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Tecnologia

Come Steve Jobs ha fondato la religione di Apple

Nel suo ultimo documentario 'Steve Jobs: Man in the Machine', Gibney si chiede perché il mondo abbia pianto la morte di uno stronzo del genere.
Immagine: Magnolia Pictures

Alla festa di lancio per l'app Vine, il direttore di UX Jason Mante è salito sul palco armato dei suoi dreadlock e del suo carisma per declamare le funzionalità del suo prodotto. Dopo lo svolgimento di un momento di botta e risposta con il pubblico, un mio amico mi ha sussurrato all'orecchio "è proprio come il leader di una setta".

Questo tipo di atteggiamento è piuttosto comune in un mondo post-Steve Jobs, ma l'ultimo documentario di Alex Gibney, Steve Jobs: Man in the Machine ci ricorda di quando Jobs aveva associato per la prima volta la sua personalità a una compagnia tecnologica, e di quanto il suo approccio costituisse un qualcosa di completamente nuovo. Quella scelta ha fatto sì che i computer venissero percepiti come un qualcosa di intimo e non più come un oggetto privo di personalità. In questo modo Apple è diventata una delle compagnie più ricche del pianeta. Quando Jobs morì, nel 2011, milioni di persone nel mondo piansero.

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Immagine: Magnolia Pictures

La storia di Jobs è già stata raccontata in molti modi dalla sua biografia ufficiale al biopic di Ashton Kutcher sino a un libro scritto dalla madre di sua figlia Chrisann Brennan (che presenzia abbondantemente anche in questo documentario) sino ad una graphic novel incentrata sull'interesse nel buddhismo zen da parte dell'amministratore della compagnia nei suoi ultimi anni di vita. C'è anche un altro film la cui uscita è prevista per questo inverno in cui recita Michael Fassbender.

In sostanza Gibney si sta chiedendo perché il mondo ha pianto la morte di uno stronzo del genere.

Nonostante Gibney riporti anche informazioni già note, il valore del suo film risiede nella analisi di come la costruzione di un mito e dell'aura che lo circonda, la capacità di narrazione come i pettegolezzi abbiano giocato un ruolo fondamentale nell'ascesa di Jobs e della Apple.

Durante il fim, Gibney esplora le molteplici contraddizioni di Jobs: proveniva dalla controcultura ma è finito per sfruttare il potere delle multinazionali, attraverso i suoi prodotti ha connesso tantissime persone ma aveva difficoltà a connettere se stesso, ha battezzato una linea di computer come sua figlia ma in tribunale ha sostenuto di non essere suo padre per evitare di pagarle gli alimenti. I suoi peccati elencati nel corso del film includono l'aver rubato un paio di migliaia di dollari a Steve Wozniak quando lavoravano per Atari, affittare la stessa auto ogni sei mesi per evitare di registrare un proprio veicolo personale e quindi non ricevere multe per eccesso di velocità, la sua indifferenza alle lamentele per la violazione dei diritti umani e i disastri ambientali causati in Cina. Per farla breve: Gibney si chiede perché così tante persone nel mondo hanno pianto un tale stronzo quando è morto. La risposta sembra essere che Jobs ha creato una sorta di religione con Apple.

Uno degli argomenti più interessanti del film è l'aura di tecno-spiritualismo adottata da Jobs sin dai primi giorni, un tema che risuona particolarmente oggi, quando fioccano le nuove mode new-age sottoforma di carte astrali online e c'è gente che gira con un cristallo in una mano e uno smartphone nell'altra. Il documentario dedica un'attenzione considerevole al giovane Jobs, ossessionato dal libro Be Here Now scritto dallo yogi occidentale Ram Dassy e il suo interesse mai abbandonato per il buddhismo zen. Il monaco zen Kobun Chino, consigliere spirituale del protagonista del documentario, racconta l'aneddoto di un giovane Jobs che si presenta a casa sua con un chip creato da lui (o comunque con l'aiuto di Woz) sostenendo che si trattasse della prova della sua illuminazione.

Immagine: Magnolia Pictures

L'idea che la tecnologia e lo spiritualismo possano essere complementari più che antitetici è già emersa in vari modi e combinazioni, dalla credenza che il cyberspazio possa consentire una onnipresenza divina, al fenomeno del transumanesimo che mira a raggiungere l'immortalità. La versione in cui Jobs credeva era meno fantascientifica, semplicemente per lui i prodotti tecnologici potevano essere integrati con le stesse qualità proprie dei giardini zen. Gibney suggerisce che lo spirito minimalista che Jobs ha infuso nell'iPhone e nell'iPad ha contribuito a renderli molto più apprezzati di smartphone e tablet concorrenti. O forse è stata la narrativa adottata da Jobs per venderli attraverso la pubblicità ("Think Different") che ha creato il culto dei prodotti Apple.

La devozione quasi religiosa raggiunta da Apple, probabilmente, è più conseguenza delle qualità mitologiche del marchio di quanto possa esserlo delle qualità magiche delle sua tecnologia. Dal film, secondo me, emerge un fatto molto importante: se Jobs fosse finito in prigione a causa di uno scandalo finanziario per la retrodatazione di opzioni finanziarie (una eventualità che avrebbe potuto presumibilmente verificarsi considerate le circostanze e per cui due amministratori di Apple hanno comunque dovuto pagare assumendosene la responsabilità) gli analisti sostengono che la compagnia avrebbe perso un sacco di valore. Il nostro sistema finanziario è forse il miglior esempio nella società contemporanea della fede nell'azione in cui quello che viene creduto diventa automaticamente reale, e probabilmente è stata proprio la comprensione di questo meccanismo a rendere Jobs una figura di culto molto al di là dei prodotti tecnologici che vendeva.