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A9N3: Il sottobosco ucraino è roba dura

Zanesville

Tigri in fuga, un suicidio e scimmie con l'herpes nel racconto di Nathaniel Rich.

Nathaniel Rich ha 32 anni, e nella sua vita ha scritto e raggiunto più di quanto fareste voi potendo arrivare ai 100. Il suo romanzo La voce del sindaco, pubblicato a pochi anni dalla laurea, è stato accolto positivamente dal New York Times e da chiunque sia in grado di leggere, tanto da valergli paragoni con Paul Auster. Siamo certi che lo stesso avverrà per il suo ultimo libro, appena uscito per Farrar, Straus and Giroux col titolo Odds Against Tomorrow. All’attività di romanziere Nathaniel ha affiancato anche quella di editor per il Paris Review, con contributi di saggistica e giornalismo per The New York Review of Books, Harper’s, Vanity Fair e… be’, avete capito l’andazzo. L’ispirazione per questo racconto gli arriva invece dalla vicenda di Terry Thompson, suicidatosi alcuni anni fa dopo aver liberato 56 animali tra tigri, orsi, leoni, lupi, leopardi e scimmie dal rifugio che gestiva in Ohio. Tutti i nomi e i dettagli sono frutto d’invenzione (tranne per la parte sulla scimmia con l’herpes. Quella è vera). “Zanesville” è il primo racconto di Nathaniel per VICE.

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Se solo Roger avesse comprato il coniglio. Harriet l’aveva già scelto—un albino spelacchiato con gli occhi rossi come braci—anche se non ci aveva messo il cuore. Non lo metteva più in nulla, almeno fin dalla sua visita dal Dottor Doom. Diceva di aver scelto il coniglio albino perché sembrava il più triste. Ma a Roger lo sembravano tutti. Non solo i conigli, qualsiasi animale impegnato a rantolare e strillare e sbatacchiare nella sua gabbietta al WeLuvPets!: il furetto dagli occhi neri che sembrava uscito da una rissa in un pub; il degu che si trascinava dietro la coda lunga e sottile come un filo di bava; e più di tutti il riccio, accanitosi contro una palla di giornale spiegazzato fino a cadere di lato, esausto e tremante. Tra l’incessante stridio delle calopsitte (“Aiuto!”, gracchiavano. “A-a-aiuuuuuuto AIUUUUTO!”) e il puzzo—un denso miasma di pelo umido, fieno impregnato d’urina e deodoranti alla formaldeide—Roger sentiva avvicinarsi un mal di testa in piena regola. Una mano scura si era assestata sul suo tronco encefalico e aveva iniziato a stringere. Porse la carta di credito a Harriet e le disse di scegliere qualsiasi diavolo di coniglio volesse. Lui l’avrebbe aspettata fuori. Ma avvicinandosi all’uscita fu distratto da un paio di occhi scintillanti che lo fissavano dal registratore di cassa. Stavano su una brochure di carta lucida, Exotic Pets 4 Sale. Riconobbe quegli occhi. Li aveva già visti, dieci anni prima, durante la guerra—probabilmente nella provincia di Quảng Trị, quando il suo plotone aveva preparato un agguato in un fitto boschetto di acacie e sempreverdi. Più di tutto ricordava il caldo; non l’avrebbe mai dimenticato, quel sole più vicino alla terra di quanto non fosse mai avvenuto negli Stati Uniti. E l’umidità ossessiva, il peso dei suoi stivali, il risucchio vivace del fango, il misterioso bordo di un giallo crostoso che si formava là dove l’elmetto d’acciaio veniva a contatto con la pelle, sul collo. Ricordava di essere rimasto sotto il tettuccio di canne per quasi cinque ore, attento a non sobbalzare troppo violentemente ogni volta che una cicadella rosso scuro gli volava in bocca, quando aveva avvertito uno strattone allo stivale sinistro. Si era voltato aspettandosi di trovarci Collins o uno degli altri, ma aveva visto soltanto una grossa ombra che avanzava nell’oscurità come un lenzuolo. Subito dopo c’era stato un urlo profondo e angosciato. Roger e gli altri, ignorando la procedura, avevano rapidamente abbandonato le posizioni, giusto in tempo per scorgere un felino da 200 chili trascinare Collins per la caviglia attraverso il manto del bosco. La tigre, circondata da soldati carichi di adrenalina, era un facile obiettivo. Circa ottanta scariche si erano abbattute sul suo fianco, e Collins se l’era cavata con qualche ferita lieve sui polpacci. Gli uomini avevano trascinato il trofeo fino alla postazione successiva. Del resto gli Huey non sarebbero tornati a recuperarli prima di 48 ore, e temevano che nel caldo della giungla l’animale sarebbe marcito. Secondo uno dei presenti l’urina conteneva acido tannico, usato per trattare la pelle di cervo. Due giorni dopo, tornati al campo, i cinque marine avevano posato sorridenti per una fotografia vicino alla carcassa preservata col piscio.
Roger ritrovò Harriet alla cassa con il coniglio e un sacco da due chili di erba medica.
“Tesoro,” disse, e lei lo guardò di colpo. Non la chiamava più così. “Ho un’altra idea.”

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  1. Sto tornando in città su West Pike Street e per un pelo non investo un grizzly.
    Avete presente quando la gente fa incontri insoliti, e all’inizio pensa di aver visto qualcos’altro? Come per: credevo fosse un banco di pesci, ma quando ha alzato la coda ho capito che era il mostro di Loch Ness. O: pensavo fosse un semplice satellite, poi però è atterrato nel deserto e sono scese tutte quelle creature flessuose con gli occhi a ologramma—allora ho capito che era una navicella aliena. Ecco, non è stato affatto così. Mai visti orsi bruni a Zanesville, Ohio, ma non ho il minimo dubbio. Lo so e basta, dentro di me, a un livello animale. In più non ci sono ombre o che: è uno di quei giorni col cielo azzurro, stranamente caldo per il mese di ottobre, e ho appena lasciato Rachel e Tyler al parco giochi della scuola elementare Licking View. Tyler va pazzo per la scala orizzontale. L’ultima volta è stato abbastanza forte da riuscire a rimanere appeso quasi fino alla fine. Mancavano solo due sbarre.

È una giornata perfetta, un ultimo assaggio d’estate, e la strada è così limpida che sembra levitare. Non ci sono altre macchine, e ho appena imboccato quel rettilineo subito dopo Polk Scrap Iron and Metal dove hai due miglia di vista libera, fino al punto in cui la Pike diventa Main. E il grizzly è lì, seduto in mezzo alla strada. Mi osserva con sguardo truce, come a dire, che pensi di fare adesso? Premo il freno fino in fondo, perché ho visto quello speciale su Discovery Channel. Quello di Yellowstone, in cui il grizzly dà alla Hyundai Elandra parcheggiata un colpetto col muso e la macchina si capovolge su se stessa come uno scarafaggio, vi ricordate? Guido un Chevrolet Equinox, ma non voglio rischiare. Non ora che c’è Tyler. Mentre l’auto rallenta cerco di capire cosa ci faccia un grizzly a Zanesville. Ho letto che diverse specie animali stanno cambiato habitat per evitare il clima sempre più caldo: i bisonti americani vanno in Canada, le zanzare della dengue si spostano dai Caraibi alla Costa del Golfo. Magari questo grizzly è arrivato qui dall’Ontario passando per il Ponte Mackinac. Oppure ha attraversato a nuoto il Lago Erie e si è fatto Cleveland e Akron e Canton e Gradenhutten. Ma non ha nessun senso. Per cominciare non sarebbe uscito vivo da Cleveland, e poi gli animali migrano sempre verso nord, no? È perché mai un orso dovrebbe andare a sud, verso l’equatore? Proprio così, sono sotto shock. Sto rallentando, ma non abbastanza velocemente. L’orso è sempre più vicino, mi fissa; il suo sguardo oltrepassa il parabrezza e si ficca nei miei occhi come un gancio da macelleria. Quando l’Equinox si ferma del tutto, l’animale indifferente è a distanza di un braccio. Poi fa una cosa inaspettata: solleva una zampa e la poggia sul paraurti. È come una benedizione che mi rivolge silenziosamente. Ma prima che la nostra conversazione possa proseguire oltre, il gigante è distratto da un fruscio sul bordo della strada. Una scimmietta—uno scimpanzé, direi—esce ondeggiando dalla boscaglia con l’aria sconcertata e le nocche che lasciano piccole strisce di sangue sull’asfalto. L’orso, dimenticatosi della macchina, fa due balzi per attraversare la strada e scatta in avanti. La scimmia è un lauto bottino. L’orso le affonda i denti nel collo e la strattona avanti e indietro, mentre le zampe anteriori della scimmia si agitano goffamente come appartenessero a un animale impagliato. La sua mandibola si apre e chiude lentamente, a masticare l’aria. Mentre l’orso strappa gli intestini della scimmia riparto, sempre lungo West Pike. Sposto la radio su WZNE, ed è allora che capisco. DJ Whizbox, che per chi non l’avesse mai sentito sembra un teenager sotto barbiturici, farnetica a proposito di leoni e tigri e orsi in fuga da un certo Muskingum County Animal Refuge. Non ne ho mai sentito parlare, ma il DJ spiega che è su Kopchak Road, e che gli animali in libertà sono una cinquantina. Tutti considerati pericolosi. La storia è così assurda che mentre guido a velocità ridotta verso il centro, osservando la boscaglia in cerca di leoni africani e tigri del Bengala, inizio a perdere il controllo. Riesco a malapena a tenere la macchina, sopraffatto dall’assurdità. Urlo, grido tra le risate—finché non mi ricordo di Rachel e Tyler. E l’unica cosa che separa il bosco dal parco giochi è un misero recinto metallico alto due metri. Un recinto alto la metà del grizzly. Un grizzly la cui bocca, vedo ora nello specchietto, è coperta di marmellata alla fragola.

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  1. Negli anni successivi Roger sarebbe tornato da WeLuvPets! a comprare conigli, decine di conigli. Ne prendeva di vivi solo per i compleanni e le festività. Per lo più si procurava il cibo di Benji al Pick ’n Save, dove chiedeva al macellaio di mettere da parte tutta la carne andata a male. Da cucciolo Benji mangiava due chili al giorno, ma divenuto adulto aveva bisogno di quasi il quadruplo del cibo. Roger adorava stare a guardare Benji divorare il fianco grigiastro del manzo, la carne di cavallo fibrosa, galline intere. Soprattutto nei primi anni, quando Benji non doveva competere per il cibo. Assaporava tutti i suoi pasti. Iniziava leccando la gallina, con la lingua spessa che copriva la carne bianca e grinzosa, irrorandola di saliva mentre se la girava tra le zampe come un cioccolatino gigante. Poi, di tentativo in tentativo, come a sperimentare un atto illecito, rosicchiava un’ala. E dopo ancora la coscia, e l’altra ala, facendo pause tra un boccone e l’altro per sbadigliare e mostrare le zanne a Roger—Non provarci. Alla fine la fame aveva il sopravvento e Benji portava a termine il pasto in un clangore glorioso, fatto di ossa a pezzi e tendini. Roger l’avrebbe osservato per ore.

E di solito era così che faceva. Durante la giornata interrompeva spesso il lavoro all’officina R’s Motorcylce Repair per andare a controllare Benji. Persino la sera, dopo che Harriet rientrava dal lavoro, si tratteneva nel recinto. Gli dava il biberon; aveva anche cercato di insegnargli dei comandi di base (“Seduto, Benji boy, seduto!”), ma la maggior parte delle volte si limitava a guardarlo in silenzio, ipnotizzato dal modo in cui le striature si avvolgevano e curvavano a ogni passo dell’animale. “Qualcuno deve pur prendersene cura,” diceva Roger quando Harriet si lamentava. “E non mi sembra che a te interessi.” Harriet, rifugiandosi nell’inesistenza, si era data alla televisione e al cucito. Prima dell’ultima visita dal Dottor Tomarsky—che lei aveva preso a chiamare Dott. Doomarsky e poi semplicemente Dott. Doom, come la sventura associata alla sua situazione medica—aveva iniziato un piccolo maglione blu pallido. Mancavano solo le braccia. Tornati dall’appuntamento, quello in cui il dottore aveva abbozzato un diagramma delle tube di Falloppio di Harriet, lei si era rifugiata a singhiozzare nella loro camera da letto rifiutandosi di cenare. A quel punto Roger seppellì il maglione senza braccia sotto diversi strati di sacchetti della farmacia spiegazzati dentro al bidone della spazzatura. Lo considerava un atto di compassione, poiché la vista del maglione incompleto l’avrebbe turbata inutilmente. Qualche mattina dopo fu dunque sorpreso di vederla uscire di casa, col volto rosso e sofferente. Roger aveva finito di fissare i pali da tre metri e mezzo che sarebbero andati a formare il perimetro del recinto di Benji. Le corse in contro per confortarla, ma lei lo allontanò. “L’hai buttato?” urlava. “L’hai buttato nella spazzatura?” Roger provò a spiegarsi e chiese scusa, invano. Non ne parlarono mai più, ma quella sera lei iniziò un nuovo maglione. Una copia dell’altro—celeste, e delle dimensioni adatte a un bambino. Roger non sapeva se a guidarla fosse il desiderio di ripicca o una semplice ossessione sentimentale, ma dal momento che il lavoro a maglia sembrava l’unica cosa capace di soddisfarla scelse di non immischiarsi. La verità, però, è che continuava a creare vestiti per bambini. Non solo maglioncini, ma copri pannolini, coperte e babbucce. La cosa lo metteva a disagio, fornendogli un’altra ragione per stare fuori con Benji. Eppure, anche con Benji c’era qualcosa che non andava. Era stato un cucciolo giocherellone, affettuoso e vivace, ma mano a mano che le zampe si allungavano e il torso cresceva sino a diventare delle dimensioni di un barile, aveva assunto un atteggiamento cupo. Era agitato, irrequieto. Aveva smesso di aggirarsi furtivo, e passava sempre più tempo nella casetta che Roger gli aveva costruito con casse da imballaggio di Pick ’n Save e un telone blu a fare da copertura. Lanciava occhiate tristi dall’oscurità, con la mascella immobile e gli occhi a mandorla privi di riflessi. Un osservatore passivo avrebbe potuto definirlo apatico o rincretinito, ma Roger, che lo conosceva ormai molto bene, avvertiva dentro di lui un profondo desiderio. Riconobbe quella condizione: il povero Benji si sentiva solo. Indicibilmente solo. Nella sezione “grandi felini” dell’Exotic Pets 4 Sale successivo, Roger si imbatté nell’annuncio di una signora di Daytona Beach: “Beatrice è stata allattata artificialmente, ha otto mesi, è molto carina e tranquilla. Le piace essere coccolata. 300 dollari o migliore offerta più spese di spedizione.” Beatrice era siberiana, non bengalese, ma la sua proprietaria spiegò che gli incroci avvenivano frequentemente; era così che si ottenevano le tigri bianche. Il problema di Beatrice era un altro, e non fu evidente fino al suo arrivo a Kopchak Road. Era stupenda, con grandi occhi del colore della carambola e un manto spesso e bianco. Ma non era particolarmente amichevole. Essendo più grande di Benji, i due si azzuffavano raramente e avevano preso posto ai lati opposti del recinto. Dopo poco Beatrice divenne ancora più cupa di Benji, che non sembrava più tanto solo quanto agitato. Era una situazione insostenibile. Entrambi avevano bisogno di un compagno. Roger iniziò a piazzare degli annunci: il Muskingum County Animal Refuge di Zanesville, Ohio, cerca cuccioli di tigre. Offerte competitive. Gli animali saranno trattati con amore! Tra l’assegno di disabilità come veterano e il denaro messo da parte col lavoro all’R’s Motorcylce Repair, a cui si aggiungeva il fondo universitario aperto due anni prima su insistenza di Harriet, Roger aveva un po’ di liquidità. I cuccioli di tigri del Bengala costano quasi quanto un golden retriever, dal momento che la domanda era ancora più bassa dei capi disponibili. L’Ohio era uno degli otto Stati in cui non servivano permessi per il possesso di animali esotici. E la carne avanzata da Pick ’n Save era gratis. Le visite a domicilio del veterinario non erano economiche, ma in quei primi anni il peggio che Roger avesse dovuto affrontare era stato l’attacco di salmonella che aveva colpito Beatrice per una settimana. A casa c’era spazio in abbondanza. L’officina occupava solo una parte del cortile anteriore. Esclusa la collinetta al limite della proprietà dove Roger teneva dei pezzi di ricambio— freni a disco, boccole e carburatori che scolorivano al sole come le ossa di una carcassa spolpata—i 162mila metri quadrati polverosi sul retro dell’abitazione erano inutilizzati. A fine estate, prima delle piogge, i campi rilasciavano dense nuvole di polvere che stazionavano sulla proprietà come tempeste di sabbia, non senza filtrare in casa. Per un po’ il terreno era stato utilizzato per il motocross, ma quando Harriet aveva iniziato a lavorare da Rescue the Perishing l’avevano abbandonato. Nel fine settimana era troppo stanca per fare qualsiasi cosa fosse diverso dallo sdraiarsi sul divano, con la tv accesa e il dito coperto dal ditale che spingeva lentamente l’ago attraverso i vestitini. In più, Roger poteva dire che le tigri gli valevano un qualche ritorno economico. Motociclisti da tutta la Contea di Muskingum andavano all’R’s Motorcycle Repair per banali messe a punto solo per poter vedere Benji e Beatrice. Il fatto che Roger fosse il principale esperto dell’Ohio nei lavori su misura per Harley aiutava indubbiamente. È così che si era guadagnato la lealtà dei suoi clienti. Ma gli animali ne attiravano molti altri. E quando un motociclista portava con sé il figlio per vedere le tigri, Roger non poteva negare la soddisfazione trasmessagli dallo sguardo sbalordito del bambino. Loro sì che comprendevano il potere dell’animale. Lo si vedeva dal modo in cui l’espressione sui loro volti si allentava. Capivano come, osservando profondamente gli occhi di Beatrice, si potesse cadere in un pozzo senza fondo di selvaggia oscurità. La sensazione era inebriante. Quelli erano bei tempi. Roger aveva sempre un minimo di otto moto su cui lavorare, il numero degli animali era in continua crescita—in due anni, Benji e Juliana, una siberiana più accomodante, avevano dato alla luce quattro cuccioli—e lui non si era mai sentito così impegnato in qualcosa o con qualcuno, nemmeno con gli uomini accanto ai quali aveva combattuto a Quảng Trị. Ogni giorno, quando usciva per andare a controllare i suoi animali, si sentiva quasi sopraffatto dall’orgoglio. Con loro era un padre premuroso; i più piccoli venivano nutriti col biberon, mentre i pezzi di carne di cavallo sanguinolenta erano riservati a Benji, Beatrice, Juliana, Cujo, Sally Codalunga, Benji Jr. e Monster. All’ora dei pasti si mettevano in riga come scolaretti, nell’ordine stabilitosi tra loro, dal maschio alfa fino alla zeta. Harriet, da parte sua, sembrava approvare. O quantomeno il lavoro da Rescue the Perishing la soddisfaceva. Stravedeva per i pazienti—per lei erano come una famiglia, diceva. “Nel senso di nonni?” le chiese Roger la sera a cena in cui lei aveva usato quella parola. Quella piccola parola luccicante: famiglia. “Come zii e zie più vecchi?” Harriet sembrò doverci riflettere per un po’. Stavano mangiando una bistecca di soccoscio—dall’arrivo di Benji, Roger aveva sviluppato un enorme appetito per la carne rossa. “Quando invecchiano a tal punto,” disse Harriet con quel tono interrogativo che aveva sviluppato negli anni, e che Roger non ricordava usasse ai tempi della loro frequentazione al liceo, “vivono quella che chiamiamo una seconda infanzia.”
“Ovvero?”
“È come se tornassero bambini. Quando si avvicinano alla fine, sono come bambini piccoli.”
Da allora Roger smise di chiederle dei suoi pazienti. I bei tempi finirono bruscamente nella primavera del 1988, quando su Exotic Pets 4 Sale Roger lesse che uno zoo era andato in bancarotta. Il Lion Country Safari di Irvine, in California, era prossimo alla chiusura. Gli animali erano sani e puliti, ma non erano stati allevati secondo le norme federali dell’Animal Welfare Act, e potevano essere venduti soltanto a privati in Ohio e gli altri sette Stati “esotici.” “Non ti sembra che ne abbiamo a sufficienza?” ribatté Harriet di fronte all’intenzione di Roger di noleggiare un camion per il trasporto di bestiame. “Sono già nove.” In realtà erano 11, ma lui non la corresse. Ci vollero tre giorni per arrivare a Irvine—uno più del previsto, dato che il camion si rifiutava di superare gli 80 all’ora—e perse la prima mattinata dell’asta. Le quattro tigri del Bengala erano già state vendute a un fattore di Palm Springs per 1.000 miseri dollari. Nessuno aveva fatto altre offerte. Roger andò a protestare dal banditore, un vecchio secco dalle basette grigie e affilate, la bocca carnosa e una cicatrice da graffio che correva su tutta la guancia in quattro strisce parallele.
“Abbiamo ancora lo zebù,” rispose.
“Cos’è?”
“Un bue domestico indiano.”
Roger scosse la testa disgustato.
“Ti piacciono quelli grossi, eh?”
“Scusi?”
“Resta fino a domani, ci sono tutti gli altri bestioni. Bisonti. Leoni. Grizzly. Persino uno gnu striato.”
“Non saprei nemmeno da dove incominciare con questi animali.”
Il banditore si mise a ridere, un rantolo leggero che si spense in una successione di colpi di tosse.
“Non cambia niente. Li metti in un recinto, gli dai la carne tra le cinque e le sette volte al giorno, e il latte in polvere. Agli orsi piacciono le caramelle, e hanno bisogno di fieno per il giaciglio. Coi vaccini è tutto a posto. Se hai allevato delle tigri te la caverai.” Roger tornò a Zanesville in un unico viaggio, fermandosi a dormire sulle strade sterrate fuori dalla I-70 un paio d’ore ogni tanto. Ma non era facile appisolarsi. O guidare. Persino lungo la superstrada riusciva a sentire i leoni ruggire ai grizzly—un frastuono orribile—e gli orsi, ancora cuccioli, piangere sconsolati. Probabilmente ci sarebbe voluto un po’ perché Harriet si abituasse ai ruggiti nel cortile su retro. Riusciva a sopportare le tigri, ma solo fingendo che non esistessero. Si rifiutava di andare a vedere il recinto e in generale dopo il primo anno aveva smesso di fare domande a Roger. A lui stava bene; il Muskingum County Animal Refuge era un rifugio, e non solo per animali. Ma non gliel’avrebbe detto immediatamente. Dopo tutto, non poteva semplicemente portare lì i leoni. Per costruire i nuovi recinti ci sarebbero volute almeno due settimane, e i due cuccioli di orso avevano bisogno di un trattamento speciale: sembravano traumatizzati dal viaggio. Una, Coco, giaceva a terra catatonica, in posizione fetale. L’altro, Charlie, era rannicchiato in un angolo della gabbia. Ogni cinque minuti circa aveva delle specie di convulsioni, e si metteva sulle zampe posteriori in uno spasmo violento mostrando i denti in un patetico sfoggio di sbruffoneria. Poi, all’improvviso, si abbandonava su un lato della gabbia e rimaneva immobile, a riprendere fiato fino alla crisi successiva. Roger era arrivato a Zanesville alle due di mattina. Lasciati i leoni nel camion e presa la gru a cavalletto dall’officina, sollevò le gabbie degli orsi dal pianale e le trasferì nel garage al posto di due Kawasaki arrugginite. Il mattino successivo, un sabato, non si svegliò fino a mezzogiorno. Di Harriet non c’era traccia. Aveva iniziato a lavorare anche nel fine settimana, eppure la sua bici era nel vialetto. Roger si precipitò sul retro, ma non era nemmeno lì. I leoni sonnecchiavano pacificamente nel camion, apparentemente indifferenti alle tigri che si muovevano a sei metri di distanza lungo il perimetro del loro recinto. Poi notò che in garage c’era la luce accesa. “Harriet?” la chiamò. “Harriet!” Nessuna risposta. Avvertiva solo un leggero tintinnio metallico. Un oscuro presentimento scese su di lui. La serranda del garage era leggermente sollevata. Roger corse su per il vialetto, si abbassò e passo sotto la porta. Quello che vide era ancora più terribile di quanto temesse. Sua moglie era nella gabbia.
“Harriet?”
La donna avvicinò un dito alle labbra in segno di silenzio. Sedeva a gambe incrociate. Coco, lungi dall’essere catatonica, stava appoggiata alla sua schiena. Si contorceva da un lato all’altro nel tentativo di districare le zampe anteriori e una delle gambe da un filo color viola. Charlie era in braccio ad Harriet, visibilmente calmo. Sembrava addirittura essersi appisolato. Cullandogli la testa, Harriet lo stava allattando con un biberon colmo di latte tiepido. Charlie strofinò il suo orecchio contro il petto di lei.
“L’ho sentito piangere,” sussurrò. “Ma ora si è calmato.”
Continuava a cullarlo delicatamente. “Certo, piccolo,” disse in tono affettuoso. “Va tutto bene, piccolo.”
“Potresti uscire da lì?”
Harriet gli lanciò un’occhiata di rimprovero. “Questo animale era traumatizzato. Cosa gli è successo?”
“Io… non lo so.”
“Credo gli manchi la sua mammina,” disse con una voce che Roger non conosceva. Aveva un che di infantile, e un tono estremamente acuto. Ma, fatto ancora più preoccupante, non si stava già più rivolgendo a Roger.
Parlava con Charlie. “È così, eh? Vero, povero piccolo?” Quel pomeriggio Harriet tirò fuori le scatole di plastica in cui aveva conservato i maglioncini fatti a mano negli anni successivi alla diagnosi del Dott. Doom. Per la prima volta dopo un tempo immemore dopo cena non accese la tv. Iniziò a cucire insieme i vecchi maglioni lungo i bordi. Accorciava le maniche alla lunghezza delle zampe e allargava l’imboccatura del collo. Dopo diverse serate di silenziosa contemplazione, Roger non poté trattenersi.
“Stai davvero facendo dei maglioni per i miei orsi?” “L’inverno è vicino,” disse Harriet. “E non vogliamo che si prendano l’influenza, giusto?”
“Sono grizzly,” fece lui. “Stanno bene al freddo. Il loro habitat naturale è l’Alaska”
Harriet scosse con convinzione la testa. “E poi,” riprese, “non sono i tuoi orsi. Sono i nostri.”
Fu allora che le cose iniziarono ad andare male per Roger e il Muskingum County Animal Refuge.
  1. Mentre ripercorro in velocità West Pike Street non posso fare a meno di maledire quei negligenti dei proprietari del Muskingum County Animal Refuge, l’idiozia delle leggi sugli animali esotici dell’Ohio e il riscaldamento globale. Se fosse un normale ottobre del ventesimo secolo, e invece di brezze temperate avessimo il gelo e un piccolo strato di neve, Rachel non sarebbe mai stata tentata dal portare Tyler al parco giochi. Ma più di tutti maledico Kelly Wortman. Kelly è capo ufficio del tribunale della contea e il motivo puro e semplice per cui sono disoccupato. In altre parole, è il motivo per cui sono diretto allo Zanesville Photocopy per stampare il mio curriculum e le lettere di accompagnamento. Kelly Wortman è il motivo per cui ho lasciato mia moglie e mio figlio in un parco giochi, indifesi, mentre i predatori più pericolosi del regno animale, i corpi speciali degli assassini di professione, scorrazzano liberamente.

E tutto perché ero troppo polemico. È così che mi aveva descritto Kelly Wortman, polemico. In un tribunale dovrebbe esserci un minimo di tolleranza, o persino stima, per una persona che mette in discussione lo status quo. Insomma, tutti sanno che abbiamo troppo lavoro. I giudici si lamentano, gli avvocati si lamentano, i magistrati di sorveglianza si lamentano. Avevo delle idee per risolvere il problema. Avevo anche suggerito di standardizzare le pause, e che i giudici annunciassero i registri con un giorno di anticipo, in modo da limitare i ritardi per quando la polizia è chiamata a testimoniare. Continuo a essere convinto delle mie proposte. Kelly Wortman mi aveva detto che gli impiegati amministrativi non vengono pagati per le loro idee. Va bene, ma ciò non significa che non ne possiamo avere. Non capisco perché dovrei essere punito per aver alzato la voce in difesa della giustizia, anche se questo poteva significare qualche ritardo sulle consegne. Non che avessi grandi aspirazioni all’interno del sistema giudiziario—o in qualsiasi altro sistema, per quello che vale. Ma Tyler ha già due anni e mezzo, e fare gli straordinari al Dirty Palm non bastava a coprire le vaccinazioni, la purea di mele e le babysitter, per non parlare dei Pampers. Per me sarebbe bastato, ma con Rachel e Tyler? Non c’è niente che sia abbastanza. È quello il problema. Così, mentre passo Polk Scrap Iron and Metal maledico anche Rachel per avermi fatto maledire il Muskingum County Animal Refuge, le leggi dell’Ohio, il riscaldamento globale e Kelly Wortman. Maledico Rachel e maledico me stesso. DJ Whizbox ridacchia fuori controllo.
“L’ufficio dello sceriffo della Contea di Muskingum chiede di sollecitarvi a evitare un contatto con gli animali in libertà.”
“Anche le scimmie?” chiede Monty, l’altro speaker.
“Le scimmie sono carine.”
“Soprattutto le scimmie. Ci hanno detto che è ‘altamente probabile’ abbiano l’herpes.”
“Se sono di Zanesville, non ho dubbi.”
“Abbiamo degli aggiornamenti. Due orsi bruni sono stati avvistati al cimitero Mt. Calvary intenti a scoperchiare tombe. Un cliente del Super 8 sulla superstrada 420 ha visto una tigre del Bengala abbeverarsi dalla piscina.”
“Una tigre del Bengala?” riprende Monty. “Impossibile. Ce ne saranno tipo un migliaio in tutto il mondo.” “C’è un intoppo anche sulla I-70, in direzione est. Sembra che il traffico sia stato bloccato per far passare un branco di orsi.”
“Perché un orso stava attraversando la strada?”
“Eccoci.”
“Per mangiare qualcuno. Per squarciare qualche corpo da arto ad arto.”
“Ok, sentite qui. Un leone—criniera, ruggito possente, coda e tutto—è stato avvistato mentre divorava un cane, un collie, su Ridge Road. La padrona ha chiamato in lacrime.”
“È in linea.”
“E mettila in vivavoce, Monty. Dai, forza.”
Il volume della radio sale e scricchiola finché non subentra la voce rotta di una donna.
“Gesù mio,” dice. “Gesù caro. È la fine. La mia povera, povera Daffodil.”
“Grazie per aver chiamato WZNE, signora,” la interrompe DJ Whizbox. Si schiarisce la gola cercando di trattenere le risate. “Prego, ci spieghi cosa è successo.”
“È dappertutto!”
“Cosa?”
“Daffodil!” singhiozza. “Il mio cane. È come se fosse esplosa una bomba. Una zampa, una roba schifosa, e, ossignore, la sua coda. La coda. Si muove ancora. È finita sul portico, si muove ancora, su e giù. Mi sento male.”
“Signora? È ancora lì?”
“Devo recuperare la coda.”
“Signora, resti in casa. Dov’è il leone?”
“Sto guardando fuori dalla finestra, ma non lo vedo da nessuna parte. Un attimo.” Un ruggito possente, come il rombo di un jumbo jet a bassa quota, fa vibrare le casse dell’auto. Spengo la radio. Svolto a destra e mi immetto sulla I-70. Qualche curva dopo inizio a intravedere la scuola elementare Licking View. Accosto bruscamente vicino al parco giochi, mentre sento crescere in me qualcosa di terribile— le mie viscere, la mia bile, la mia paura. Il cancello è chiuso, ma Rachel e Tyler non sono dentro. Mi guardo intorno: la scuola elementare, la scuola superiore, una fila di case con motori, gomme e giocattoli sparpagliati nei cortili. Per essere sabato, è tutto stranamente tranquillo. Non che mi sorprenda, visto che la polizia starà senza dubbio mettendo in guardia dall’uscire. Eppure, trovarmi lì in una giornata soleggiata e completamente solo ha un che di angoscioso. Poi però noto che non sono completamente solo. La tigre è dall’altro lato del parco giochi. Le striature del suo manto si muovono furtivamente oltre la recinzione. È una bestia fatta e finita, sui due metri di lunghezza, il pelo color arancio sui fianchi e bianco sul ventre e la gola. Le piccole orecchie sono impudentemente ritte, e i baffi bianchi e spessi strisciano contro le sbarre. Lo sguardo sembra fisso sullo scivolo di plastica rossa. È uno di quelli parzialmente coperti, col tetto che si interrompe a metà della rampa. Subito immagino sia una situazione alla matador, e che la tigre sia attratta dal colore rosso. Ma osservando più attentamente noto che dalla copertura sporge una piccola scarpa bianca. In un attimo sono fuori dalla macchina, e con una corsa raggiungo il cancello. “Rachel?” chiamo. “Rachel, sei lì?”
Mia moglie urla. Penso mi stia chiamando per nome, ma il rumore è attutito dalla copertura dello scivolo. “Papà?” grida Tyler. “Papà?” Lo sento distintamente. Inizia a scivolare lungo la rampa, ma Rachel lo afferra con veemenza. Avverto baluginare qualcosa attraverso la mia visione periferica: la tigre, in un lampo arancione, sta correndo lungo il perimetro della recinzione. Rientro in fretta in macchina. Anche se la futilità dell’azione non mi è immediatamente evidente, chiudo le sicure. Poi la macchina sobbalza, e la mia testa picchia violentemente contro il tettuccio. Il mostro ha posato due zampe grosse come hamburger sul cofano e mi fissa attraverso il parabrezza. L’espressione sul suo volto—se tale composizione selvaggia di zanne, baffi affilati e occhi insensibili può veicolare una qualsiasi espressione umana—è di curiosità. La saliva le gocciola dalle fauci e cade sul cofano. Sembra chiedersi cosa le riservi il pranzo e che sapore avrà. Noto anche un altro fatto strano. Non ha la coda. Al suo posto c’è un mozzicone a spirale—proprio come la coda di un maiale. Quel particolare dà all’animale un aspetto assurdo, quasi patetico. Metto in moto e penso di fare marcia indietro, uscire da lì, e magari prendere la I-70—in direzione ovest, lontano dal traffico. Chiamerò la polizia per avvertirli di controllare il parco giochi della Licking View. Potrei essere a Indianapolis per il tramonto. Ma spingendo sull’acceleratore riuscirei ad arrivare a Saint Louis poco dopo l’ora di cena. O a Chicago. Perché Chicago? Perché Saint Louis? Perché qualsiasi altro posto? Perché non sono Zanesville. Cerco di andarmene fin dai tempi del liceo, da quando ho fatto l’autostop verso nord fino a Oshkosh, finché non sono rimasto senza soldi. Il lavoro da Lear, dove stringevo i bulloni dei sedili d’auto, è durato quel poco che serviva perché conoscessi Rachel. E poi è arrivato Tyler, e le sue vaccinazioni, la purea di mele, le babysitter, i Pampers. Ma la tigre—chi l’ha mandata qui? Non credo alle faccende spirituali, eppure questo fatto deve pur significare qualcosa. Onde evitare fraintendimenti: non speravo che attaccasse la mia famiglia, non sia mai. Ma quando una tigre del Bengala fa la sua comparsa a Zanesville, in Ohio, non puoi non chiederti se sia un segno. Se qualcuno non stia cercando di dirti che la tua banalissima vita non può andare avanti. Inserisco la retro, controllo un’ultima volta lo specchietto e mi preparo per la fuga.

  1. Roger fu svegliato dal suono di un miagolio selvaggio. Leo, che aveva raggiunto i 200 chili, era riuscito a passare con la zampa attraverso la griglia che separava i leoni dalle tigri, e con un singolo gesto deciso aveva reciso la coda di Benji. Quando Roger corse fuori con la torcia, la coda si dimenava a terra.

E non fu nemmeno il peggio. Cody, il suo gorilla di pianura occidentale ormai adulto, si comportava in modo strano da settimane—si batteva la zampa sul petto come un pensionato dopo un’indigestione, tossiva continuamente e non era più in grado di finire il suo secchio giornaliero di cibo. Barcollava tra il suo tronco d’albero preferito e il box di copertoni come Re Lear nella scena della sua morte. “La situazione sta andando oltre le mie capacità,” aveva detto il capo-veterinario del Zanesville Pet Center, Ken Zwelling, mentre osservava Cody da una distanza di sicurezza. Col passare del tempo Zwelling era diventato una specie di esperto di animali esotici, ma iniziava ad apparire sopraffatto. Uno dei cuccioli di leone, Zion, aveva perso quasi tutti gli artigli. Persino Beatrice stava peggiorando. La vitamina A e le iniezioni di ribavirina contro il cimurro non funzionavano più come prima, e lei era sempre più irritabile. Arrivò al punto di ruggire al solo rumore del furgoncino del veterinario su Kopchak Road. Una mattina, dopo che ebbe vomitato sui suoi cuccioli, Roger capì il da farsi. Calato il buio spinse Beatrice nella sua vecchia gabbia, inerte e confusa. Era talmente gonfia che il suo pelo premeva contro le sbarre. La trasportò al limitare dei boschi, e mentre i suoi cuccioli piagnucolavano nell’oscurità, la abbatté. Roger era solito fare affidamento sulla moglie per tenere sotto controllo le sue ambizioni più selvagge—e il conto in banca. Ma da quando Harriet aveva perso la testa per Charlie, il cucciolo di grizzly, era diventata ancora peggio di Roger. Spendeva senza freni: affila unghie, multivitaminici, vaccini, e soprattutto, altri orsi. Ogni volta che Roger osava contestare le spese eccessive, Harriet gli dava dell’ipocrita o, cosa ben peggiore, alludeva minacciosamente al fatto che non avessero nessun altro per cui spendere. Niente rate per la scuola o i campi estivi. Erano soltanto loro due. E poi, Cherish non ha forse bisogno di un nuovo amico? Raplhy viene ignorato da tutte le orse; perché non gli troviamo compagnia e li sistemiamo in un recinto privato? Oh, guarda: il Wild Animal Kingdom di Tampa sta per chiudere! Devono portar via tutti gli animali! Il fatto che Roger avesse iniziato a ridurre il lavoro all’officina complicava ulteriormente le cose. Viste le necessità del suo zoo, poteva prendersi cura soltanto di un certo numero di moto per volta. A quel punto era responsabile di più di 30 animali: 14 tigri, sei leoni africani, quattro leoni di montagna, quattro babbuini, un gorilla e una coppia di bertucce che recentemente avevano preso la pessima abitudine di rosicchiarsi l’una il pelo dell’altra. E a questi bisognava aggiungere gli orsi di Harriet. Gesù, gli orsi: alla sua ultima verifica ne risultavano 22, ma il numero sembrava destinato a crescere. Nelle ultime settimane Josie e Cherish si erano gonfiate. Roger incolpava Charlie, che crescendo era diventato un autentico seduttore. Inseguiva le orse per tutto il recinto, indemoniato. Messane una all’angolo le dava dei colpi alla testa finché questa non si arrendeva, permettendogli di salirle sopra con i suoi 300 chili e di leccarle il pelo. “A quanto pare diventerò nonna,” disse Harriet una mattina indicando la protuberanza di Josie. Tutta quell’attività stava mettendo a dura prova le abilità di Roger come costruttore di recinti. Questi ricoprivano ormai l’intera proprietà, ma iniziavano a non essere sufficienti. La struttura si stava arrugginendo o era prossima alla rottura. E sembrava solo questione di tempo prima che gli animali se ne rendessero conto. In più, i recinti stavano accerchiando anche Roger. Erano solo in due a prendersi cura del Muskingum County Animal Refuge, ma la sensazione era che lo spazio fosse grande abbastanza per uno solo. L’affetto di Harriet per gli animali lo disturbava—quelle manifestazioni così palesi, gli strofinii e le coccole incessanti, e gli assurdi maglioncini che quei bruti continuavano a fare a pezzi. Un po’ di affetto non guastava, ovviamente—lo stesso Roger era legato alla sua nidiata. Li allattava col biberon, sostituiva i copertoni non appena venivano ridotti in brandelli e giocava con i cuccioli, almeno finché non spuntavano loro gli artigli. Ma ancora più che affetto, quegli animali meritavano rispetto. Nel veld sudafricano non c’erano abbracci, giusto? E di certo i grizzly dell’Alaska non indossavano dei cavolo di maglioni. Nonostante ciò, la sconcertante intensità dell’affetto di Harriet non era nemmeno il problema principale. Il problema principale era la sua presenza costante. Anche quando lui era nel recinto dei leoni, all’estremità della proprietà, riusciva a sentirla tubare nell’infinita cura degli orsi. Riusciva a percepire la sua tristezza, simile a un enorme cuscino premuto sul suo volto. Un tempo aveva l’abitudine di accovacciarsi in silenzio al limitare del recinto, a osservare per ore le tigri in una specie di trance, perdendosi nelle strisce del manto e il movimento dei loro muscoli. Ma ormai era diventato impossibile. Ogni singolo minuto sapeva che Harriet era nella sua tana degli orsi personale. Era quello il suo aspetto—l’aspetto di un paziente dopo l’elettroshock? Aveva la stessa espressione assente e vile? Ecco perché, almeno all’inizio, portare in giro gli animali era sembrata la soluzione ideale. Portava in mostra i suoi felini in scuole, gruppi della chiesa, e alcuni degli zoo municipali più piccoli, che essendo soggetti all’Animal Welfare Act non potevano permettersi di far fronte alle norme previste per il possesso permanente di leoni. Poteva farsi pagare un sostanzioso extra anche per le spese di viaggio, un’entrata di cui la sua attività aveva molto bisogno. E lontano da Zanesville, con un solo animale, sperava di poter ritrovare un po’ di quello che aveva perso. Ed era così! Osservare la frenesia dei bambini quando, come un mago, sollevava il telo dalla gabbia—gli urli delle femmine, i fischi dei maschi—suscitava in lui il vecchio brivido. I leoni miagolano? chiedevano i bambini. Cosa piace fare ad Aslan? Lo lasci dormire nel tuo letto? Se fosse affamato—ma molto, molto affamato—dici che Aslan potrebbe mangiare un bambino? Roger conosceva tutte le risposte. (Sì, Aslan potrebbe mangiare un bambino). La sua parte preferita era la fine della presentazione, quanto tirava fuori un pezzo di carne. Lo sventolava con fare di sfida, a pochi centimetri dalla gabbia, da cui Aslan cercava inutilmente di afferrarlo con la schiuma a un angolo della bocca. Dopo poco il leone si sarebbe infuriato così tanto che il risultato atteso diventava inevitabile: un ruggito feroce, famelico e capace di gelare il sangue. Ma le espressioni sui volti dei bambini! Roger temeva che Harriet non sarebbe stata in grado di assolvere a tutti i compiti del rifugio, ma la donna resistette ai suoi primi spettacoli fuori porta senza problemi, e lui prese a prolungare i suoi periodi di assenza. Di lì a poco col suo furgone arrivava fino nel Midwest, dove si fermava per intere settimane con tre o quattro animali al seguito. Risparmiava sul cibo fermandosi a raccogliere animali morti sul ciglio della strada. Il cervo era il migliore—i leoni ne andavano pazzi—ma quando non era di fretta prendeva anche cani o puzzole. E col business che avanzava, anche la sua parcella iniziò a crescere. Aslan fu addirittura noleggiato per posare insieme a una modella in occasione di uno shooting della PETA, a Philadelphia. Ma dopo essere tornato da quell’ultimo viaggio, Roger notò un’alterazione nell’atmosfera. Passando in rassegna i recinti per controllare che Harriet non avesse combinato nulla—o cercato di far indossare alle tigri dei maglioni— avvertì che gli animali si comportavano diversamente. Non sapeva spiegare il perché, era qualcosa di sottile come una nuvola che passa davanti al sole. Non c’era troppo tempo per riflettere, perché la mattina successiva sarebbe partito coi macachi per una settimana tra le residenze sanitarie della Carolina del Nord e del Sud. Non che gli animali sembrassero in cattivo stato di salute, o tristi—non era quello. Sembravano più vivaci del solito. Persino Benji, il povero vecchio Benji senza coda, aveva un aspetto più gioioso. Ma quando Roger si avvicinò al recinto, Benji ringhiò con una ferocia inaudita.
“È tutto a posto con gli animali?” chiese ad Harriet studiandola.
“In che senso?” Stava pompando acqua pulita nel laghetto artificiale delle tigri. Lo aveva fatto l’anno prima mentre lui era in Wisconsin, in giro per campi estivi—aveva noleggiato un’escavatrice John Deere e fatto l’intero lavoro da sola. Al suo ritorno, Roger aveva trovato le tigri immerse nell’acqua fino al collo, accucciate, come clienti in una spa. “Non so,” rispose Roger. “Sembrano diversi.”
Harriet scosse la testa. “Mi sembra abbiano un aspetto sano. E sai cosa dicono: un bimbo sano è un bimbo felice.”
“Mm,” fece Roger. “Forse è quello.”
Gli spettacoli nelle residenze sanitarie furono un successo—agli anziani piacevano un sacco i macachi. Sorridevano soddisfatti quando le scimmiette leccavano via il gelato alla vaniglia dalle loro dita, lasciandone tracce sulle barbe e le bocche raggrinzite. (“Sembra il mio Howard!” aveva esclamato una vedova tra le risate). Eppure l’inquietudine non era scomparsa, e l’ultimo giorno del viaggio, invece di fermarsi a dormire a Raleigh, Roger guidò per tutta la notte fino a Zanesville. Arrivato alle cinque di mattina, si riposò per cinque ore e si alzò, con la testa dolorante, per ispezionare il rifugio. L’inquietudine si era trasformata in paura. E non appena fu arrivato al recinto delle tigri comprese il perché. I suoi animali non lo riconoscevano. E quella era l’interpretazione più clemente. In che altro modo si sarebbe potuto spiegare il loro comportamento nei confronti di Roger? Si sentivano trascurati per via della sua assenza? Non amati? O avevano trovato una padrona più paziente e gentile? Qualunque fosse la ragione, ora gli si erano rivoltati contro. Non appena avvertirono il suo odore, i leoni iniziarono a ruggire rabbiosi coi cuccioli che guaivano ai loro piedi, mettendo in allarme il resto degli animali. Cody, il gorilla malandato, si mise sulle zampe posteriori, sollevandosi in tutto il suo metro e 80, e si batté il petto facendo vibrare la gabbia. Le sbarre, improvvisamente troppo sottili, cigolavano. Roger sapeva che non ci sarebbe voluto molto perché Cody riuscisse a uscire. Le tigri erano destinatarie di particolari cautele, nella speranza che almeno loro, i suoi amici più vecchi, gli dimostrassero fedeltà. Eppure si aggiravano nel recinto con una certa strana passività; era come se lo stessero ignorando. Ma Roger le conosceva bene. Sapeva per certo che Benji era pienamente cosciente della sua presenza e di ogni suo singolo movimento. Lo si notava nel vigilare imperturbabile dei suoi occhi. Quando Roger si avvicinò al cancello, Benji iniziò a trotterellare verso di lui per poi allungare il passo e guadagnare terreno fino a caricare e scagliarsi contro le sbarre con un frastuono doloroso. I suoi occhi erano neri.
“Vecchio mio,” disse Roger. “Sono io. Papà. Sono il tuo papà.”
La bocca di Benji si aprì in uno sbadiglio mostrando le gengive viola e le zanne gialle, per poi emettere un terribile ringhio catarroso. I suoi artigli tentavano di afferrare la rete, come se stesse cercando di buttare giù la gabbia. Roger si voltò e corse via, e nel farlo notò Harriet; era nella gabbia dei grizzly. Sedeva a terra pacificamente, a occhi chiusi. Charlie le stava dietro, circondandole il petto con fare protettivo. L’orso rivolse lo sguardo verso Roger come a intimargli di non avvicinarsi. Nel resto della settimana non gli fu facile trovare un po’ di tempo per parlare con Harriet. Aveva paura a tornare ai recinti, e lei non rincasava se non per andare a dormire. Due volte portò addirittura un sacco a pelo dagli orsi, e si addormentò tra montagne di pelo. “La mia presenza li calma,” diceva Harriet. “Non voglio che si sentano trascurati.” Una mattina Roger si alzò un po’ prima per intercettarla prima che andasse al lavoro. La sorprese in cucina, intenta a infilare delle pillole multivitaminiche in un grosso mattone di gelatina Omnivore Chow al tacchino. “Stavo pensando,” azzardò Roger. “Non siamo più così giovani.”
“Come mai sveglio a quest’ora? Pensi di dare una bella sistemata alle moto? Si stanno ammucchiando.”
“Quando la gente arriva alla nostra età,” ritentò con maggiore delicatezza, “i figli se ne vanno da casa o si trasferiscono per l’università.”
Harriet faceva finta di niente, continuando a farcire l’Omnivore Chow di pillole fino a farlo somigliare a un Jell-O alla frutta. Tendeva a ignorarlo ogniqualvolta lui parlava di bambini, o della loro assenza.
“E poi i genitori entrano in una fase simile a una seconda luna di miele,” continuò lui. “Hanno la casa tutta per loro, e più tempo. Sono liberi dalle responsabilità che il crescere dei figli comporta. Possono fare piani su come vivere il resto della loro vita insieme.”
Harriet, irrigidendosi, si girò verso di lui. “Io so come voglio vivere il resto della mia vita. Con la mia famiglia.”
“La tua famiglia. Intendi gli animali?”
“Non li hai mai trattati come animali. Era come se fossero i tuoi figli. Come se fossero tua moglie.”
“Non è vero—”
“E ora gli animali, e tua moglie con loro, la tua vera moglie, hanno capito che persona insensibile sei.”
“Quando ero via avevo nostalgia,” rispose lui. “Non degli animali. Ma di te.”
Harriet sbuffò.
“Arrivi con vent’anni di ritardo. Ora abbiamo un altro tipo di famiglia.”
“Sono animali. Animali selvatici.”
“Non è colpa mia se ti sei allontanato da loro. Quegli animali sono perspicaci quanto qualsiasi essere umano.”
Harriet uscì col piatto di Omnivore Chow, lasciando il marito da solo in cucina.
E Roger si sedette sul pavimento di linoleum a piangere per i figli che non aveva.
  1. Inserisco la retro, pronto a fuggire. Incapace di farne a meno, lancio un’ultima occhiata alle mie spalle. Rachel è in piedi in cima allo scivolo—povera Rachel. Non ha più niente della Rachel di quando ci siamo conosciuti, anche se sono passati appena cinque anni. Ha preso un po’ di chili sui fianchi e le gambe, ma non è a questo che mi riferisco; il suo viso ha subito una trasformazione delle più inquietanti. Ha solo 26 anni, certo. La sua pelle non è rugosa, e i capelli non sono grigi, anche se più deboli e radi—nella doccia formano un groviglio giallastro, intasando lo scarico. Non saprei indicare un segno preciso, tranne il fatto che ha perso la sua luce. Quella luce dentro ogni donna che, una volta sfuggitale, non torna più. È stato il bambino, non c’è dubbio. Avete presente quella frase che i genitori dicono ai figli, “Sei la luce della mia vita?” Ecco, Rachel ha passato la sua luce a Tyler e ora dentro è buia. O almeno questa è la mia impressione, non di rado.

Ma quando la vedo lì, questa misera figura solitaria sulla copertura dello scivolo, mi blocco. O meglio, è il mio piede destro a bloccarsi, diventando incredibilmente pesante. Non riesco a spostarlo dal freno. Rachel mi fissa attraverso il parabrezza e giuro, anche se ci separano quasi 30 metri, sono trafitto. Perdo momentaneamente di vista la tigre, che comunque, dopo aver testato il suo peso sul paraurti, sta iniziando ad arrampicarsi sul cofano. Gli occhi di Rachel mi penetrano e rimbalzano in tutto lo spazio vuoto dentro di me. Quello sguardo, non l’ho visto tante volte prima d’ora. È per metà rassegnazione e per metà un desiderio profondo, come se volesse qualcosa con tutta se stessa ma non si aspettasse di vederselo concesso. E poi capisco che non voglio andare a Indianapolis. O a Milwaukee o a Chicago o persino in California. Diciamocelo, l’unico posto per cui sono fatto è Zanesville, Contea di Muskingum, Ohio. Passo dalla retro alla prima e premo sull’acceleratore, girando le ruote verso il cancello del parco giochi. La tigre è distesa sul cofano come una grottesca mascotte. Freno all’improvviso e il bastardo cade all’indietro. Sento lo schianto della sua colonna vertebrale contro il metallo. È un rumore meraviglioso. La tigre del Bengala è un po’ più vicina all’estinzione. Riaccendo la radio. DJ Whizbox ha degli aggiornamenti. Spiega che dopo aver aperto tutte le gabbie e lasciato uscire gli animali, il proprietario del Muskingum County Animal Refuge si è tolto la vita. La polizia di Zanesville ha già abbattuto più di una ventina di animali, ma ce ne sono altrettanti ancora in libertà. La moglie del proprietario del rifugio è stata portata via dalle forze dell’ordine. “Dovete capire,” dichiara lo sceriffo in un’intervista, “per lei quegli animali erano come figli. È distrutta. Mi ha detto tra le lacrime, ‘Per favore, non portatemi via la mia famiglia.’” “Hai sentito? Incredibile,” fa Rachel scuotendo la testa. Si è asciugata le lacrime e ha ripreso a respirare normalmente. “Quegli animali selvaggi erano la sua famiglia?” Le metto una mano sulla coscia. Me la stringe. Lancio un’occhiata allo specchietto retrovisore. Tyler, esausto, o forse traumatizzato, si è addormentato lungo disteso sul sedile posteriore. Penso di capire cosa intendesse la donna del rifugio. Ti trovi la tua famiglia, in un modo o nell’altro, e una volta che ci arrivi, è fatta. Senza sei solo un animale esotico, che vaga per lande selvagge in cerca di cibo. È per quello che non mi sento in colpa per aver ucciso la tigre. L’ho guardata negli occhi, ed erano neri. Non insensibili o rabbiosi—soltanto vuoti. Aveva lasciato il suo rifugio; era smarrita e sola. Le ho risparmiato la miseria. E lei l’ha risparmiata a me. Quando siamo arrivati a casa, una scimmia, senza dubbio con l’herpes, stava cagando nel vialetto. Ho investito anche lei.