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A8N5: È tutto molto strano

Il fruscio

Il rumore del più grande raduno di serpenti a sonagli al mondo.

“Rattler Round-Up”  © Winston Smith,  2012

Sono uno di quegli stronzi che in aeroporto vi supera zigzagando a bordo di una macchinina tutta lucette e bip-bip. La limousine dell’anziano, del pigro e dell’infermo. Persino io riesco ad avvertire gli sguardi carichi d’odio, ma perdonatemi, è per il vostro bene. Gli aeroporti sono già abbastanza severi senza quelli come me a rallentare il flusso. O, almeno, questo è ciò che ci ripetiamo mentre approfittiamo della comodità dei sedili e vi tiriamo sotto.

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Dal momento che non ho niente da guardare e la macchinina copre ogni rumore, mi concentro sull’olfatto. Avverto l’odore del terminal, ed è interessante quanto sembra. Ma attraversando la nebbia salata e carbonosa della friggitrice dell’aeroporto di Dallas, la sensazione è piuttosto forte. Un lubrificante nasale. Al di là dell’estensione geografica, la vastità del Texas sta nel suo odore, quello di un posto affamato e oleoso.

Sfreccio verso il mio aereo per Abilene, un’altra ora di volo a ovest di Dallas, in quello che è conosciuto come il centro del Texas Occidentale. Quando persino l’ovest ha un centro, puoi star certo che si ratta di qualcosa di grosso. Esterno il mio pensiero coinvolgendo l’autista, e la sua unica reazione è un colpo di clacson rivolto agli odori corporali che ostruiscono il nostro passaggio.

Al gate mi aspetto una voce familiare, ma nessuno mi chiama per nome. Fisso gli occhi nelle forme indistinte di fronte a me sperando di essere riconosciuto. Ancora niente. Ho un appuntamento con mio fratello Mykol. Il suo aereo da Toronto è atterrato un’ora fa, e abbiamo in programma di spostarci da qui ad Abilene insieme. Ma a questo punto non sembra che lo faremo.

Annunciano l’imbarco. Cammino su e giù e lo cerco con la voce, sventolando per aria il mio bastone bianco. È l’ultima chiamata per il nostro volo. Provo sul cellulare, ma non risponde. Dovrei partire e sperare che prenda un altro volo? Non sono preparato all’idea di avventurarmi in giro per il Texas da solo. Ci sono i camion. Un sacco di camion. E per me non è così difficile finirci sotto.

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“Sicuro che abbia preso l’aereo, tesoro?” chiede l’addetta al gate premendo combinazioni di tasti sul computer.

“Non saprei proprio,” rispondo.

“Non ti preoccupare, caro. Scommetto che si è fermato a fare uno spuntino. Patatine, un hamburger, o…” Capisco che sta consultando l’orizzonte dei menu oltre le mie spalle.

Forse ha ragione, forse non devo preoccuparmi, ma Mykol è uno a cui succedono un sacco di cose. Che tipo di cose? Vi basti sentire come fa lo spelling del suo nome, o sapere che le lucertole sono le sue coinquiline preferite. Non posso dire di conoscere qualcun altro che collezioni sabbia o abbia bevuto un bicchiere di varichina—e non una volta, ma due. Una volta ha persino picchiato il fidanzato di nostra sorella perché andava a fuoco. Non solo ha estinto le fiamme, ma è riuscito a soddisfare la nostra fantasia di fratelli. Era stato lui ad appiccare il fuoco? Chi lo sa. È saggio riparare il circuito di una lavapiatti industriale con un coltellino? Mykol mi ha fornito la risposta a domande come queste.

Tutto questo per dirvi che è un tipo divertentissimo, almeno finché rimane incolume. Mykol è fatto per le avventure, è innegabile, e immaginavo che il nostro viaggio non sarebbe stato da meno.

“Vi fermerete ad Abilene?” chiede l’addetta al gate. “Posso lasciare detto dove farti trovare.”

“No, siamo diretti a Sweetwater. Dovremmo andarci stasera, in macchina. Non va affatto bene.”

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“Sweetwater?” Nella sua voce avverto una certa sofferenza. “Signore del cielo, cosa ci andate a fare a Sweetwater?”

Mi appoggio al bancone, simulando una certa disinvoltura.

“Per i serpenti a sonagli.”

“Serpenti a sonagli?”

Sulla mia faccia si disegna una smorfia nervosa.

La donna rimane in silenzio, come a soppesare il grado di idiozia del cieco che le sta davanti. Poi, finalmente, compare mio fratello. Ci sono stati problemi alla dogana.

“Sì, ti dico, l’agente era gentile e tutto,” prende a raccontare mentre ci imbarchiamo, “ma sul cartellino c’era scritto che di cognome faceva Powers. Non so, la cosa mi ha innervosito, e la situazione ha preso una piega un tantino sgradevole.”

“Sgradevole?”

“Mi sono messo a raccontare balle.”

“Balle? E su cosa? Cavolo, Mykol.”

“Dai, mi è venuto spontaneo. Si chiamava Powers.”

“Sì, ma cos’hai da nascondere?”

Non si può mai sapere, con mio fratello. È un archeologo che trascorre la maggior parte dell’anno nella natura. Cose del genere ti cambiano. Un giorno, quando Mykol avrebbe dovuto essere al lavoro su un sito a sei ore dalla casa in cui siamo cresciuti, mia madre è entrata in cucina e l’ha sorpreso a far bollire il cranio di un orso in una pentola di ceramica del servizio. Gli piacciono le ossa. Voglio dire, non è difficile immaginarlo ai controlli per la sicurezza aeroportuale mentre svuota le tasche—una manciata di monete, i biglietti dell’autobus e mezza dozzina di denti umani—davanti agli agenti, immediatamente invitato a seguirli nella stanza degli interrogatori.

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“Snake Bite”  © Winston Smith,  2012

“E cosa ti sei inventato?”

“Niente di male. Le ho detto che mi avresti portato in macchina fino a Sweetwater,” racconta abbandonandosi sul sedile. “Ma credo le avessi già detto che sei cieco. È stato un errore innocente.”

A dire la verità, mi era già capitato di guidare con Mykol al mio fianco. Non che gli agenti della dogana dovessero essere informati della cosa, ovviamente.

“Ti ricordi della strada per il Lago Douglas?” chiede.

“Dovevi concedermi un po’ di più.”

“L’agente Powers non sembrava affatto divertita. Così ho iniziato a balbettare. Sai, le uniformi, e la storia del fratello cieco e i serpenti a sonagli… era troppo.”

In tutto ciò, Mykol aveva dovuto spiegare all’agente Powers come potesse un cieco scrivere libri e romanzi che non era in grado di leggere.

Ma alla fine ce l’ha fatta, ed eccoci qui. Verso l’alto, e la morte.

“Dimmi un po’,” riprende mentre l’aereo rulla. “Cosa sceglieresti, affumicatore per formaggi o balestra? Non riesco a decidermi.”

La superstrada tra Abilene e Streetwater è punteggiata di cartelloni che pubblicizzano ristoranti di manzo all-you-can-eat con nomi come Buck’s e Skeet’s. Mykol ed io siamo deliziati. Ci piacciono i cowboy. Più vecchiaia, tristezza e cuoio ci sono, più siamo soddisfatti.

Percorrendo questo tratto di strada, non si può fare a meno di apprezzare le distese infinite di parchi eolici per cui è nota questa parte del Texas. Potenti folate di vento fanno sobbalzare l’auto. Alcune sono naturali, altre vengono dai convogli di semirimorchi e pick-up che sballottano la macchina a noleggio come un gatto fa con un gomitolo. Mykol è un autista chiacchierone, e di tanto in tanto riprende a parlare dei due obiettivi del nostro viaggio: trovare una “fighissima cravatta di cuoio” e tenermi lontano dai morsi di serpenti.

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Abbiamo fatto tutta questa strada, dalle nostre rispettive case ai lati opposti del Canada, per partecipare al raduno di serpenti a sonagli di Sweetwater, che si tiene ogni anno nel secondo fine settimana di marzo. Non c’è modo di verificarlo, ma pare si tratti del più grande evento al mondo nel suo genere. Genere che conta una manciata di eventi ufficiali in tutto il globo, per lo più ospitati in piccole città texane.

Ci aspettano quattro giorni di divertimento fieristico interamente dedicato, o collegato, alla cattura, la spellatura, la preparazione e lo studio del crotalo adamantino occidentale. Tutti si danno da fare nel battere i pascoli e il deserto per radunare il maggior numero di serpenti—o “bestiole,” come dicono qui.

Statistiche riferite agli ultimi 50 anni indicano che il bottino di un fine settimana ammonta in media a una tonnellata e mezzo di serpenti. Quante bestioline ci vogliono per fare una tonnellata e mezzo? Lungo tra 90 e 120 cm, il crotalo adamantino pesa intorno ai 4 kg. A voi i conti. Eppure, nonostante la caccia annuale, sembra che non sia facile tenerli a bada. Sono letteralmente ovunque.

“Secondo il sito, dobbiamo procurarci un gancio e uno specchietto,” avverto Mykol. “Il gancio ci sta, di principio. Ma lo specchio? A cosa serve?”

“Io mi prendo il gancio.”

“Ma io non posso usare lo specchio. Non riesco nemmeno a immaginare a cosa serva, figurati poi nel mio caso.”

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“Si usa per guardare sotto alle cose senza avvicinarsi troppo,” spiega Mykol. “Per poter sbirciare nei covi.”

“Non dire quella parola.”

“Quale parola?”

“Covo.”

“Perché?”

“Non dirlo e basta.”

Ho già i sudori freddi. Non è tanto l’idea di essere morso a spaventarmi. Non del tutto, almeno. La verità è che i serpenti mi terrorizzano. I serpenti e qualsiasi cosa abbia a che fare con loro. Il modo in cui si muovono, il rumore che fanno, la loro forma. Non voglio nemmeno star qui ad analizzare la minaccia di una lingua che procede in maniera così casuale. Non ho mai toccato un serpente—nemmeno i piccoli giarrettiera che di tanto in tanto attraversavano il prato di casa quando ero bambino, tempo prima che diventassi cieco. La sola vista mi gettava nel panico.

So cosa state pensando. Perché ficcarmi in qualcosa che va in direzione opposta a ogni segnale del mio sistema nervoso? È una domanda più che legittima, che io stesso mi sono posto in aeroporto, sull’aereo e in macchina. L’unica risposta che so dare, e credetemi, sono convinto, è questa: le esperienze migliori non si fanno desiderare.

Non ricordo quando ho sentito parlare per la prima volta dell’evento, ma so con esattezza cosa avesse attirato la mia attenzione. Tutte le bestiole vengono trasportate dentro allo stadio cittadino che normalmente ospita il rodeo e sistemate in un recinto chiamato Fossa dei Serpenti. Una volta lì sono pesati, privati del veleno, spellati e cucinati. Centinaia di serpenti attendono il loro turno dimenandosi uno sull’altro. Passato il disgusto, ho avvertito un richiamo: se fossi andato, avrei potuto ascoltare il suono di quel recinto. Un’esperienza unica al mondo.

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Più cercavo di immaginare quel suono, meno ci riuscivo. Volevo sentire cosa avesse da dirmi. Perché no? Se l’evoluzione ha fatto sì che lo strumento di difesa primario di un animale fosse un suono tanto particolare quanto spaventoso, un serpente del genere mi avrebbe certamente insegnato qualcosa sull’ascolto, no? E tutto ciò sarebbe arrivato da un sonaglio e uno spasmo. Centinaia di code di serpenti che producono un primordiale arrangiamento corale ispirati da un sentimento inequivocabile: “Fanculo.” Volevo sentirlo. E catturarne uno. E forse, ma solo forse, toccarlo.

“Non preoccuparti, fratellone. Ho un piano,” dice Mykol mentre abbandoniamo la superstrada. “Lo si cattura così: prima di tutto trovi un serpente. Il più grande del covo—“

“Cosa ti ho detto? Quella parola.”

“Poi ti avvicini. Lo distrai con il bastone o qualcosa del genere. Toc-toc-toc. Lui si fa arrogante. E poi, senti qui: abbiamo l’effetto sorpresa… è il momento del Ciao Mykol!”

“Ciao Mykol?”

“Lo colpisco in faccia.”

Più ci avviciniamo, meno l’idea mi convince.

“Tu non aver paura,” conclude rassicurandomi con una pacca sul braccio. “Non mancherò il colpo.”

Quando fermiamo la macchina nel parcheggio dell’hotel è ormai buio. Dai rumori circostanti, capisco che la superstrada è ancora vicina. Apro la portiera del passeggero per distendere le gambe, ma i miei piedi si fermano a metà strada. C’è dell’aria calda che sale da terra su per i miei pantaloni. I serpenti potrebbero essere ovunque. Mi viene in mente come siano soliti sostare sull’asfalto per godere del calore assorbito durante la giornata. Allungo la gamba e muovo il dito del piede come un’esca. Nessun morso.

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Facciamo il check in, entrambi stanchi e affamati. L’hotel sa di aeroporto.

“Ehi,” esclama Mykol con voce stridula mentre percorriamo il corridoio in direzione della nostra stanza. “C’è un enorme serpente impagliato appeso al muro.”

Si ferma per ammirarlo, mentre io lo supero in fretta.

“Vuoi toccarlo?”

“No,” rispondo affrettandomi.

“Dai, mica è vivo. Metti la mano e—“

“No.”

“È proprio qui. Allunga la mano e—“

Il serpente è sul muro, morto e impagliato, e nonostante questo non ci riesco.

Secondo il tizio assonnato alla reception, siamo stati fortunati a trovare una stanza. Considerato che la nostra è l’unica macchina nel parcheggio, immagino che quell’affermazione si basi esclusivamente sul suo ottimismo. Insiste: la città si riempirà. Domani sono in programma la sfilata, i balli tradizionali, e l’apertura dello stadio per la registrazione della caccia al serpente. Chiediamo dove poter mangiare, e ci viene detto che non abbiamo che da scegliere. Buck’s o Skeet’s.

La mattina successiva, Mykol e io lasciamo l’albergo indossando i regolamentari stivali al ginocchio. La luce del cielo blu si infrange sulla mia retina.

“Ah, Sweeeeetwater,” cantilena Mykol. “Dove l’acqua è gialla e leggermente burrosa.”

Giriamo per la città, mentre Mykol descrive ciò che vede. Ma non ci mettiamo molto. A quanto pare, per arrivare da un capo all’altro di Sweetwater bastano un paio di minuti.

“Un’altra chiesa, poi un negozio dei pegni e vicino un altro garante per la cauzione. Oh, che bravi. Se hai bisogno di soldi per la cauzione, c’è anche un Money Mart…”

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Tutti gli altri edifici sembrano disabitati o in vendita. Sui prati qua e là ci sono auto abbandonate. La benzina costa, ma i cuccioli di cani e gatti non mancano. Consideriamo chiusa l’esplorazione, ho raccolto informazioni a sufficienza. La recessione ha lo stesso volto dappertutto. Eppure, citando il motto della camera di commercio, “Se ti annoi a Sweetwater, la colpa è tua.”

“Cowboy!” grida Mykol. “Dio santo! Sono ovunque! E cavalli. Alcuni anche piuttosto vecchi!”

Considerate le dimensioni della città, mi immagino qualche decina di persone intente a confrontare ganci e specchi. Ma più ci avviciniamo, più la folla si fa consistente. Oceani di camper e roulotte. Pick-up su pick-up che trainano affumicatori e griglie per barbecue di dimensioni industriali. Un parco giochi allestito alla bell’e meglio si materializza alla nostra destra, mentre il deserto a sinistra è invaso da una baraccopoli di chioschi e curiosi. Tra questi si fanno strada uomini e donne a cavallo, e sopra le nostre teste, come una tenda sonora, si stagliano altoparlanti che diffondono sdolcinata musica country. Abbasso il finestrino e vengo investito dall’odore dei cavalli. La fattoria dei miei nonni, avevo otto anni.

“Rattlesnake Ranch”  © Winston Smith,  2012

Parcheggiamo a lato della strada, e prima di scendere faccio nuovamente ondeggiare il piede sull’erba. Mykol afferra il mio gomito e mi guida. L’erba spunta in macchie dal suolo polveroso. Nessun sonaglio.

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“A cento metri da qui,” spiega, “c’è un tabellone evangelico, e subito dopo lo stadio.”

I cancelli sono aperti, compriamo i biglietti. Prima di entrare Mykol vuole scattare una foto di un cartello che proibisce di portare all’interno armi da fuoco.

“Non dovrebbe funzionare comunque così?”

Attacca la mia mano al suo gomito. “Non abbiamo ancora visto com’è dentro.”

Percorriamo il corridoio tra il rimbombare dei nostri stivali sul cemento, per poi accedere al mezzanino. Non avverto nessun rumore sospetto. Soltanto il chiacchiericcio, una fontana in lontananza, e gli annunci dello speaker. Improvvisamente Mykol si ferma, come se stessimo per andare a sbattere contro qualcuno.

“Credo che per registrarci si debba scendere,” dico.

Faccio per avanzare, ma mio fratello è immobile.

“Che stai—“

“Aspetta un attimo.”

“Cosa? Andiamo e—”

“Un attimo, ho detto. Un attimo, ok? È… troppo,” sbotta.

Descrizioni come questa non sono d’aiuto. Il mio occhio della mente vede solo ciò che gli viene detto.

“Cosa succede?”

Mi avvicino a mio fratello. La sua paralisi è l’orizzonte dell’ignoto, sempre più vicino.

“Dai, Mykol. Cosa c’è?”

“È così…” sussurra in cerca delle parole. “Non sto esagerando, ma è così… pieno, pieno di serpenti.”

Il suo tono basso non fa che peggiorare le cose. È come se non volesse spaventarmi. Il mio occhio della mente scende in terra: uno stadio pieno di serpenti è troppo.

“Cosa intendi dire con ‘pieno di serpenti’?”

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“Non so da dove cominciare.”

“Comincia da cosa c’è qui vicino!”

“Ok. A un po’ più di tre metri da noi c’è un uomo anziano, sta scuotendo un serpente a sonagli. Come se fosse un gioco e avesse davanti un bambino.”

“No.”

“Sì. E poi c’è un altro serpente, ma non lo sta scuotendo.”

Ancora prima di potermi concentrare sui sonagli e scinderli dal fracasso dello stadio, dai microfoni sputano fuori fischi e gracchi, seguiti dal chiaro rumore dell’attacco di un serpente. Poi un tonfo. Capisco che l’immagine prodotta dal mio occhio della mente è corretta. Da qualche parte, una bestiola ha appena azzannato un microfono. Mi stringo a mio fratello fin quasi ad abbracciarlo, pronto a farmela addosso all’idea di dover attraversare lo spazio antistante.

 “Uh, Nelly” esclama una voce attraverso i microfoni. “Che combini?”

Da qualche parte lì vicino, la voce di quest’uomo esce da un corpo all’interno di un recinto tra decine di serpenti a sonagli. Il nostro, in parte biologo in parte artista da circo, è impegnato nel resoconto della sua dimostrazione. Parla in lungo e in largo delle abitudini dei crotalini, indifferente, mentre i serpenti assaggiano i suoi stivali. La sua presenza, unita agli stand informazioni, mettono in evidenza il cambio di strategia nelle pubbliche relazioni dell’evento. La scienza in primo piano per mitigare le accuse di crudeltà nei confronti degli animali. Non so se i loro sforzi stiano funzionando o siano quantomeno sinceri. Sono troppo occupato a sperare che qualche membro della PETA accorra in mio aiuto.

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Scendiamo le scale verso l’arena, il suolo segnato da anni di zoccoli e ruote di trattore. I rumori dei serpenti nel recinto ci seguono, riempiendo l’aria di sibili, sonagli e nozioni da libro di scuola sugli animali che da allora perseguitano il mio udito.

Facendo lo slalom tra una distesa di bancarelle, ci imbattiamo in ogni tipo di prodotto, dalle pelli di serpenti alla carne, passando per kit di pronto soccorso e vari portachiavi a sonagli. Mykol si sofferma su ogni singolo trofeo, compresi la testa di un serpente e la coda attaccata al guscio di quella che era una tartaruga. È possibile testare la consistenza di cinture e stivali decorati con dentute teste dagli occhi di vetro e comprare antitossina per il bestiame o specchietti. Ogni quattro metri o poco meno sento avvicinarsi il rumore di serpenti, a volte abbastanza soffuso da provenire da terra, o forse da una gabbia o un secchio. Non so dove andare.

“Continua a parlarmi,” mi rivolgo a Mykol. “Sono al sicuro, qui?”

“Sei grigio,” sussurra Mykol. “E la tua mano mi sta inzuppando la camicia.”

Sento un altro sonaglio, stavolta proprio dietro l’orecchio. Lo schivo, per poi sentirlo allontanarsi come se qualcuno lo stesse portando in giro sulle teste dei passanti.

“Non ce la faccio,” mugolo. “Andiamocene. Non ci riesco.”

“Dai, va tutto bene. Registriamoci, così poi ti porto fuori.”

“Serpent Serenade”  © Winston Smith,  2012

Arrivati allo stand per la registrazione non conto nemmeno più le volte in cui ho sentito parole che in simili occasioni dovrebbero essere proibite. Tra queste: “Merda!” “Tieni questo!” “Aiutami, aiutami!” e, di gran lunga la peggiore, “Vedi? Basta un attimo, e succede.”

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Al banco per la registrazione troviamo un solo uomo. Secondo la descrizione di Mykol, Jeb è alto, con una barba argentata alla ZZ Top, lunghissima e voluminosa. Pur trovandoci al chiuso porta gli occhiali da sole e un cappello Stetson indossato alla maniera di Lyndon Johnson. Jeb è uno dei JC, gli organizzatori dell’evento. Considerata l’atmosfera evangelica di Sweetwater, subito ipotizzo che essere un JC significhi far parte della cricca di Gesù Cristo, anche se poi scopro che è l’acronimo per junior commissioner. Sono tutti piccoli imprenditori e autorità locali, non strambi addestratori di serpenti.

“Bella giornata, ragazzi,” ci accoglie. “Una bella giornata.”

Vorrei abbracciarlo.

“Salve. Lui è cieco,” attacca Mykol, “siamo arrivati qui dal Canada per partecipare alla caccia.”

Jeb non batte ciglio, come se avesse passato la mattina ad accogliere altri nella mia situazione. Prendiamo il permesso e paghiamo la quota, ed è fatta. La partenza per il deserto è prevista per il giorno successivo, la mattina presto. Accolgo positivamente la notizia: per oggi ho visto abbastanza. Jeb ci dà appuntamento al parcheggio del negozio di alimentari.

“Una domanda. Qualcuno è stato morso?” chiedo.

“Quando?”

Non è la risposta che mi aspettavo. Ritento.

“Di recente, qualcuno è stato morso?”

“Andrà tutto bene, ok?”

Mi sento immediatamente meglio. Il suo tono è deciso, come se sapesse di cosa sta parlando.

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“Ma non dimenticate di portare il kit di pronto soccorso.”

Una donna si fa largo tra noi, ansiosa di chiedere a Jeb quanti serpenti dovrà catturare per ricavare un paio di scarpe.

“Ho sentito dire che ce ne vogliono sui quattro, per calzature da donna,” risponde Jeb.

“E tre? Sono abbastanza se ne voglio un paio aperte, col cinturino?”

“Non saprei dirle, signora.”

“Però non voglio pagare senza la sicurezza di riuscire a prenderne a sufficienza entro mezzogiorno.”

Mi concentro sulla signora. Sembra pensare di essere lì per negoziare il numero di biglietti necessari ad aggiudicarsi il trofeo. Ci affrettiamo verso l’uscita più vicina, diretti alla fontana dello stadio. L’acqua zampillante è abbastanza rumorosa da riempire la stanza, ma non ci rinfresca. Poi, pochi metri più avanti, il mio udito distingue i primi accenni di un sonaglio.

Non riesco a spiccicare che poche parole. “È… è un… il—?“

Sì, è lui. Un recinto di legno compensato alto fino al petto, colmo fino all’orlo di crotali. La Fossa dei Serpenti. Mykol si era avvicinato per dare un’occhiata, senza immaginare che avessi scambiato quel frastuono per una fontana. Ci spingiamo verso il muro di rumore.

Il suono ha una fisicità impressionante. Una massa. Un peso e un effetto sull’aria circostante. Di colpo mi sovviene che il suono è essenzialmente vibrazione. Ascoltare non è altro che ricevere la nostra forma più sottile di tatto. Ce lo dimentichiamo troppo facilmente.

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Ma ciò che proviene dalla Fossa dei Serpenti è straordinario in un altro senso. Non sembra remoto o astratto. Per me, i suoni sono spesso poco più della didascalia di un’immagine che non posso vedere. Un sostituto di minor grado della vista. Funzionale, ma incompleto.

Mettetevi nei miei panni. Un rumore illumina una cosa specifica in un luogo specifico. Lo sportello della lavastoviglie sbatte, e nello sbattere, definisce cos’è e dove si trova. L’effetto è quello di un’occhiata. Prendiamo un bambino che suona il campanello di una bicicletta. Lo sento, e so che c’è una bicicletta, mentre il campanello che si allontana traccia un percorso e dà l’idea della profondità e della dinamica del mio bidimensionale panorama di confusione. Altri suoni sono meno precisi. Come il brusìo degli apparecchi elettronici di un ufficio. Il ritmo di veicoli in lontananza. Questi rumori non danno luogo a immagini, non sempre, e ovviamente non forniscono una collocazione spaziale. Ma il rumore c’è, generico e sfuocato come possono esserlo “macchine” e “traffico”. Chiamatelo colore.

Con l’eccezione della musica, i suoni condividono tutti una qualità di cronica frustrazione. Per me, sono referenti. È quella la loro natura cognitiva, nel mio corpo. Indicano, danno un nome e fanno segno all’invisibile. Sono sostanziali o meno, come le parole.

Ma quei serpenti hanno un che in più. Sono qualcosa a sé. Il loro volume cresce, si gonfia, diventa solido e definito, come il calore che sale dall’asfalto. Il suono ci allontana e al tempo stesso chiede di avvicinarci. Entriamo nelle vibrazioni, finché non riesco a sentire i sonagli col mio stesso volto. L’aria si muove, altri serpenti si aggiungono e partecipano allo spasmo. Poi una dilatazione, e come un polmone, alcuni si fermano e riposano. Quando l’attività cresce in velocità, rumore e rabbia, nell’aria si disperde un odore amarognolo, quello dei serpenti che avvertono e misurano gli occhi puntati su di loro.

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I serpenti a sonagli sono in grado di rilevare una variazione nella temperatura dagli 0.01 gradi Fahrenheit in su. Il minimo cambiamento innesca uno stato d’allarme nelle loro code in cartilagine. Così, mentre il calore dei nostri corpi va e viene in una dinamica di attrazione e repulsione, creiamo coi serpenti un theremin preistorico.

Sono ammaliato, e al tempo stesso sopraffatto. La fossa è poco prudente e innaturale. Troppo vergognosamente spettacolare. Mentre

Mykol resta a guardare, io mi faccio strada col bastone attraverso la folla, lontano dai serpenti. Nessuno si muove. Qualche colpetto sul compensato mi aiuta ad attirare l’attenzione su di me. Mi fanno spazio, e tra questi c’è chi osserva confuso la mia curiosa e in un certo senso spaventosa immagine. Muovo il bastone avanti e indietro verso l’uscita, mentre centinaia di code, allo stesso modo, ondeggiano.

In attesa dei ritardatari della nostra squadra, Mykol e io rimaniamo seduti in macchina e mangiamo i panini che avevamo comprato per il pranzo. Sono le otto di mattina. Non volevamo fumare mai più. Abbiamo smesso entrambi otto anni fa. Ma questo era prima che scoprissimo che ogni singolo negozio aveva esaurito i kit di pronto soccorso per i morsi di serpente.

“Ti fa male, la mano?” chiedo a Mykol. Io riesco a malapena a tenere il mio panino.

“Ho una vescica grossa come un quarto di dollaro.”

Dopo la registrazione per la caccia, Mykol e io siamo andati ad Abilene per svagarci un po’. Lì abbiamo sperimentato la frase, “Salve, mio fratello è cieco e siamo arrivati qui dal Canada. Possiamo—?” Metteteci dentro ogni pessima idea, funziona sempre. Chi direbbe di no a un disabile? Il mio potere incontrollato è il nuovo giocattolo di Mykol.

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Al poligono di tiro sono bastati pochi minuti perché mi ritrovassi con una .44 Magnum carica tra le mani. Era Mykol a dirigere i miei colpi, ma ad ogni modo nessuno ha messo in discussione la mia presenza lì. L’unico avvertimento riguardava le protezioni per le orecchie. Non vorrai perdere anche l’udito. I gestori sono stati gentili e premurosi, anche se per i miei gusti gli piaceva un po’ troppo far saltare in aria le cose.

“Ne mancano due. Gli diamo ancora cinque minuti, gente,” annuncia Jeb. “Poi partiamo.”

“Ecco,” aggiunge uno della squadra.

“Sei sorpreso della tua performance?” mi chiede Mykol.

Aveva accuratamente conservato il mio cartellone di tiro perché potessi portarlo a casa, mostrarlo ai miei studenti (insegno alla Capilano University) e, eventualmente, perdere il lavoro.

“Tutta questa violenza, o la minaccia di violenza,” dico ad alta voce, “mi sta intossicando. O forse è questo panino.”

Non avevo mai sparato prima, e non ho intenzione di rifarlo. Le esplosioni erano spaventose, anche se ero io a produrle e quindi potevo prevederne l’arrivo. In più, il rinculo della .44 Magnum alla Dirty Harry non è affatto piacevole. Un po’ come cercare di beccare lo zoccolo di un mulo non proprio tranquillo. E poi, senza poter vedere è monotono. Bang. Cos’ho preso? Bang. Cos’ho preso? Ecco, più o meno come il golf.

Un pick-up sfreccia nel parcheggio e si ferma a poca distanza dalla nostra piccola folla. So che è un pick-up perché in Texas non circola altro, praticamente.

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“Viper Ride”  © Winston Smith,  2012

“Scusaci Jeb, siamo in ritardo,” dicono attraverso il finestrino.

“Tranquillo Bill. Com’è andata ieri?”

“Non male, non male. Ne abbiamo presi una ventina dai pascoli a sud. Avevo trovato anche un bel Pantheropis, ma dev’essermi scappato, non lo trovo più.”

“Ho sentito,” risponde Jeb.

Più tardi Mykol mi spiega che la moglie di Bill (o amica, o schiava) se ne stava nel sedile del passeggero a sorridere e salutare timidamente con la mano come fosse una regina, proprio mentre Bill dichiarava a gran voce che il serpente poteva benissimo aver fatto il nido proprio tra le sue caviglie.

Jeb e i due figli guidano la comitiva, mentre Bill fa da coda. Dopo mezzora di viaggio lasciamo la strada principale per una sterrata, segnata dal passaggio di animali e gomme di pick-up. La nostra meta è un pascolo recintato di 40 km quadrati. Secondo Jeb, i figli, Bill e il proprietario del ranch, questo non è un hobby o uno sport, ma lavoro. Un servizio alla città e alle fattorie. Abbattere i crotali è un compito da svolgere annualmente per la salute della comunità e del bestiame. Se qualche sventurato turista vuole aiutare, ben venga.

Sul ciglio della strada, Jeb ci dà qualche consiglio, le sue uniche istruzioni della giornata. Noi, in dieci, ascoltiamo come un plotone, armati ognuno di contenitore di plastica, coperchio, specchietto e uncino—anche se “uncino” non è la parola corretta. Mykol e io usiamo una mazza da golf rivisitata: al posto della testa, segata via, c’è un pezzetto di metallo simile a una brugola. Mi ci sono scervellato su per ore. Jeb sta per spiegarci come diavolo tirare su quattro kg di serpente infuriato con un attrezzo di assemblaggio in stile IKEA.

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“Prestate attenzione, e non ci metteremo molto,” inizia. “Sia voi che il vostro compagno dovrete tenere gli occhi costantemente sul terreno. Concentratevi sui cumuli di pietre, gli alberi caduti, l’erba alta. I punti in ombra. Ma non lo ripeterò mai abbastanza, tenete gli occhi a terra.”

Una coppia dietro di noi apre due lattine di birra Coors, pronta a concedersi un po’ di vigore mattutino.

“Se trovate un serpente,” continua Jeb, “per prima cosa dovete metterci lo stivale sopra.”

Lo sento picchiettare la suola del suo stivale con l’uncino IKEA.

“Poi avvicinate l’uncino e lo muovete un po’. Il trucco è questo, dovete provocarlo.”

“Vedi?” mi sussurra Mykol. “Te l’avevo detto!”

La strategia che mi aveva annunciato in viaggio, quella che vedeva il mio bastone come strumento per provocare il serpente, corrisponde al metodo effettivo. Secondo Jeb, l’obiettivo è che i serpenti si scaglino contro di noi. Una volta distesi, infatti, sono vulnerabili. Abbastanza vulnerabili, prosegue, da permetterci di colpirli al collo con la brugola per immobilizzarli. Fatto ciò, non resta che sollevarli, infilarli nella scatola e chiudere il coperchio, aggiudicandosi il titolo di sopravvissuti e folli indiscussi.

Ma il passaggio dal “provocare” i serpenti allo “infilarli nella scatola”, nella spiegazione di Jeb, sembra essere immediato. La mia impressione, invece, è che ci voglia un bel po’ di pratica. Ad esempio, come afferrarlo? Come metterlo nella scatola, e, visto che siamo in argomento, come chiudere il coperchio prima che il crotalo si vendichi sul nostro collo? E ancora, come fare quando lo stesso animale si trova in libertà all’interno di una piccola macchina a noleggio?

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La bevitrice di Coors vuole altre spiegazioni.

“Ho letto,” inizia la donna, “che bisogna infilare i pantaloni negli stivali, perché se mordono, si buttano principalmente sulla caviglia o il polpaccio, quindi se indossi gli stivali e tutto è un conto, ma se la stoffa spunta dal bordo, le zanne possono incastrarsi e si rimane con il serpente attaccato ai pantaloni. È vero?”

Jeb ci pensa per un attimo.

“Più o meno, sì.”

Tutti si affrettano a sistemare i pantaloni.

“Bene… buona caccia, gente. Se avete bisogno gridate. E ricordate, occhi a terra. Capito?”

Mykol ed io lasciamo la strada per avventurarci tra le sterpaglie del deserto. Ci muoviamo piano e con ponderazione, così come i nostri corpi di adolescenti facevano nel tornare a casa ubriachi.

“Ti prenderò il serpente più grosso che si sia mai visto,” mi confida nuovamente in un sussurro. “Aspettami qui.”

Rovistando qua e là, il suo uncino testa i piccoli buchi, quelli che non ho la minima intenzione di chiamare tane.

“Tensione” non è il termine giusto per spiegare il clima. Passo, orecchie tese, passo, orecchie tese. Di tanto in tanto, Mykol scuote cespugli d’erba secca. La prossimità sonora tra un sonaglio e quel rumore non manca di farmi trasalire, indietreggiare o addirittura sobbalzare.

“Cavolo, Mykol. Almeno avvertimi prima di farlo,” gli chiedo in un sussurro.

“Siamo grandissimi. Stiamo dando la caccia a serpenti mortali.”

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Ci imbattiamo in un grosso cumulo di pietre e legname ormai vecchio.

“Lo sento, è qui. Stai pronto,” mi avverte.

Mi preparo a correre via.

Mykol solleva una grossa pietra, poi cerca riparo soffocando una risatina nervosa. Restiamo in ascolto. Tra le pietre, qualcosa si muove.

“Ho una paura…” ammette Mykol prima di avvicinarsi a un’altra pietra.

“Via le mani, via!” Sentiamo Jeb urlare attraverso il campo di sterpaglie. “Tenete lontane quelle mani!”

Mykol ribalta un’altra pietra, stavolta servendosi dell’uncino. Poi un’altra. Faccio lo stesso. Abbiamo inventato un nuovo sport, una combinazione di roulette russa e giardinaggio. Per la seconda volta, sentiamo qualcosa muoversi. Un fruscio tra le fenditure. Poi sbuca fuori, sufficientemente infuriato.

“Oh, è un topo. O un ratto,” esclama Mykol.

“Posso chiederti una cosa?”

 La voce arriva da dietro, e offre una Coors. Rifiuto gentilmente mentre Mykol si avvicina a una catasta di legna.

“Sei… cieco? Nel senso, davvero cieco?” chiede il Signor Coors.

“Proprio così.”

Pochi metri più in là, Mykol emette un gridolino e fa un balzo indietro, per poi accorgersi che si tratta semplicemente di erba mossa dal vento.

“Completamente cieco?” insiste lui.

“Sì, completamente.”

“Caspita,” esclama dandosi una pacca sulla coscia. “Sei il figlio di puttana più coraggioso che abbia mai conosciuto! Connie, tesoro, vieni qui! Quest’uomo è il più coraggioso che abbia mai conosciuto!”

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Mi stringe la mano lodando il Canada per avermi reso il “figlio di puttana” che sono, poi si allontana deciso a catturare un serpente apposta per me. Gli dico che sono a posto, ma lui insiste: mi aiuteranno, e non sono disposti ad accettare un no. Che gentili, assistere così di buon grado alla mia autodistruzione.

Mentre sposta dei tronchi, sento Mykol sussultare e poi bestemmiare.

“Cazzone di un vento! Dai, proviamo in quell’erba lì. Sento che c’è qualcosa…”

Le ore passano uguali sotto il sole, col Signor Coors che tesse le mie lodi a chiunque gli presti orecchio. Alla fine Jeb decide di cambiare posto. Ci spostiamo di qualche km.

“Ehi, Mykol,” inizio mentre la nostra macchina procede in una nuvola di polvere. “Facciamo inversione e chiudiamola qui. Li ho sentiti, mi basta.”

“Voglio solo vedere com’è questo posto, e poi andiamo. Solo qualche minuto.”

“Sul serio, io sono stufo.”

“Dai, un’occhiata e ce ne andiamo.”

Conosco quel tono. Una voce piatta, da pilota automatico. È pronto a instupidirsi, determinato a catturare qualcosa. Lo fa per me? O per lui? A questo punto sarei disposto a dare una toccatina alla pelle di serpente nel corridoio dell’albergo e andare a casa.

“Fantastico,” grida affrettandosi a posteggiare la macchina. “Ci sono una vecchia casa, legname e carcasse d’auto. Andiamo, andiamo.”

Usciamo, e lui inizia a trascinarmi, ansioso di battere sul tempo i compagni di squadra nella conquista delle ricchezze che solo questo decadente avamposto potrebbe offrirci. Ma tutti sono mossi dalla stessa speranza, e ci corrono dietro. Qualcuno ci passa pure avanti. Ritroviamo il Signor Coors e Connie. Come noi, i loro occhi sono rivolti alla casa, una baracca abbandonata a 20 metri dalla strada.

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Mentre battiamo i ciuffi d’erba in un angolo del vecchio portico, ecco Connie con la sua voce acuta.

“Miss Snake Bite”  © Winston Smith,  2012

“Hank, acchiappalo.”

“Non io, tu. Tu lo acchiappi,” risponde lui.

Oltrepasso Connie, e senza saperlo mi dirigo verso la coda di una bestiola che improvvisamente si anima, luminosa come un fuoco d’artificio. È a circa un metro da me. Mi blocco senza sapere bene come mettermi in salvo.

“Sei tu che hai l’uncino, Hank!”

“Prendilo tu, allora!”

La coda sembra raddoppiare la sua velocità.

I figli di Jeb gridano, “Papà, è bello grosso questo!”

Se ce n’è uno, è probabile ce ne siano altri. Ma non mi interessa. Faccio un balzo indietro nella sicurezza dell’ignoto.

“Hank! Prendilo, forza!”

“E come?”

“Come faccio a saperlo io?”

Il sonaglio si ferma, e per un nanosecondo il mio mondo e le sue immagini si spengono nel silenzio. Nel frattempo, mi raccontano poi, il serpente si agita in direzione del viso di Connie.

“Oh cazzo!” esclama Jeb avvicinandosi di corsa.

Il serpente ha mancato il bersaglio e batte in ritirata.

Mykol mi strattona, esclamando “Succede davvero! Succede!”

Prima che Jeb riesca a colpirlo con l’uncino IKEA, il serpente, lungo quasi un metro e mezzo e largo quanto una manichetta da pompieri, procede verso la casa e ci si infila sotto, con la coda che batte contro le assi del pavimento e traccia la sua fuga. Il rumore è simile a quello di un bastone trascinato lungo una staccionata.

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Seppure a distanza di sicurezza, rimaniamo tutti intorno all’apertura della cavità. I figli di Jeb corrono a prendere degli attrezzi con cui stanare il serpente. Tubi, pinze, torce elettriche.

“Non ho alcuna intenzione di avvicinarmi con uno specchietto del cacchio,” dico a Mykol.

“È stato fantastico. Ha cercato di mordere Connie.”

Pur avendole tentate tutte, Jeb e Bill non riescono a fare uscire il serpente, rimasto in silenzio nell’oscurità con milioni di anni di stasi evolutiva a provare la perfezione della sua strategia. Stai basso, raggomitolato, e tieniti lontano dai predatori. Dall’altra parte ci siamo noi, qualcosa di completamente diverso. Qualcosa di brutto e privo di grazia. Radunati in gruppi equipaggiati di pick-up, brugole, stivali e scatole, non riusciamo a bonificare spazi abbastanza vasti da sentirci al sicuro.

Mykol ed io riprendiamo a cercare, ma senza risultato. È pomeriggio inoltrato, e siamo affamati, sporchi, stanchi e demoralizzati. A dire il vero, io mi sento anche un po’ sollevato. Sono più che contento di lasciare i crotali di Sweetwater. Ho sentito il loro suono. Non chiedevano altro che essere lasciati in pace. Il paradosso delle loro code mi è improvvisamente chiaro: rimani calmo e potresti essere spappolato; avverti il mondo della tua presenza, e finisci per diventare un bersaglio. Li capisco, sono un disabile.

Di ritorno verso la città, ogni chilometro o due Mykol accosta e mi chiede di aspettarlo. Poi si lancia nel deserto verso distanti mucchi di pietre o chiazze d’erba, implorando l’universo di concederci il nostro momento. Mykol è fatto così. Lo sento rovistare con entusiasmo tra tronchi marcescenti in cerca dello spavento, e mi stupisco di quanto, in un certo senso, ci somigliamo.

Mentre scaglia l’uncino sul sedile posteriore in una dichiarazione di sconfitta, mi sento pieno di riconoscenza. Riesco vagamente a intravedere la sua arma. Farebbe qualsiasi cosa per me. Non devo stupirmene.

Pur non avendo catturato un serpente, Mykol continua con la sua linea d’attacco.

“Salve, mio fratello è cieco, viene dal Canada. Può fare da giudice nella competizione culinaria?

Assaggiamo una ventina di piatti. Sì, sa di pollo. Solo più liscoso, simile al pesce. Accompagniamo il tutto con le birre che ci vengono offerte tra una pietanza e l’altra.

“Senti,” farfuglia Mykol. “Ho un’altra idea.”

Torniamo allo stadio e oltrepassiamo la Fossa dei Serpenti fino a raggiungere un secondo recinto.

“Salve. Cieco. Canadese. Possiamo?”

Capisco che siamo nel posto in cui spellano i serpenti, dove si sta tenendo un concorso per eleggere tale “Miss incantatrice di serpenti”. A quanto pare, per partecipare non bastano un costume attraente e il desiderio della pace nel mondo. Bisogna essere abbastanza bravi a far andare il coltello, in modo da poter spellare velocemente un serpente. Dopo che ogni singolo serpente è stato sottoposto al trattamento, sorrisi e capelli ci passano davanti in direzione di un muro bianco da autografare con il dito intinto nel sangue. Una ragazza di nome Keri disegna persino un cuore al posto del puntino sulla “i”. È ufficiale, va davvero tutto a rotoli.

Il cancelletto si apre, e un omaccione mi accompagna ad attendere il mio turno per toccare la mia più grande paura.

“Pronto? Ecco il coltello. Sei al sicuro. La testa è già stata tolta, il peggio è passato.”

Il ricordo più vivo non è tanto quello della consistenza di carne e pelle o della loro temperatura. Gli spasmi del corpo senza testa richiedono tutta la mia forza per mantenerlo in tensione e impedire che si riavvolga su se stesso, ma vi risparmierò i dettagli, perché non è questo ciò che mi ha colpito. È qualcosa di più piccolo.

Dopo che ho terminato, la mia guida, un JC di nome Mark, mi apre il palmo e deposita qualcosa nella mia mano. Il cuore del serpente. Sembra un piccolo mandarino. E pulsa. Ancora. Odio ammetterlo, ma la sensazione è stupenda—il ritmo primitivo che ci mantiene in vita. Eccolo, ogni volta una sorpresa. Pulsa. Quando smetterà? Pulsa. Aspetto, ma il battito continua. Dà da pensare. La vita arriva da qualcosa di così semplice. Una contrazione. È tutto lì.

Mentre l’aereo si solleva dalla pista, punto gli occhi sul Texas oltre il finestrino, avvertendo, seppure in maniera astratta, il paesaggio che pian piano si rimpicciolisce. Sorrido all’idea di avere migliaia, milioni di serpenti sotto di me. I serpenti che ce l’hanno fatta, che sono riusciti a scappare.

Nonostante vari e disperati tentativi, Mykol non è riuscito a far stare in valigia gli uncini per serpenti. Portarli nel bagaglio a mano non sarebbe stato raccomandabile. I residui di polvere da sparo sulle nostre mani erano già abbastanza, soprattutto su di me, il tizio cieco. Non avevamo scelta, gli uncini sono rimasti nel baule della macchina a noleggio.

“Ti rendi conto di cosa abbiamo fatto?” ridacchia Mykol.

Sposto gli occhi dal finestrino. “Parli del tagliuzzare serpenti insieme a reginette di bellezza?”

“No, adesso. Abbiamo lasciato gli uncini in macchina.”

“E allora?”

“E allora, il prossimo che apre il baule si trova davanti una scatola col coperchio, e sopra due uncini per serpenti.”

L’immagine si compone nel mio occhio della mente. Che bello spettacolo.

“Tu la apriresti?” mi chiede.