LolaKola
Lola Kola.

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Musica

A Roma Est c'è una scena femminile che spacca e il film "Linfa" la racconta

Abbiamo parlato con Carlotta Cerquetti, la regista del documentario "Linfa", di cosa succede nel quartiere romano del Pigneto e delle artiste che tengono viva la sua scena alternativa.

A volte vivendo in una grande città si danno per scontate troppe cose. La superficie e la routine anestetizzano. Ci si dimentica che "l'acqua scorre sottoterra", citando i Talking Heads. Succedono cose che non ti aspetti e che ribaltano le prospettive aprendoti un mondo, soprattutto esistenziale, in cui si può sognare un modo più autentico di portare avanti il proprio essere.

È il caso di Carlotta Cerquetti, regista e documentarista classe ’65. Pluricandidata ai David di Donatello, improvvisamente scopre un lato della città eterna che le era sfuggito: quello di Roma est e della sua scena artistica/musicale. Quello che ha prodotto questa zona lo conosciamo bene; quello che mancava era un approfondimento su un aspetto fondamentale del quadrante, cioè quello femminile. Le emanazioni delle musiciste/performer di Roma Est sono d'ispirazione e traino per tutta la scena e oltre, rappresentano l'avanguardia di un matriarcato underground massiccio e fiero che giorno dopo giorno aumenta di potenza.

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Linfa è il titolo del nuovo documentario di Carlotta, che le è valso una selezione al festival del cinema di Roma e un inaspettato red carpet. La sinossi parla da se: nel film vengono passate in rassegna le storie individuali di Lola Kola, Opa Opa, Lady Maru, Silvia Calderoni, Maria Violenza, No Choice, Lilith Primavera, Industria indipendente: ovviamente e per forza di cose, un campione di quello che accade a Roma est. Storie che hanno in comune il rifiuto della ghettizzazione di genere e del concetto di normalità. Per Carlotta è soprattutto un viaggio dell'anima, che le permette di affrontare di petto i suoi fantasmi. La incontriamo quindi all’isola pedonale, tra i tavoli di Tuba, per un caffè, in una magnifica e assolata giornata di Novembre. Ma che dico assolata? Femminile è la parola giusta.

Noisey: Quando ti è venuta l'idea per questo documentario?
Carlotta Cerquetti: Non ricordo esattamente quando c’è stata la scintilla. Ero in cerca, come spesso mi succede. Hai finito un documentario, è passato un tot di tempo, quindi dici: "E adesso che faccio?" Sono sempre io che devo inventarmi il mio lavoro, un po’ per scelta un po’ per forza di cose. Ricordo un colloquio con Francesca Bianchi di Pescheria. Ricordo che ero a Short Theatre e ho visto delle cose di Mp5. Credo di aver visto anche un live o una cosa del genere, e mi sono detta "interessante". Allora ho convocato Francesca e le ho detto "Mi racconti un po' cosa succede lì al Pigneto?” Non sapevo esistesse questa rete.

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Quindi nasce tutto da questa serata. Che periodo era?
Sarà stato tre anni fa, perché alla fine ci ho messo una vita a girare e montare il documentario. Era al Macro di Testaccio.

Dato che la serata era al Macro, come sei arrivata a bazzicare Roma Est?
C'erano molti artisti di zona al Macro, perché c’era anche Tropicantesimo mi pare. C'era la Bianchi, abbiamo cominciato a parlare di Mp5, le ho chiesto se c'erano altre persone interessanti da mettere in un eventuale documentario e lei mi ha fatto dei nomi. Io ho iniziato la ricerca, poi sai come succede in questi casi: quello non c’è, quell'altro non ha voglia di esserci. Però Mp5 mi ha segnalato Invasioni Balcaniche, cioè le Opa Opa. E ognuna di quelle segnalazioni ne portava un’altra. Non volevo partire già con un idea precisa di cosa volevo fare, dato che non avevo un produttore e il lavoro precedente è stato un incubo per me dal punto di vista produttivo. Mi venivano chieste tante di quelle cose alle quali io non ero d’accordo e alla fine ho dovuto farlo e mi si sono imposte tante cose, questa volta volevo cambiare rotta.

Parli di Harry’s Bar, il documentario su Venezia? È stato premiato e ha avuto anche una candidatura al David di Donatello.
Sì, esatto. È andato molto bene. Tramite l'istituto Luce ho avuto accesso a dei materiali bellissimi, ho trovato delle cose che non erano mai state viste, dalla permanenza di Hemingway a Venezia in poi. Ho fatto una fatica mostruosa, perché devi combattere con qualcuno che la pensa sempre diversamente da te. Di solito coi produttori è così.

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Ma tu sei di Roma?
Sì, sono di Roma ma ho origini veneziane, per quello ho fatto quel documentario. Però non conoscevo le musiciste del Pigneto, di Roma Est. Avevo visto sporadicamente delle cose, venivo qui, però non avevo capito che in qualche modo erano collegate tra di loro. Penso che poi, col tempo e col documentario, adesso queste ragazze siano collegate ancora di più. Alla fine non tutte si conoscevano così bene.

Il trailer di Harry's Bar.

In che quartiere sei nata e cresciuta?
Io ho studiato al Tasso, piazza Fiume, quella zona li. Poi adesso sono a Villaggio Olimpico. Mi sposto abbastanza in realtà. Però certo se devo uscire la sera non vado a Flaminio! Preferisco venire qua. Neanche al centro storico vado, perché è morto. Per cui non mi pareva vero di vedere una situazione così. E poi in effetti ho fatto tutto un periodo come assistente fotografa e studiando cinema negli Stati Uniti, a New York: per quel poco che c’ero stata avevo comunque vissuto tutta un'altra cosa rispetto a Roma, capito? Erano anni fichi perché non era proprio il top, però ancora c’erano cose belle, bei locali. C’era il Nell’s, era veramente ancora molto divertente. Quindi quando sono tornata a Roma questa cosa mi mancava e non capivo dove poterla trovare.

Quindi diciamo che ti poni con uno sguardo esterno rispetto alla scena.
Si, sicuramente: se non altro all’ inizio mi sono posta in questo modo, adesso mi sento meno esterna. Perché sono molto affezionata a tutte, ho trovato non solo quello che mi piaceva da andare a vedere e a sentire, ma proprio persone che hanno delle qualità umane che mi piacciono.

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Ti dico questo perché è anche e soprattutto il tuo primo documentario musicale. Avrai quindi dovuto approcciarti alla materia partendo da zero e riferirti allo sguardo di altri documentaristi musicali storici, magari per capire come entrare nel mondo dei soggetti.
Non consapevolmente. Mi sono posta piuttosto il problema di cose pratiche, per esempio come registrare il sonoro da sola. Avevo il terrore di toppare sul suono. Ma alla fine devo dire c’è stato un buon lavoro di post-produzione. Riguardo ai riferimenti, ce ne son tanti presi dai documentari che amo che guardo. Oramai sono anche le uniche cose belle che si vedono in tv.

E la musica quindi per te è importante?
Adoro la musica. Seguo Angela Baraldi da quando esiste. Mi piacciono anche personaggi che sono mainstream fino a un certo punto, ma hanno carattere. Cat Power, le Savages. Le cose degli anni sessanta e settanta, i Velvet Underground, Patti Smith, Nick Cave. Mi piaceva quando si sperimentava, quando la musica ti stupiva e non era così scontata. È una cosa che vado a ricercare nelle cose di oggi. Per esempio Maria Violenza quando l’ho sentita all'inizio su internet mi sono detta “oddio, è un gran casino!” Poi invece sono andata a sentirla dal vivo perché abbiamo fatto le riprese, stavo li e mi piaceva un sacco.

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Maria Violenza

Maria Violenza non è di Roma ma originaria di Palermo. La mia opinione è che in questo documentario si parli di persone che gravitano all'interno di una Roma che non è solo quella dei romani di settima generazione, che magari non si spostano di pezza dalla sua città e dal metro quadro del loro quartiere, ma di gente che vive questa città come passaggio, come un luogo in cui si arriva per costruirsi una vita. Una Roma in qualche modo apolide.
Certo, tante di loro vengono da fuori. Questo è il bello, che si sono ritrovate qua. Che poi è la caratteristica della storia di questa zona se ci pensi. Man mano che mi indicavano le persone capivo che venivano da tantissimi posti e trovavo questa cosa molto interessante. Sono poche quelle originarie di Roma, giusto Lady Maru, Lilith. Credo che la mescolanza di persone che vengono da posti diversi sia fondamentale per creare cose nuove, no? Le Opa Opa sono una serba e l'altra albanese, Silvia Calderoni viene da Bologna, nelle No Choice c’è Merel Van Dijk che è olandese. Accogliamo più gente invece di respingere: ne giova la nostra cultura, arricchisce le possibilità.

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Un documentario sulle donne che suonano, su una scena femminile, vedrà sicuramente qualcuno obiettare che è banale perché racchiude un area ben circoscritta, troppo di genere. Però è anche vero che non l’ha fatto ancora nessuno.
A dire il vero è stata una scelta quasi obbligata, perché se non mi davo un limite andavo avanti per anni a fare questo film. La storia della “scena femminile” è nata perché c’era un bando del ministero riguardo a progetti sulle donne. Allora avevo scritto questa cosa, con Federica Tuzi, con la quale poi ho fatto il documentario. Ovviamente il bando non l’abbiamo vinto! Però ci è rimasta dentro questa cosa. Ovviamente l’idea iniziale è stata bypassata e io sono partita per la tangente. E poi da una parte mi sono detta, "ma facciamone un punto di forza, no?" Le donne vengono sempre meno raccontate rispetto agli uomini, per una volta che ci sono tutte donne raccontiamole. Mi sembrava giusto raccontare di donne che si realizzano attraverso lavori o passioni che non sono le solite, che non sono essenzialmente quelle che stanno a pensare "voglio fare la mamma” oppure “questo non è un lavoro per me”. Le ragazze nel documentario se ne fottono e fanno quello che vogliono. C’è anche un altro modo di essere donna e va divulgato.

Musicalmente però le protagoniste sono tutte abbastanza diverse: si va dal technone al turbo folk alla new wave garage. Qual è la cosa che hai sentito in loro, che hanno in comune tutte quante a prescindere dai loro gusti?
Secondo me il punk. Perché c’è comunque un origine che viene da lì, sia in qualsiasi comportamento della vita, sia come influenza musicale, sia per i vari passaggi esistenziali che esse hanno attraversato. C’è al di sopra di tutto l’attitudine, come si viveva e come si pensava durante gli anni d’oro del punk. Poi ovviamente qualcuno me ne ha parlato tanto, come Lola, Maria Violenza o Maru.

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Il punk è un modo per dare una spallata alla realtà con una sensibilità altra.
Esatto, influenza la tua vita, ed è il fatto di non puntare per forza al successo ma far le cose senza temere giudizi e senza conformarsi solo perché si è fuori da quello che piace alle masse. Ha dato forza anche a me, perché pure io spesso mi trovo a confrontarmi con dei canoni esterni, o imposti o richiesti e non corrispondono mai a quello che voglio. Ho sentito uno slancio solidale con queste persone. Mi ci sono molto identificata.

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Lola Kola

Che differenze hai visto paragonando la scena maschile di Roma Est con quella femminile?
Non ho visto tutte queste differenze. Mi sembra che si compenetrino molto bene, basti pensare a Ugo Sanchez quando mette le musica in Pescheria o quando suona con Lola, oppure Manù degli Holiday Inn con Maria Violenza. C’è dietro un accordo perfetto, non c'è il problema uomo/donna.

Anche se, nonostante i luoghi comuni, la differenza è che le donne hanno forse meno interesse a farsi vedere tanto per farlo mentre la vanità maschile è pressocchè invadente e totalizzante.
Sì, però dipende anche come approcci certe cose. Magari chi vuoi riprendere ha più o meno voglia di farsi vedere a seconda del tuo comportamento. Ad esempio Maria Violenza la prima volta che ci siamo viste era un po’ sospettosa con me. Però mi ha detto: "Questo fatto che sei venuta a parlarmi prima di girare già mi sembra un buon segno!"

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Quindi hai trovato anche momenti di diffidenza all'inizio?
Sì e no. Nel senso, l'accoglienza c’è stata subito. Lola era felice, perché le piace stare davanti alla telecamera! Andavo a casa sua il pomeriggio alle tre e uscivo alle otto. E parlava, parlava… infatti ho un sacco di materiale di Lola, poi ognuna nel film ha più o meno propensione a raccontarsi. Penso che la differenza sia non tanto sulla voglia di apparire tanto in quella di raccontarsi, appunto.

E quindi è anche cinema verità, o no?
L'idea era quella: non è che non si sente la presenza del regista, però sicuramente l’anima del film sono loro, che sono davanti alla telecamera. Ovviamente quelle due o tre domande simili le facevo a tutte.

Raccontami questa storia del red carpet al festival del cinema di Roma, del fatto che il documentario è riuscito a passare le selezioni. Una bella soddisfazione.
La situazione sul red carpet era oltre! Ero veramente felice che l’avessero selezionato, mi hanno dato una grande opportunità perché la visibilità che ti da un festival come quello è notevole. L’idea che siamo comunque tutte a Roma e potevamo presentarci tutte ovviamente era la situazione ideale, per cui c’era questa grande felicità sempre in un’aria festosa, non per stare sotto i riflettori. Sapevamo poi che ci sarebbe stata poca gente perché c’era Scorsese nell’ altra sala, e poi faceva freddo, quindi…

Beh proprio Scorsese che ha fatto un sacco di documentari musicali: un momento di concorrenza sleale!
Sì, una strana coincidenza in effetti! Comunque era bello che fosse li. L’abbiamo presa in maniera molto giocosa, avevamo pensato di fare una serie di performance, di azioni anche politiche. Poi alla fine abbiamo deciso semplicemente di andare ognuna come si sentiva.

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Che poi è come il film no? Andiamo come siamo, che forse è la migliore arma per smontare certi meccanismi del sistema
Esatto. E poi siamo corse alla proiezione, che era da tutt’altra parte.

E come è andata?
Benissimo, sia al MAXXI che al Palladium. Grande accoglienza, e in più c’erano anche due o tre personaggi della musica che mi ha fatto piacere ci fossero, come Angela Baraldi e Nada. Erano tutte molto curiose e ho sentito grande calore. Tante persone che normalmente faticano a fare cose creative che mi dicevano "Grazie, non mi sento più solo". Uno esce dalla proiezione contento e pensa che alla fine lo sforzo che fa vale la pena.

Da quello che dici c’è una profonda crisi nel mondo dell'arte, anche a livelli meno sospettabili.
Culturalmente c’è. Le possibilità diminuiscono, c'è pochissimo sostegno, grande disinteresse. Ora: le ragazze del documentario sono punk, il sostegno se lo ricavano da sole e forse ne hanno anche meno bisogno di altri. Ma in generale è ostracizzato tutto ciò che è diverso, dalle musiche alle letture. E poi c'è una mancanza totale di soldi, per cui tutti devono fare da sé. Ecco perché il punk funziona: perché il fai-da-te era la loro filosofia e secondo me va ancora abbracciata per andare contro a questo sfacelo.

E il suggestivo titolo, Linfa, da dove viene?
Percepivo che c’era questa linfa, questa cosa vitale che univa queste persone. Mi è venuto così, mentre lo montavo. Ci sono stata su dei mesi e mi dicevo “come lo chiamo?” Ho pensato alla cosa che accomunava tutte, cioè questo motore che le alimenta. Lo dicono loro stesse: "Io senza questo non so che fare”.

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Forse l’errore è pensare al tuo lavoro come a un documentario musicale. A questo punto penso che sia meta-musicale: la musica è un pretesto per parlare di ben altro.
Sì, secondo me lo è. Forse la cosa che noto di più è il racconto di un modo di vivere che non ha bisogno di sfarzo ma che ti può far star bene e può sostituirsi ai disvalori di oggi, che vanno aumentando. E il messaggio è che bisogna darsi da fare. Sono tutte persone straordinarie quelle nel documentario, proprio per questo motivo.

Quali sono i prossimi appuntamenti con Linfa?
Il 24 e 28 novembre lo proiettiamo al Nuovo Cinema Aquila a Roma e poi dovrebbe esserci Cagliari, Milano. Me lo stanno chiedendo in molti posti, ma la distribuzione la faccio io e quindi devo un pochino organizzarla. Questo formato di 52 minuti è un po’ strano, non lo puoi far uscire in sala come un film. Ma c’è tanta richiesta, e se riuscissimo a spostarci con le ragazze sarebbe splendido.

Adesso che sei un po’ più interna a Roma Est come la vedi questa scena? In salute?
Secondo me sì, e questo documentario secondo me porta fortuna alla scena e viceversa. Perché senti delle cose nell’aria. Sento pronunciare la parola "linfa" molto più spesso! Sarà una mia fissazione, ma le due cose si sostengono a vicenda. Mi piacerebbe infatti organizzare serate con proiezione e live delle ragazze, fare girare la cosa con un formato anomalo.

Sì, dato che pur gravitando al Pigneto le ragazze viaggiano spesso in tour dentro e fuori dall'Europa. Immagino che avrai pensato ad esportare il documentario.
Certo, lo abbiamo affidato a una società di distribuzione di sole donne, per rimanere nel filone e per farlo girare a vari festival… non ci hanno ancora dato una risposta, ma l’idea comunque c’è. Io ad ogni modo continuo a mandarlo ai festival di persona, all'estero non serve l’inedito come in Italia, è molto più semplice. Vediamo che succede: ad ogni modo è un film che mi dà e dà gioia e già questo basta.

A proposito, tu hai avuto un sacco di problemi ultimamente, no?
Sì ho avuto grossi problemi di salute proprio mentre stavo girando il film. È stato molto utile per me lavorarci, è stato una terapia. Invece di stare li in fissa a pensare "oddio muoio"… non eravamo a quei livelli, però era un problema serio che ora per fortuna è risolto. Però ecco, uscire di notte andando appresso a ‘ste matte mi ha aiutato! Maru mi diceva "Vieni a fare le riprese” alle quattro di notte. Mi hanno smosso nelle mie abitudini, nella tentazione di stare li a compiangermi.

Insomma, Linfa ti ha dato molta Linfa.
Sì, assolutamente.

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