gli autori hanno deciso di smetterla coi dialoghi, coi personaggi e con una trama quantomeno logica, e hanno iniziato a prendere gli scontri ed estenderli, ed estenderli, ed estenderli ancora, come se fossero la pasta della pizza più lunga del mondo. Forse era solo per esigenze commerciali: per dire, se lo scontro finale di DBZ avesse occupato 5 volumi—come facevano le prime—al posto di 35 volumi, la casa editrice avrebbe venduto 30 volumi in meno (e ne vendevano milioni a botta) e i disegnatori e gli inchiostratori e i letterer e tutti gli altri sfigati del fumetto avrebbero ricevuto un botto di mensilità in meno. Forse, c'è anche la mano dell'artista, che si perde nel disegno d'azione (molto più divertente da fare che il disegno da dialogo, chiedete a qualunque fumettista) e trova nell'estensione e la sospensione illogica e assurda uno schermo dietro al quale nascondere una ricerca del tratto e dell'impaginazione sempre più meticolosa. Fatto sta che, alla fine della fiera, in Berserk, ad esempio, il pubblico si sorbisce scontri tra mostri medievali iperviolenti che durano 500 pagine. Ma, alla fine, le costrizioni temporal-economiche-sociali che hanno trasformato quella che doveva essere una trama di 100 pagine in una trama di 10,000 pagine non contano davvero. Alla fine ti trovi in mano, semplicemente, un fumetto di 10,000 pagine. Tutto qui. E Johnny Ryan, che era fino a poco fa "solo" un maestro del fumetto brevissimo, disgustoso e demenziale, prima di iniziare PP si è chiaramente innamorato di questa macro-narrazione—spogliandola però della benchéminima pretesa di trama, tagliando, in altre parole, tutto il lavoro di introduzione e di dialogo, e tenendone solo la ripetività assurda—esattamente allo stesso tempo in cui s'è preso bene per cose come Power Masters di C F o il lavoro di Benjamin Marra—cose artistiche, con tratti particolari, personali, anche basilari, ma che raccontano storie d'avventura senza la minima ironia. Johnny, quindi, modifica il suo tratto, rendendolo ancora più intenso, e nervoso, e lavora sempre meglio sul bianco e nero, tutto mentre disegna Cannibal Fuckface che non fa altro che prendere un sacco di botte iperviolente da una varietà assurda di mostri, e darne e darne e darne e darne ancora senza mai risolvere niente, senza spiegazioni, o costruzioni di trama attorno alla violenza, senza perché. Alla fine, Prison Pit è proprio questo: un improbabile quanto geniale trait d'union tra l'iperviolenza e l'iperlunghezza di Berserk e l'estetica raffinata di Power Masters—tutto con l'aggiunta del senso d'umorismo ridicolo tipico del lavoro di Johnny. E con un pelo—giusto un pelo—di ironia in più. E con tante parole in meno. In questo terzo volume—120 pagine—ci saranno in totale 38 parole scritte. Tutte frasi molto minimali. Es. quando C.F.F. viene accoltellato alla schiena, urla WHAT THE FUCK IS THIS BULLSHIT, quando viene assalito da un mostro fatto di poligoni e schiva i suoi pugni, dice HAHA FUCKING LAME. In questo volume viene anche introdotto il nemicone di C.F.F.—uno scricciolo iper-potente e indistruttibile coi capelli lunghi e quattro occhi da serpente—che viene anche lui buttato nella prigione sotterranea, e subito viene ammazzato di botte, e poi viene mangiato da un mostro, che poi va a pisciare, e lui gli esce dal cazzo strappandolo a metà e portandogli via tutte le interiora. Cosa che mentre lo leggevo in redazione mi ha fatto balzare le sopracciglia e fare la faccia schifata e esclamare ad alta voce NOOOO EWWWWW AHAHAHAHAHA CHE FIGATA, e mai ci fu frase più appropriata per descrivere Prison Pit.

TIM SMALL