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Il problema di scrivere "Me Too"

Le donne stanno denunciando sui social le violenze o le molestie subite. Ma non dovrebbe essere questa l'unica strada percorribile.

Quando ho aperto Facebook questa mattina, la prima cosa che ho visto è stato lo status di una cara amica. Diceva, "Me Too" [anch'io]. Anche senza contesto, sapevo esattamente di cosa stava parlando.

Lei e altre vittime di molestie stanno pubblicando queste parole in segno di solidarietà, e per rendere chiaro quanto queste stesse molestie siano diffuse. Tutto è cominciato con l'attrice Alyssa Milano, che domenica ha scritto su Twitter: "se tutte le donne che sono state molestate scrivessero 'Me too' come status, potremmo dare un'idea della reale dimensione del problema." Tutto ciò succedeva nel mezzo delle denunce di molte attrici delle molestie subite da parte di Harvey Weinstein. Solo lunedì mattina, circa 6 milioni di utenti Facebook avevano risposto all'appello.

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Ho subito capito che era a questo che faceva riferimento lo status della mia amica, perché "è successo anche a me" è quello che le vittime si dicono sempre per rassicurarsi a vicenda. Lo scriviamo alle amiche che denunciano una violenza online, ce lo diciamo a mezza voce la sera davanti a un bicchiere di vino. Non sei sola. Non sei tu il problema. Io ti credo. Continuando a scrollare, oltre un sacco di Me Too, ho visto che Facebook rifletteva una cosa che già sapevo: che nonostante le statistiche dicano che a subire molestie è una donna su quattro, la vasta maggioranza delle donne che conosco ha subito abusi. Le nostre sono storie di sopravvissute.

Io stessa ne ho fatto esperienza, e anche io ho postato Me Too. Farlo, secondo me, è importante per molteplici motivi. Per esempio perché dimostra alle vittime che c'è un'intera comunità che le sostiene, che le protegge come può. E questo può farci sentire al sicuro anche solo per un minuto, ci può far pensare che non siamo sole. Questi movimenti possono anche essere importanti a livello di raccolta dati, in un mondo in cui le molestie sessuali spesso non vengono ancora denunciate. Secondo statistiche canadesi, per esempio, nei casi in cui l'aggressore non è il partner della donna, solo un episodio su 20 viene denunciato. Per gli altri crimini, si parla di uno su tre. E questo dipende dal fatto che, nonostante a livello culturale se ne parli sempre di più, sulle molestie esiste ancora uno stigma. Se qualcuna decide, alla fine, di denunciare i fatti, essere creduta non è automatico. Esiste ancora il mito dello stupro. Ci danno ancora la colpa perché indossiamo minigonne, siamo amichevoli con gli uomini, osiamo uscire di casa e bere alcol.

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Se movimenti come Me Too dimostrano che la molestia sessuale è un problema sistemico, non fanno che dire alla gente cose che avrebbe dovuto sapere se solo avesse preso sul serio donne e vittime. Sono decenni che parliamo delle aggressioni che subiamo. Abbiamo già fatto campagne sui social. Abbiamo avuto #YesAllWomen, abbiamo avuto #BeenRapedNeverReported. Moltissime donne si sono già espresse contro uomini di fama: in 50 hanno accusato Bill Cosby di essere un molestatore. Almeno otto hanno accusato Jian Ghomeshi. Perché la gente si sorprende adesso? Perché non basta mai una singola denuncia? Come ha scritto su Facebook la mia amica Kasia Mychajlowycz, giornalista e producer newyorkese: "Se c'è qualcuno che pensa di non conoscere donne che hanno subito abusi, è perché non ascolta le donne, ed è colpa sua. Sono stanca di dover tirare in ballo numeri giganti, quando il punto è che alla gente comunque non interessa."

Jennai Bundock, a sua volta vittima di violenze e attivista, dice che ogni movimento che metta al centro solo le vittime incontrerà dei problemi.

"Parliamo di abusi e violenze contro le donne. Ma così sembra che sia una cosa che succede alle donne, che succede e basta. È una nebulosa, un tutt'uno con il fatto di essere donna. Così facendo non parliamo degli uomini violenti, non parliamo del silenzio. Non parliamo dei motivi del silenzio."

È sbagliato cominciare ogni frase con le parole "Se tutte le donne che sono state molestate o violentate…" come ha fatto Alyssa Milano e come facciamo tutte noi. Quando lo facciamo, mettiamo sulle vittime il peso di provare che lo stupro a) esiste e b) è un problema sistemico. Diamo per scontato che chi parla da quel momento sarà al sicuro. Le molestie sessuali sono considerate "un problema delle donne" e quindi una nostra responsabilità. È un po' l'analogo di chiedere alla donne di non mettersi la minigonna per evitare di essere stuprate. Dobbiamo mostrarci in pezzi al grande pubblico nella speranza che qualcuno ci assicuri la sua pietà sotto forma di "ti credo" e, che in qualche modo, questo porti qualche beneficio.

"Alle vittime si chiede di denunciare o entrare in guerra con il loro aguzzino. È un fardello immane," dice Bundock. "L'unica cosa che penso potrebbe aiutare è spostare totalmente il focus lontano dalle donne."

Per ora, per gli uomini cis che condividano le loro storie di persone che hanno superato il proprio lato violento c'è poco spazio. Forse c'è bisogno di cambiare questa cosa, e forse no, ma intanto, penso che debbano farlo tra di loro, lontano dall'occhio mediatico, e che non si aspettino certo dei grazie da parte nostra. Dovrebbero anche non mettersi sulla difensiva quando si chiede la loro opinione o quando li si accusa di qualcosa, essere loro i primi a denunciare o parlare con i propri amici quando li vedono fare qualcosa di sbagliato o fare i viscidi e, soprattutto, non toccare una persona che non abbia dato loro il consenso esplicito.

Ovviamente le vittime possono parlare quanto vogliono delle loro esperienze, io le sosterrò sempre. Ma aspettarsi che le donne che hanno subito violenze parlino è dannoso. Per ogni donna che è stata stuprata o molestata c'è almeno un uomo che l'ha stuprata o molestata. Sono queste le persone che dovremmo ritenere responsabili, e a cui dovremmo chiedere risposte, invece che mettere davanti all'occhio del pubblico le vittime, perché ci provino che le violenze che hanno subito sono abbastanza gravi da contare qualcosa.

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