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John Trotter ha visto la morte in faccia

Nel 1992, il fotogiornalista John Trotter è stato mandato in Somalia per seguire la guerra civile. In quel periodo il Paese era segnato da un vuoto governativo, numerosi conflitti e una carestia in cui in 12 mesi avrebbero perso la vita 220mila persone.

Somalia, 1992

Nel 1992, il fotogiornalista John Trotter è stato mandato in Somalia per seguire la guerra civile. In quel periodo il Paese era segnato da un vuoto governativo, numerosi conflitti etnici e una carestia in cui in 12 mesi avrebbero perso la vita 220mila persone. "Non sono rimasto per molto. Ma tutto quello che avevo fatto fino a quel momento mi era sembrato molto meno importante." Tornato negli Stati Uniti, si è preso un congedo di un anno per esplorare l'America in sella a una bici. L'esperienza in Somalia l'aveva traumatizzato. "Invece di coprire una guerra ho coperto la morte," spiega.

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Più di vent'anni dopo Trotter è stato premiato a Tbilisi per il suo progetto No Agua, No Vida, un'indagine sulle rive del fiume Colorado che copre un arco di 13 anni. La sua fotografia è ancora oggi segnata dagli stessi temi: il fascino per l'Ovest americano e la morte. L'ho contattato per parlare della sua carriera.

Bambini a Liboi, Kenya, 1992

VICE: Nel 1992 sei stato mandato in Somalia dal Sacramento Bee. Né tu né il giornalista che ti accompagnava avevate mai seguito un conflitto.
John Trotter: In quel periodo non erano molte le foto dalla guerra in Somalia. Avevamo saputo che il fotografo Chris Morris era stato lì e si era preso la febbre tropicale. Ma la gran parte dei grandi fotogiornalisti come James Nachtwey è andata in Somalia diverse settimane dopo il nostro ritorno. Noi abbiamo assistito ai primi giorni dell'anarchia nel Paese.

Puoi raccontarmi cos'hai visto?
Non c'era ancora stata nessuna forma di intervento straniero. Le ambasciate erano tutte chiuse. Il governo di Siad Barre era stato rovesciato un anno prima, e da quel momento il Paese si era trasformato in un'immensa zona senza diritti. C'erano scontri tra clan, cercavano tutti di prendere il potere. Distruggevano tutto quello che incontravano. E dappertutto c'erano profughi, spaventatissimi.

Quanto sapevi all'epoca di quel genere di catastrofi?
Nel 1991 ero stato in Bangladesh poco dopo il passaggio del ciclone-c'erano dei miei familiari-ma non avevo praticamente nessuna esperienza sul campo. Oggi conosco persone che hanno visto e vissuto una lunga serie di guerre in luoghi instabili e pericolosi. Ma quello che ho visto in Somalia va al di là della tragedia. Non avevo mai visto prima cosa significasse morire di fame-morire proprio letteralmente. Riguardando oggi le foto che ho scattato in quel periodo, capisco che mi hanno cambiato. La Somalia era di gran lunga peggio del Bangladesh. In quel momento era senza dubbio il posto peggiore sulla faccia della terra.

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Somalia, 1992

Che influenza ha avuto quest'esperienza sul tuo lavoro?
Al mio secondo ritorno dalla Somalia, dopo l'arrivo delle truppe americane a dicembre del 1992, la fotografia non mi interessava praticamente più. Ho continuato a fotografare per un po', ma poi mi sono preso una pausa di un anno per girare gli Stati Uniti in bici. Mi ero portato la macchina fotografica, ma per tutto il viaggio non ho scattato una foto che si potesse definire passabile. È così che è nato il mio interesse per l'Ovest americano. La gente di lì sopravvive grazie a strutture ingegneristiche avanzate senza le quali non potrebbe nemmeno avere accesso all'acqua. Questa tecnologia costituisce una parte importante della vita degli abitanti della zona, eppure nessuno sembra esserne consapevole. Quel senso di diniego mi ha sempre interessato, soprattutto negli Stati Uniti. Ma non ero mai riuscito a coglierlo. È successo proprio in quel momento.

E poi c'è l'avvenimento che ti ha cambiato la vita e il modo di fotografare, quello che ti ha messo di nuovo davanti alla morte. Quando è successo?
Nel 1997, era il secondo o il terzo giorno di primavera. C'erano fiori ovunque. Ero in California, e lì i quartieri più poveri non avevano un'aria così pericolosa, anche se circolavano delle gang. Ero stato mandato lì da uno dei miei redattori. C'era gente per strada, così ho parcheggiato la macchina e sono sceso. Non mi sentivo affatto in pericolo.

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Poi mi sono ritrovato in un parco giochi, c'erano dei bambini e le donne che li sorvegliavano mi hanno dato il permesso di scattare. Poco dopo è arrivata un'altra donna visibilmente sotto l'effetto di crack. Mi ha chiesto di darle i rullini perché non avevo il suo permesso, e io le ho risposto che non potevo darglieli, ma che potevo assicurarle che non avrei pubblicato nessuna di quelle foto. Poi mi sono girato e mi sono allontanato. Seduta sul marciapiede c'era una donna con un mucchietto di ciottoli. Li tirava contro le macchine che andavano troppo veloce.

È piuttosto ironico, sapendo come è andata a finire…
Già. La donna dei rullini aveva avvertito suo cugino, che a sua volta aveva chiamato dei rinforzi e si era messo a cercarmi. Mi ricordo di una macchina che sbuca dall'angolo, lo stridio dei freni e un uomo che salta giù. Mi ha detto qualcosa tipo , "Dammi la macchina fotografica, figlio di puttana." Poi mi ha aggredito. È tutto quello che mi ricordo, il resto me l'hanno raccontato. Il ricordo successivo è dell'ospedale, di una voce che mi diceva, "Smetta di spostarsi, altrimenti rischio di farle male."

Avevo una lesione cerebrale e non capivo cosa stesse succedendo. Mi hanno persino messo una camicia di forza. Ho rischiato la vita ma ho recuperato piuttosto in fretta, fortunatamente, e sono stato trasferito al Sierra Gates, un centro di riabilitazione di Granite Bay, in California. Ci sono rimasto due mesi e mezzo, ho reimparato a camminare. Nel giro di sei mesi, il mio ortofonista mi ha consigliato di ricominciare a scattare. Ma non riuscivo a prendere l'iniziativa. Avevo paura a tornare a fare il fotografo.

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Grand Lake, Colorado, 2011.

Alla fine la polizia ha arrestato il tuo aggressore e tu sei tornato al Sierra Gates per fotografare le persone che hanno passato le stesse cose che avevi passato tu qualche mese prima.
Sì, ho seguito da vicino i pazienti. La consideravo una terapia. Per un anno e mezzo li ho fotografati due, tre volte a settimana. Tra una seduta e l'altra mi addormentavo per la fatica, ma avvertivo questo buco nei miei ricordi e facevo di tutto per ricostruirli. La fotografia mi ha aiutato in più di un senso. Dopo una lesione cerebrale tendi a essere più sensibile agli stimoli esterni. Hai le vertigini. La fotografia mi ha permesso di semplificare e definire cose apparentemente molto confuse, perché è bidimensionale.

Quella vicenda ha avuto un'enorme influenza sui tuoi lavori successivi.
Ogni mattina mi svegliavo sapendo che prima o poi ci sarebbe stato un processo. Poi un giorno mi dicono che l'aggressore era stato giudicato colpevole, era finita… Fino a quel momento avevo vissuto esclusivamente sul piano emotivo, mi limitavo a sopravvivere. Poi una mattina è sparito tutto. Un amico dell'Università di Syracuse, Michal Suki, mi aveva consigliato di fare domanda per la residenza LightWork, in modo da avere un po' di tempo per riflettere sulle immagini che avevo scattato al Sierra Gates. Ero sempre stato fotogiornalista ed era la prima volta che lavoravo così approfonditamente su qualcosa. Ho imparato molto e ad agosto del 2000 mi sono spostato a New York. Ho attraversato gli Stati Uniti su un camion dei traslochi, ripercorrendo le stesse strade che avevo percorso in bici anni prima.

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E poi hai iniziato il progetto sul Colorado, a cui lavori tuttora.
Sono rimasto a New York per sei mesi, non di più, perché l'Ovest mi mancava. Il fiume Colorado mi interessava; avevo letto un bell'articolo sul delta, così ho seguito il suo corso. Dopo essermi trasferito a New York ho passato un sacco di tempo a cercare di lasciarmi alle spalle tutte le brutte abitudini che avevo preso lavorando come fotogiornalista. Si sviluppa quasi una forma di autocensura, quando sei fotogiornalista. Cerchi di immaginare il tuo lavoro in funzione della pubblicazione piuttosto che pensarlo solamente in termini di immagini. In questo progetto ho cercato di riflettere sul modo in cui le immagini interagivano tra loro sul lungo termine.

Per vedere altre foto vai alle pagine successive.

Stati Uniti, 1996

"My Dear John Letter", 1999

Nevada, 1996

Hassen e Larelle, 1999

Las Vegas, 2008

Stati Uniti, 2006

Stati Uniti, 2013

Fiume Colorado, Stati Uniti, 2014