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A9N5: Sauna salvadoregna

"Perché sei donna"

L’Italia del secondo dopoguerra non era il luogo ideale per essere una donna, e Le italiane si confessano è stato il primo libro a fare luce sulla questione. Abbiamo intervistato Gabriella Parca, l'autrice e uno dei personaggi chiave del femminismo...

L’Italia del secondo dopoguerra non era il luogo ideale per essere una donna. Pur avendo guadagnato qualcosa a livello politico grazie al diritto di voto, la vita privata era un continuo imbattersi in ostacoli invalicabili posti dalla legge e dalla morale di una società patriarcale che sembrava immutabile. Le donne italiane più che individui dovevano essere icone: mogli, madri, con nessun problema se non quello di soddisfare il marito e crescere i figli. Mentre i ragazzini cercano di capirci qualcosa della sessualità in un ambiente in cui il tema era tabù assoluto, alle ragazzine viene subito inculcato che il sesso era il male assoluto, se non dopo il matrimonio. Nell’età adulta, alle donne era punito col carcere avere un amante, agli uomini poteva passare impunito l’omicidio della moglie infedele (presente Divorzio all’Italiana?). Tutte queste restrizioni non hanno certo vietato alle donne di provare un enorme disagio per la situazione in cui vivevano, che spesso sfogavano in lettere alle riviste femminili. Per connivenza al modello sociale queste lettere restavano non pubblicate, ma grazie a Gabriella Parca, giornalista e scrittrice, nel 1959 questi sfoghi diventano pubblici. Le italiane si confessano è il primo libro a mostrare all’Italia intera cosa passavano le donne per aderire a questo modello: disperazione, rabbia, dubbio e tanta frustrazione. Questo libro è uno dei primi passi verso quella rivoluzione che porterà a cambiamenti nel costume e nella legge per cui noi giovani generazioni non finiremo mai di dire grazie. Dopo Le italiane si confessano, Gabriella Parca pubblicò I Sultani, un lungo reportage sul maschio italiano, che tanto vuole e poco è disposto a cedere (per comodità, ma soprattutto per paura di perdere il suo potere), e molti altri saggi dedicati ai temi più controversi della società italiana—la separazione e il divorzio, i carceri femminili, l’eroinaoltre ad aver fondato uno dei primi consultori laici d’Italia, il Centro Problemi Donna. Dalla sua casa di Milano ci ha raccontato l’avventurosa storia che l’ha portata a essere, volente o nolente, uno dei personaggi chiave del femminismo italiano e un punto di riferimento per capire le svolte della nostra società.

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VICE: Le italiane si confessano è stato il primo libro a descrivere la reale situazione delle donne in Italia. Quali sono state le conseguenze della pubblicazione?
Gabriella Parca: È un libro che ha fatto molto discutere. Ai tempi si diceva “i panni sporchi si devono lavare in casa”, e i critici mi accusavano di aver sciorinato i panni sporchi delle donne, ma non è così: ho dato per la prima volta voce a queste donne e non fatto parlare gli altri, generalmente uomini, che dicevano che le donne italiane, a differenza delle straniere, non avevano alcun tipo di problema, erano serene nel loro ruolo di mogli e di madri. Secondo loro andava tutto bene, non c’era niente da cambiare. Invece veniva fuori altro in queste lettere, ne ho raccolte più di 800. Come le ha raccolte?
Una parte arrivavano a me perché seguivo la posta di una rivista popolare femminile, altre invece da un altro giornale. La selezione è stata fatta tra le lettere non pubblicate. Ho raccolto le lettere, le ho divise in capitoli, ho dato una sistemata all’italiano—se le avessi pubblicate così com’erano sarebbero state noiose. Il primo editore a cui lo proposi mi disse: “Io le lettere delle serve non le pubblico. Se le scrivesse lei, allora sì.” Ma non avrebbe avuto più senso.
Infatti, erano interessanti così perché erano autentiche, se le avessi inventate io come avrei fatto con un romanzo non avrebbe avuto senso. Perché queste lettere non venivano pubblicate?
Perché erano troppo “audaci”, troppo forti. Venivano pubblicate solo le lettere che parlavano di problemi “piccoli”, le storie d’amore all’acqua di rose, simili a quelle dei romanzi di Luciana Peverelli [autrice di romanzi rosa, tra cui Cuore Garibaldino e L’amante del sabato inglese] e di altre autrici di quei tempi che scrivevano romanzi tutti uguali. Ben diverso da leggere di una ragazza che vuole uccidere il fi danzato che l’ha lasciata dopo che lei gli ha dato la sua verginità.
La “famosa prova”. Un capitolo è dedicato a questo, gli altri sono sui rapporti col marito, con il principale, sulla solitudine che provavano queste donne, sugli amanti. Una donna scriveva di questa relazione che aveva con l’amante dicendo che se il marito l’avesse scoperta l’avrebbe uccisa. Era in Sicilia, e ai tempi era decisamente probabile che avrebbe fatto una fi ne simile. A quei tempi c’era il delitto d’onore, per cui un marito uccideva la moglie per salvare l’onore della famiglia, si prendeva tre anni, a volte manco li faceva tutti. Quali sono state le conseguenze per lei della pubblicazione di questo libro?
Allora mi trattarono un po’ male, principalmente i giornali di destra, dicendomi che avevo svergognato le donne italiane. L’Espresso, Paese Sera, L’Unità e altri giornali di sinistra ne parlarono bene, perché dissero che rivelava un aspetto sconosciuto delle donne italiane, comprese le loro mogli e figlie. Ma era un aspetto effettivamente sconosciuto, o era visto ma ignorato?
Ai tempi le donne italiane erano come icone: erano così e non poteva essere altrimenti. Poi quando venne fuori che erano le donne stesse a scrivere di essere qualcosa di diverso, allora divenne difficile smentirle. Non sono un giornalista, o un giudice, o chiunque altro a dire che le donne sono così, ma loro stesse con le loro lettere. Dopo due, tre anni affrontai gli stessi problemi ma con gli uomini, e scrissi I Sultani. Quello mi causò ancora più insulti, amici che non mi salutavano più, telefonate minacciose. E per quale ragione I Sultani ha provocato reazioni così violente?
Perché gli uomini italiani facevano una pessima figura. Però non ne uscivano tanto bene neanche dalle lettere di Le italiane si confessano.
No, infatti. Un giorno mi venne a intervistare un giornalista di Time Magazine riguardo a I Sultani, lui diceva che gli uomini italiani erano dei “pidocchi”. Non è che l’avessi scritto io, però ne uscivano così. Ai tempi avevo la passione del tiro a segno, e quelli di Time mi fotografarono al poligono mentre sparavo, e scrissero che stavo “sparando sul mito dell’uomo latino”—anche questo dette molto fastidio. Quali furono le reazioni all’estero, oltre a quella di Time?
Furono soprattutto i giornali anglosassoni a occuparsene, i tedeschi se ne interessarono, soprattutto a I Sultani, e anche gli olandesi. In generale quelli che conoscevano gli italiani immigrati, ed evidentemente non erano contenti del loro comportamento, subito presero la palla al balzo. Venne un’equipe dall’Olanda che cercò di farmi dire cose che neanche pensavo.
Volevano che dicessi che gli uomini italiani, quando tornano a casa, si fanno togliere le scarpe dalle donne. Questi non avevano manco letto il libro, avevano solo letto la parola “sultani”. Poi il fatto che gli uomini fossero invadenti nelle relazioni, che d’estate facessero a gara per andare con le turiste straniere, soprattutto sulla costa adriatica, era tutto vero, e dato che oltre agli olandesi c’erano dei tecnici italiani, tutti iniziarono a discutere se avevo ragione o meno. Tra l’altro, lo sport di andare con le turiste straniere continua ad esistere.
Sai, le donne sono cambiate molto in questi anni, gli uomini invece sono rimasti un po’ gli stessi. C’è un vero e proprio gap. Ovviamente alcuni cambiamenti ci sono stati anche negli uomini, ma non sono cambiati quanto le donne. Per questo oggi ci sono quelli che pensano, “le donne vogliono comandare, vogliono decidere loro.” Non capiscono che le donne vogliono collaborare, decidere insieme.

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L'edizione in italiano e inglese de Le italiane si confessano. Secondo lei c’è un motivo per cui alcuni uomini la pensano così?
Perché non vogliono perdere il loro potere, mi sembra chiaro. È sempre stata una società patriarcale. Mi dicevano, “Lei vorrebbe sostituire il dominio delle donne a quello degli uomini.” Ma non è così, per me uomini e donne dovrebbero camminare insieme. Ne I Sultani, un signore siciliano diceva: “Se la donna ti cammina a fianco, ti può superare.” [ride] È un discorso assurdo.

Come ha organizzato il reportage per I Sultani?
Sono partita con una collaboratrice per un giro d’Italia con una serie di domande preparate insieme al Prof. Perrotta, il padre della psicanalisi in Italia, al Prof. Meschieri, professore di psicologia a Roma, e all’antropologo culturale Prof. Tentori. Abbiamo imparato a memoria il questionario per dare l’impressione che le domande fossero spontanee, ma avevano dietro un ordine e una forma ben precisi. Abbiamo intervistato 1.600 uomini tra i 20 e i 50 anni, il campionamento era stato fatto da un demografo dell’Università di Roma in modo che fosse il più vario possibile. Abbiamo fatto 10.000 chilometri in macchina in tre-quattro mesi. Eravate due donne a fare le interviste. Quali erano le reazioni?
Dipendeva da chi ci presentava alle persone. Noi ci appoggiavamo molto ai sindacati, che furono molto disponibili. Abbiamo fatto anche delle interviste in sacrestia, dappertutto. Mi ricordo un pescatore della Costiera Amalfi tana che, a una domanda sui primi giochi sessuali fatti da bambini, mi disse: “Vuole che le dia una dimostrazione?” [ride] Però non erano tutti così. Una volta ho intervistato un marchettaro omosessuale che non voleva più smettere di parlarmi, voleva raccontarci tutti i dettagli del suo ‘lavoro’. Un sacco di uomini mi hanno detto: “Questa cosa non l’ho raccontata neanche a mia moglie, e la racconto a lei. Tanto non la rivedrò più.”

Ho letto che su un quotidiano siciliano avevano messo in guardia gli uomini da lei e dal lavoro che stava facendo.
Avevano scritto che eravamo due maniache sessuali [ride]. Era il Giornale di Sicilia, il quotidiano più importante. Al nord non abbiamo avuto alcun tipo di problema. Non ha mai provato a replicare l’esperienza, magari ad anni di distanza?
Mi sono occupata di altri temi sempre in questo modo, per esempio quando ho scritto Voci dal carcere femminile nel 1972, un tema che nessuno affrontava. Allora collaboravo a L’Espresso, proposi l’inchiesta, dissero che potevo farla sempre se fossi riuscita ad avere accesso alle carceri. Dato che conoscevo un sottosegretario alla giustizia, mi scrisse una lettera che mi dava il permesso di entrare in tutte le carceri femminili che volevo. Il problema era che così dovevo fare il giro insieme a una secondina, e le donne non parlavano. Capii che dovevo intervistarle quando uscivano dal carcere. A quel punto feci l’inchiesta ma proposi anche il libro a un editore, che mi diede l’anticipo per poter fare questo giro d’Italia molto faticoso: chi esce dal carcere non lascia indietro il suo indirizzo. Le trovai attraverso avvocati, giudici e cronisti giudiziari. Poi loro stesse mi aiutavano a trovare altre compagne di cella, eccetera.
Dopo qualche anno intervistai anche Adriana Faranda [ex brigatista coinvolta nel caso Moro] per Il Giorno, passai una giornata in carcere con lei, mi raccontò tutti i particolari del caso Moro visti dall’interno. Come mai tutte le persone che ha coinvolto nei suoi lavori si sono sempre rivelate ben disposte a parlare?
Ho capito che le persone hanno una gran voglia di parlare, sia donne che uomini. Tra le ragazze uscite dal carcere ho intervistato omicide, truffatrici, prostitute. Parlai con una contrabbandiera, conosciuta a un pranzo mentre festeggiavano la scarcerazione di un’altra donna, e mi disse, “Più che pagare con la prigione, la mia vera punizione è avere due fi gli che continuano a fare contrabbando e sono sempre a rischio.” Questa cosa mi è rimasta molto impressa. A Perugia c’era il carcere con le ergastolane, ho parlato con alcune di loro nel periodo in cui c’era la campagna per il referendum sul divorzio per spiegare di cosa si trattava, e queste erano tutte contrarie al divorzio, anche perché avevano trovato una soluzione alternativa: quasi tutte erano lì perché avevano ammazzato il marito, spesso per reagire alle violenze. Mi sembra di capire che quella fosse l’unica reazione per una donna che viveva violenze domestiche, visto che era impensabile che abbandonasse la famiglia.
C’era il caso di Sibilla Aleramo che veniva portato come esempio dalle femministe, perché aveva abbandonato la famiglia ed era andata a Roma a lavorare. Per loro era un’eroina, per i cattolici era una donnaccia. Io l’ho conosciuta, allora era un caso rivoluzionario quello di una donna che lascia la famiglia, capitava però che i mariti venissero ammazzati.

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Lei si è occupata molto dei separati e dei divorziati.
Dirigevo il giornale della Lega del Divorzio, Battaglia Divorzista, e ricevevamo molte lettere. Mi venne in mente di fare un’inchiesta su di loro, perché poteva venire fuori un libro che poteva tornare utile alla campagna. Intervistai molte coppie separate, che ai tempi non erano né libere, né sposate. Per le donne era considerato un reato se avessero avuto una relazione, o anche un amante, per gli uomini solo se la relazione era conclamata, se era concubinaggio. Si finiva in galera con una facilità impressionante ai tempi.
Una volta trovarono una donna separata a pranzo con un uomo, ed era stata inquisita per supposto concubinaggio. Anche mangiare un piatto di pastasciutta con qualcuno poteva farti finire in galera. Le lettere tornano spesso come fonte per i suoi libri, ha seguito per tanti anni le rubriche di posta?
Sì, a un certo punto iniziai a seguire questa rubrica per Amica che si chiamava Donne Sole, sole sia nella giovinezza perché magari avevano conflitti in famiglia, oppure sole nel matrimonio, o perché erano separate, e pubblicai un libro che si chiamava L’albero della solitudine. Anche ne Le italiane si confessano c’è un capitolo sulle donne sole, mi ricordo la lettera di una ragazza che diceva: “Puoi essere bella, puoi essere intelligente, ma finirai comunque sola.” I temi di alcune lettere tornano anche nelle rubriche di posta dei giornali per ragazze odierni.
Sì, il tema del grande amore, del principe azzurro. Queste non erano le lettere che facevano più scalpore, perché si trattava di amori platonici, ma appena appariva il sesso si scatenava il dramma. Ricordo che feci degli articoli sull’educazione sessuale e uno sulla contraccezione per Paese Sera e spiegavo come parlare ai bambini di come nascono i bambini, una domanda che fanno tutti. L’Ora di Palermo, un giornale molto avanzato che faceva già lotta alla mafia, riprese questi articoli, ma invece di scrivere che il feto cresceva nel ventre della madre, scrissero che il feto cresceva nello stomaco della madre, perché non si poteva usare la parola “ventre”. Quando io ero in collegio, e dovevamo lavarci i piedi, dovevamo dire che ci lavavamo “le estremità”. E secondo lei quali sono stati i passaggi fondamentali di questo cambiamento? Le nuove leggi, i nuovi costumi?
Le leggi e i costumi interferiscono fra di loro. Il costume serve per cambiare le leggi, e le leggi cambiano i costumi. Anche allora, nessuno credeva che si potesse ottenere il divorzio, si diceva: “In Italia c’è il Vaticano, non verrà mai concesso il divorzio.” E poi era una vergogna essere separate. Volevo intervistare la fi glia di un generale che era separata da vent’anni, e quando glielo chiesi mi rispose malissimo, disse “Io non sono separata, mio marito è fuori per lavoro. e lei si faccia i fatti suoi.” Era una tale vergogna. Riguardo invece L’avventurosa storia del femminismo
Quel libro è stato contestato fi n dal titolo, dicevano che quel “avventurosa” era riduttivo, lo faceva sembrare un romanzo di Salgari. Io l’ho voluto mettere perché “avventuroso” LO È, è costato molta fatica e molti sacrifici. È interessante la parte iniziale, sui primissimi accenni del femminismo europeo nell’Ottocento. I socialisti e i cattolici erano entrambi spaventati all’idea di appoggiare il femminismo, perché temevano che avrebbero portato voti all’altra parte. Questo è valso anche in Italia?
Certo, ad esempio riguardo al voto alle donne: molti comunisti rimproveravano a Togliatti di essere a favore del voto alle donne, perché dicevano che le donne si facevano influenzare dal parroco e votavano la Democrazia Cristiana. Ma Togliatti lo metteva sul piano dei diritti. Comunque, alle elezioni del 1946 la Democrazia Cristiana vinse e le donne ebbero un forte ruolo in questa vittoria. Negli anni Ottanta si è occupata del problema dell’eroina con Lo Sballo. Come è arrivata alla storia che ha raccontato nel libro?
Ci sono arrivata tramite il Centro Problemi Donna, che ho fondato nel 1973. In quell’anno mi sono trasferita a Milano. Che cos’è il Centro Problemi Donna?
È un centro che ho fondato dal nulla insieme alla psicologa Erika Kaufmann. Entrambe avevamo molta pratica di piccola posta dei giornali femminili e sapevamo quanto le donne avessero bisogno di confrontarsi per risolvere i loro problemi. All’inizio fummo ospitate da un’associazione che ci offrì una stanza e una segretaria che rispondesse alle telefonate. I giornali accolsero la cosa con molta simpatia, con foto e articoli. Dopo poco tempo, la segretaria ricevette la telefonata di una madre disperata che aveva una fi glia di quattordici anni incinta. La segretaria le disse di venire da noi e che avremmo cercato di risolvere il problema. La madre in realtà era una giornalista di destra che pubblicò un lungo articolo dicendo che facevamo abortire minorenni, fu uno scandalo. Noi non facevamo nulla di tutto questo, ma ci ritrovammo con un avviso di garanzia con l’accusa di “associazione a delinquere” insieme al CISA, il Centro d’Informazione su Sterilità e Aborto di Adele Faccio che aveva come assistente Emma Bonino. In corso di istruttoria io ed Erika fummo prosciolte, ma l’associazione che ci ospitava ci mandò via ed Erika decise di abbandonare il progetto. Era il giugno del 1974. Alla fi ne ero rimasta sola ma non volevo lasciar perdere, mi sembrava una buona idea. Durante l’estate parlai con varie professioniste e misi insieme una nuova squadra. Il problema era la sede, così scrissi una lettera al Corriere della Sera e alla fi ne riuscimmo a trovare una sede, prima presso l’associazione dei Rosa Croce poi grazie al Comune in via Silvio Pellico. Non esistevano i consultori?
Non c’erano consultori pubblici, erano solo di stampo cattolico, quindi non parlavano di contraccezione, separazioni, figuriamoci di divorzio e aborto—era gente per cui le urla della donna durante il parto erano una cosa bellissima. Ed è qui che è arrivata la ragazza de Lo Sballo.
La madre veniva al Centro per alcuni suoi problemi, e mi chiese se poteva portare sua figlia che aveva problemi di droga. La ragazza prese due, tre appuntamenti, ma non venne mai. Io dissi alla signora di non fissare più appuntamenti, ma un giorno arrivò la ragazza di sua spontanea volontà. Parlammo subito, prese confidenza con me, ci incontrammo anche fuori dal centro, e mi raccontò tutta la sua storia: ormai stava già smettendo, aveva qualche ricaduta. Venne anche a casa mia, io registravo tutto, e lei era come un fiume in piena. Questo è stato uno dei primi libri in Italia a raccontare l’esperienza diretta di un tossico.
In Italia sì, erano gli anni in cui era uscito Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, ma in Italia era il primo, e andò molto bene. La protagonista è riuscita a disintossicarsi, ma non riusciva a reinserirsi nella società, allora è partita per la Palestina, è finita in un convento. Quando ci siamo viste le ho dato una parte dei diritti del libro. Ogni tanto ci sentiamo ancora, ha avuto una vita un po’ difficile ma non è più ricaduta nella droga. Come mai ha iniziato a occuparsi di temi sociali e in particolare della condizione della donna? Ha subito lei per prima delle discriminazioni?
Nel primo giornale in cui ho lavorato come cronista, Il Messaggero, ho fatto sei mesi da “volontaria”, e a quel punto dovevano decidere se assumermi o meno. Io ero molto brava come cronista di nera, l’unica nei giornali di Roma, e quando il caporedattore mi chiamò ero sicura che volesse assumermi, invece mi disse: “Devi andare via perché qui non ti vogliono.” Chiesi “Perché non mi vogliono?” e la risposta fu: “Perché sei una donna.” Ah, senza mezze misure.
Gli chiesi come fosse possibile, dato che c’erano già donne in Parlamento, c’erano donne medico, e lui mi rispose che i padroni sono molto retrogradi. Dopo due settimane riuscii a parlare con uno dei due padroni del giornale, e chiesi perché non mi volevano, e rispose: “Lei può essere anche bravissima, ma noi le donne non le vogliamo.” Nel giornale l’unica donna che scriveva era una collaboratrice esterna, moglie di un pezzo grosso, che collaborava solo per quello. A quel punto mi proposi per delle collaborazioni esterne, e mi disse “Assolutamente no.” Non mi hanno più voluta vedere. E dopo cosa fece?
In quei sei mesi avevo già conosciuto altre persone dell’ambiente, e andai a lavorare all’agenzia fotografica Meldolesi, sperando che mi insegnassero a fare le fotografi e, invece andavo in giro con un fotografo e io scrivevo i pezzi e cercavo le notizie. Facemmo un servizio sulle “marocchinate”: nei luoghi in cui nell’ultima guerra passavano le truppe marocchine, guidate dai francesi, i soldati violentavano tutte le donne che trovavano sul loro passaggio. Io andai a Esperia, uno dei paesi più colpiti, parlai con queste donne dicendo che ero mandata dal Ministero, e fecero delle dichiarazioni scritte su quello che avevano subìto. Persino il prete era stato violentato. Quando uscì l’articolo si arrabbiarono perché pensavano che essendo del Ministero avrei tenuto tutto segreto, per loro quello che era successo era una vergogna. Io dissi che il Ministero avrebbe mandato degli aiuti, soprattutto delle medicine per la sifilide (che quasi tutti avevano contratto) e andò effettivamente così, ma nel frattempo c’era stato un vero scandalo per questo articolo, nessuno sapeva ancora nulla di questa storia. Ai tempi per le donne che volevano fare giornalismo toccava andare nei giornali femminili.
Sì, ma erano considerati dei giornali di serie B, io preferivo i quotidiani, però mi piaceva anche Noi Donne, un settimanale all’opposizione rispetto alla Democrazia Cristiana che era al potere. Lei ha fatto parte di partiti politici?
Sono stata per due anni iscritta al Partito Comunista, poi andando nei Paesi dell’Est negli anni Cinquanta mi accorsi che le cose non andavano esattamente come ci raccontavano, allora lasciai. Pensa che per questi viaggi mi hanno ritirato il passaporto, per quattro anni non ho potuto viaggiare. Dovevo andare in America a promuovere Le italiane si confessano, era stato tradotto anche là, con la presentazione di Margaret Mead, ma all’ambasciata americana non mi hanno dato il visto a causa del Maccartismo. Ho fatto di tutto, ma per quei due anni iscritta al partito comunista durante l’università non potei mai andare in America. Che cosa pensa della situazione attuale delle donne?
Io penso che tra qualche decennio ci sarà un sorpasso. Quindi aveva ragione quel signore siciliano?
[ride] Diciamo che se si potesse collaborare nella famiglia, nel lavoro, vivremmo in una condizione giusta, ma c’è sempre qualcuno che vuole dominare sull’altro. Cosa potrebbero fare le donne per accelerare questo cambiamento negli uomini?
Le donne potrebbero far capire agli uomini quello che vogliono, ma soprattutto che non vogliono mettergli i piedi in testa. Tempo fa ho parlato con un signore di trent’anni, che mi diceva: “Le donne ora vogliono scegliere loro il film, dove andare a vivere, vogliono decidere tutto loro.” Ma non è così, le donne vogliono scegliere insieme all’uomo. Non è che uno deve scegliere e l’altro subire. Si discute, si ragione insieme, e si conviene. Se uno dei due deve andare da qualche parte, il marito seguirà la moglie, o la moglie il marito. Segui Chiara su Twitter: @chialerazzi