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Foto dall'ex carcere più grande e malfamato del Brasile

Il regista e fotografo João Wainer ci ha parlato degli anni passati a fotografare quella che è stata la più grande prigione dell'America Latina.

In Brasile, la prigione di Carandiru è conosciuta principalmente come sede del massacro del 2 ottobre 1992, quando la repressione di una rivolta portò alla morte di 111 detenuti. Dieci anni dopo, la struttura—un tempo la più grande di tutta l'America Latina—è stata rasa al suolo.

Ma il fotografo e regista João Wainer serba molti altri ricordi di quel luogo: dopo esservi entrato per la prima volta nel 1998, Wainer è stato gradualmente introdotto alle vite dei detenuti e dei secondini, documentandole anno dopo anno. L'abbiamo incontrato per parlare di quel periodo.

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Un detenuto di Carandiru. Tutte le foto di João Wainer.

VICE: Ti ricordi del tuo primo giorno a Carandiru? Come è stato?
João Wainer: Certo che sì. Era il 1998 ed ero lì per conto della Folha de S. Paulo insieme a un altro giornalista. Ci hanno subito portati a vedere l'Amarelão [ la sezione del carcere per i detenuti che avevano ricevuto minacce di morte]. Non sapevo che avrei passato così tanto tempo in quel posto.

Quali sono state le tue prime impressioni?
È stato spaventoso, anche perché ci hanno subito portato a vedere le parti più dure. Un secondino aveva deciso di farci uno scherzo. C'era un odore terribile, e le lenti della macchina fotografica si erano appannate subito per via del caldo tremendo. I detenuti non vedevano mai la luce del sole, nemmeno si spostavano da quella sezione del carcere. Ecco, a un certo punto quel secondino ha aperto la porta e ci ha detto, "Se qualcuno vuole scendere, andate pure." Ovviamente nessuno si è mosso. Lui si è limitato a ridere.

L'Amarelão ospitava anche tutti quei detenuti che erano finiti in risse particolarmente violente. E persone che avevano subito minacce gravi. Se non ricordo male era il quarto piano del quinto padiglione, che era quello più sicuro. C'erano anche le detenute transessuali. Ma al quarto piano nessuno vedeva la luce del sole.

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Detenute transessuali nel padiglione numero cinque di Carandiru.

Per quanto hai scattato dentro Carandiru?
Dal 1998 al 2002, quando l'hanno smantellato. Ho conosciuto subito [ l'attrice] Sophia Bisilliat e più tardi abbiamo iniziato a collaborare con [ il giornalista] André Caramante e [ la fotografa] Maureen Bisilliat. Da lì abbiamo iniziato a lavorare alla cosa in maniera più sistematica; mi capitava di andare alla prigione anche due o tre volte a settimana.

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All'epoca Sophia aveva un progetto—si chiamava Talenti in prigione—di corsi di arte rivolti ai detenuti. Da quel progetto sono nati i 509-E [ un gruppo rap] e molte altre cose.

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Dexter e Afro-X dei 509-E nella cella in cui è nato il gruppo rap.

So che quando giravate per il carcere non eravate sotto la supervisione di nessuno.
Attaccavo il lavoro da Folha alle 4 del mattino, e verso le 8, nei giorni prestabiliti, andavo alla prigione. Sophia era una figura molto rispettata a Carandiru, e questo ci ha aperto molte porte. Non dovevamo sottostare ai controlli né avevamo bisogno della supervisione. Per un po' abbiamo avuto una discreta libertà.

In che rapporti eri coi detenuti?
Eravamo in buoni rapporti. Il fatto che fossi lì con Sophia aiutava, chiaramente, ma credo che più di tutto ci abbia aiutato la nostra volontà di non giudicare nessuno. Non eravamo poliziotti, avvocati o giudici. Io non ero lì per giudicare, ma per capire quel posto, la sofferenza delle persone, per capire cosa succedeva. Quando metti da parte i giudizi diventa tutto più facile. Se avessi continuato a pensare a cosa aveva fatto ognuno di quei detenuti per finire lì dentro, non sarei stato in grado di sostenere una singola conversazione, di andare avanti e di fotografarli.

Non mi piace giudicare, non l'ho mai fatto. Se avessi voluto farlo sarei diventato un poliziotto.

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Una partita di calcio a Carandiru.

Ci sono stati giorni, a Carandiru, in cui hai avuto davvero paura?
Una volta ho assistito all'inizio di una rivolta. Avevano organizzato una festa e volevano passarsi del cibo, ma la sicurezza del carcere non lo aveva permesso. A un certo punto i detenuti hanno cominciato a scaldarsi. Sono tutti usciti in cortile, e c'è stata una riunione tra i capi delle gang. Ci hanno chiesto di rimanere dentro, eravamo sicuri che sarebbe scoppiato un casino. È quasi successo. Ma alla fine hanno deciso di non fare niente.

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Se fosse successo qualcosa, credi che ti avrebbero protetto?
Saremmo stati sicuramente protetti perché tutto quello che facevamo veniva deciso prima con i detenuti e con il management. Quindi non ho mai avuto paura. Mai.

Cosa intendi con "management"?
Lo staff. Avevamo un accordo sia con i membri dello staff che con i capi delle gang della prigione. Mi sentivo sempre al sicuro. Tutto era chiaro, non c'erano cazzate. Si parlava sul serio. Ho imparato un sacco di cose. Non ho mai raccontato a nessuno questa storia, ma la lezione più importante l'ho imparata lì, con il signor Valdemar. Avevamo instaurato un bel rapporto quando lavoravamo con le detenute transessuali. Abbiamo anche organizzato una sfilata, ed è stato incredibile. Poi ho scoperto che c'era una transgender che aveva fatto l'operazione, e non gliel'ho confessato subito.

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Il padiglione numero cinque.

Davvero?
Si era fatta l'operazione in Marocco e non aveva mai cambiato i documenti che la identificavano come uomo. È stata arrestata con i vecchi documenti ed è stata portata in un carcere maschile, e nessuno si è mai preoccupato di controllare. La storia mi ha subito incuriosito e ho deciso di seguirla. Ho cominciato a intervistare la detenuta, a parlarci. Poi Valdemar mi ha scoperto, e voleva sapere perché avessi cominciato a lavorarci prima di rivolgermi a lui. Mi ha rimproverato e mi ha spiegato che in prigione non puoi dare la parola per qualcosa e non rispettarla. Devi fare quello che dici.

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Così ho deciso di rinunciare. Avrei potuto seguire il caso, ma poi non sarei mai più potuto tornare in quel posto. E avevo appena iniziato. Ho deciso di lasciar perdere per salvare il mio rapporto con Valdemar, che poi ha portato a un intero libro—senza quella singola storia. È stata una lezione pazzesca. Di quelle che valgono per tutta la vita.

Caco Barcellos, un giornalista brasiliano, una volta mi ha detto: "se voglio occuparmi di una storia che rovinerà per sempre la vita di una persona, vado da quella persona e dico 'questa cosa ti rovinerà la vita.' Anche se vai fino in fondo, quella persona ti rispetterà perché sei stato onesto." Ho visto un sacco di giornalisti inventarsi cazzate, che dicono di fare una cosa ma poi ne fanno un'altra. Ho imparato un sacco su questo.

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L'infermeria di Carandiru.

Che rapporto avevi con i leader del 'PCC' [la banda di detenuti dei 'Primeiro Comando da Capital']?
Quando abbiamo cominciato a lavorare a Carandiru il PCC non aveva molto potere. Dopo un po' sono arrivati e hanno cominciato a negoziare. Dato che noi eravamo lì da prima, sapevano chi eravamo e che non avevamo cattive intenzioni. Ma era difficile dialogare con loro. Per alcuni mesi non abbiamo avuto il loro appoggio e non siamo riusciti a lavorare.

C'è stato anche un episodio interessante. Avevamo già ottenuto il loro appoggio e il problema era rientrato—ma poi un giorno è venuto da me uno dei loro a dirmi che non avrei potuto scattare foto in un determinato padiglione. Quando il suo capo è venuto a saperlo si è incazzato, ha fatto chiamare il tizio e gli ha urlato contro di tutto. Gli ha addirittura chiesto di diventare il mio assistente. "Adesso gli dai una mano. Tutto quello che vuole, tu lo fai," ha detto al tizio. Alla fine siamo diventati amici.

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Le foto delle celle sono piuttosto scioccanti. Tantissime persone, vestiti, sacchi di plastica, e pochissimo spazio e letti.
Probabilmente si trattava di celle temporanee. Nessuno ci stava per troppo tempo. Quando una persona veniva spostata in una cella regolare riceveva un piccolo materasso. Ma le celle temporanee erano un casino. Facevano paura. Non come alcuni commissariati di polizia in cui sono stato, però. Ho lavorato a un pezzo sul sovraffollamento nello stato di Espírito Santo, ed è stata la prigione più scioccante che ho visto in vita mia. Carandiru non era paragonabile a quelle condizioni. Quei ragazzi dovevano mettersi l'uno sopra l'altro per dormire.

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Una delle celle provvisorie di Carandiru.

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"L'ufficio postale" di Carandiru.

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La demolizione di Carandiru