Roger ritrovò Harriet alla cassa con il coniglio e un sacco da due chili di erba medica.
“Tesoro,” disse, e lei lo guardò di colpo. Non la chiamava più così. “Ho un’altra idea.”
Sto tornando in città su West Pike Street e per un pelo non investo un grizzly.
Avete presente quando la gente fa incontri insoliti, e all’inizio pensa di aver visto qualcos’altro? Come per: credevo fosse un banco di pesci, ma quando ha alzato la coda ho capito che era il mostro di Loch Ness. O: pensavo fosse un semplice satellite, poi però è atterrato nel deserto e sono scese tutte quelle creature flessuose con gli occhi a ologramma—allora ho capito che era una navicella aliena. Ecco, non è stato affatto così. Mai visti orsi bruni a Zanesville, Ohio, ma non ho il minimo dubbio. Lo so e basta, dentro di me, a un livello animale. In più non ci sono ombre o che: è uno di quei giorni col cielo azzurro, stranamente caldo per il mese di ottobre, e ho appena lasciato Rachel e Tyler al parco giochi della scuola elementare Licking View. Tyler va pazzo per la scala orizzontale. L’ultima volta è stato abbastanza forte da riuscire a rimanere appeso quasi fino alla fine. Mancavano solo due sbarre.
Negli anni successivi Roger sarebbe tornato da WeLuvPets! a comprare conigli, decine di conigli. Ne prendeva di vivi solo per i compleanni e le festività. Per lo più si procurava il cibo di Benji al Pick ’n Save, dove chiedeva al macellaio di mettere da parte tutta la carne andata a male. Da cucciolo Benji mangiava due chili al giorno, ma divenuto adulto aveva bisogno di quasi il quadruplo del cibo. Roger adorava stare a guardare Benji divorare il fianco grigiastro del manzo, la carne di cavallo fibrosa, galline intere. Soprattutto nei primi anni, quando Benji non doveva competere per il cibo. Assaporava tutti i suoi pasti. Iniziava leccando la gallina, con la lingua spessa che copriva la carne bianca e grinzosa, irrorandola di saliva mentre se la girava tra le zampe come un cioccolatino gigante. Poi, di tentativo in tentativo, come a sperimentare un atto illecito, rosicchiava un’ala. E dopo ancora la coscia, e l’altra ala, facendo pause tra un boccone e l’altro per sbadigliare e mostrare le zanne a Roger—Non provarci. Alla fine la fame aveva il sopravvento e Benji portava a termine il pasto in un clangore glorioso, fatto di ossa a pezzi e tendini. Roger l’avrebbe osservato per ore.
“Ovvero?”
“È come se tornassero bambini. Quando si avvicinano alla fine, sono come bambini piccoli.”
Da allora Roger smise di chiederle dei suoi pazienti. I bei tempi finirono bruscamente nella primavera del 1988, quando su Exotic Pets 4 Sale Roger lesse che uno zoo era andato in bancarotta. Il Lion Country Safari di Irvine, in California, era prossimo alla chiusura. Gli animali erano sani e puliti, ma non erano stati allevati secondo le norme federali dell’Animal Welfare Act, e potevano essere venduti soltanto a privati in Ohio e gli altri sette Stati “esotici.” “Non ti sembra che ne abbiamo a sufficienza?” ribatté Harriet di fronte all’intenzione di Roger di noleggiare un camion per il trasporto di bestiame. “Sono già nove.” In realtà erano 11, ma lui non la corresse. Ci vollero tre giorni per arrivare a Irvine—uno più del previsto, dato che il camion si rifiutava di superare gli 80 all’ora—e perse la prima mattinata dell’asta. Le quattro tigri del Bengala erano già state vendute a un fattore di Palm Springs per 1.000 miseri dollari. Nessuno aveva fatto altre offerte. Roger andò a protestare dal banditore, un vecchio secco dalle basette grigie e affilate, la bocca carnosa e una cicatrice da graffio che correva su tutta la guancia in quattro strisce parallele.
“Abbiamo ancora lo zebù,” rispose.
“Cos’è?”
“Un bue domestico indiano.”
Roger scosse la testa disgustato.
“Ti piacciono quelli grossi, eh?”
“Scusi?”
“Resta fino a domani, ci sono tutti gli altri bestioni. Bisonti. Leoni. Grizzly. Persino uno gnu striato.”
“Non saprei nemmeno da dove incominciare con questi animali.”
Il banditore si mise a ridere, un rantolo leggero che si spense in una successione di colpi di tosse.
“Non cambia niente. Li metti in un recinto, gli dai la carne tra le cinque e le sette volte al giorno, e il latte in polvere. Agli orsi piacciono le caramelle, e hanno bisogno di fieno per il giaciglio. Coi vaccini è tutto a posto. Se hai allevato delle tigri te la caverai.” Roger tornò a Zanesville in un unico viaggio, fermandosi a dormire sulle strade sterrate fuori dalla I-70 un paio d’ore ogni tanto. Ma non era facile appisolarsi. O guidare. Persino lungo la superstrada riusciva a sentire i leoni ruggire ai grizzly—un frastuono orribile—e gli orsi, ancora cuccioli, piangere sconsolati. Probabilmente ci sarebbe voluto un po’ perché Harriet si abituasse ai ruggiti nel cortile su retro. Riusciva a sopportare le tigri, ma solo fingendo che non esistessero. Si rifiutava di andare a vedere il recinto e in generale dopo il primo anno aveva smesso di fare domande a Roger. A lui stava bene; il Muskingum County Animal Refuge era un rifugio, e non solo per animali. Ma non gliel’avrebbe detto immediatamente. Dopo tutto, non poteva semplicemente portare lì i leoni. Per costruire i nuovi recinti ci sarebbero volute almeno due settimane, e i due cuccioli di orso avevano bisogno di un trattamento speciale: sembravano traumatizzati dal viaggio. Una, Coco, giaceva a terra catatonica, in posizione fetale. L’altro, Charlie, era rannicchiato in un angolo della gabbia. Ogni cinque minuti circa aveva delle specie di convulsioni, e si metteva sulle zampe posteriori in uno spasmo violento mostrando i denti in un patetico sfoggio di sbruffoneria. Poi, all’improvviso, si abbandonava su un lato della gabbia e rimaneva immobile, a riprendere fiato fino alla crisi successiva. Roger era arrivato a Zanesville alle due di mattina. Lasciati i leoni nel camion e presa la gru a cavalletto dall’officina, sollevò le gabbie degli orsi dal pianale e le trasferì nel garage al posto di due Kawasaki arrugginite. Il mattino successivo, un sabato, non si svegliò fino a mezzogiorno. Di Harriet non c’era traccia. Aveva iniziato a lavorare anche nel fine settimana, eppure la sua bici era nel vialetto. Roger si precipitò sul retro, ma non era nemmeno lì. I leoni sonnecchiavano pacificamente nel camion, apparentemente indifferenti alle tigri che si muovevano a sei metri di distanza lungo il perimetro del loro recinto. Poi notò che in garage c’era la luce accesa. “Harriet?” la chiamò. “Harriet!” Nessuna risposta. Avvertiva solo un leggero tintinnio metallico. Un oscuro presentimento scese su di lui. La serranda del garage era leggermente sollevata. Roger corse su per il vialetto, si abbassò e passo sotto la porta. Quello che vide era ancora più terribile di quanto temesse. Sua moglie era nella gabbia.
“Harriet?”
La donna avvicinò un dito alle labbra in segno di silenzio. Sedeva a gambe incrociate. Coco, lungi dall’essere catatonica, stava appoggiata alla sua schiena. Si contorceva da un lato all’altro nel tentativo di districare le zampe anteriori e una delle gambe da un filo color viola. Charlie era in braccio ad Harriet, visibilmente calmo. Sembrava addirittura essersi appisolato. Cullandogli la testa, Harriet lo stava allattando con un biberon colmo di latte tiepido. Charlie strofinò il suo orecchio contro il petto di lei.
“L’ho sentito piangere,” sussurrò. “Ma ora si è calmato.”
Continuava a cullarlo delicatamente. “Certo, piccolo,” disse in tono affettuoso. “Va tutto bene, piccolo.”
“Potresti uscire da lì?”
Harriet gli lanciò un’occhiata di rimprovero. “Questo animale era traumatizzato. Cosa gli è successo?”
“Io… non lo so.”
“Credo gli manchi la sua mammina,” disse con una voce che Roger non conosceva. Aveva un che di infantile, e un tono estremamente acuto. Ma, fatto ancora più preoccupante, non si stava già più rivolgendo a Roger.
Parlava con Charlie. “È così, eh? Vero, povero piccolo?” Quel pomeriggio Harriet tirò fuori le scatole di plastica in cui aveva conservato i maglioncini fatti a mano negli anni successivi alla diagnosi del Dott. Doom. Per la prima volta dopo un tempo immemore dopo cena non accese la tv. Iniziò a cucire insieme i vecchi maglioni lungo i bordi. Accorciava le maniche alla lunghezza delle zampe e allargava l’imboccatura del collo. Dopo diverse serate di silenziosa contemplazione, Roger non poté trattenersi.
“Stai davvero facendo dei maglioni per i miei orsi?” “L’inverno è vicino,” disse Harriet. “E non vogliamo che si prendano l’influenza, giusto?”
“Sono grizzly,” fece lui. “Stanno bene al freddo. Il loro habitat naturale è l’Alaska”
Harriet scosse con convinzione la testa. “E poi,” riprese, “non sono i tuoi orsi. Sono i nostri.”
Fu allora che le cose iniziarono ad andare male per Roger e il Muskingum County Animal Refuge.
Mentre ripercorro in velocità West Pike Street non posso fare a meno di maledire quei negligenti dei proprietari del Muskingum County Animal Refuge, l’idiozia delle leggi sugli animali esotici dell’Ohio e il riscaldamento globale. Se fosse un normale ottobre del ventesimo secolo, e invece di brezze temperate avessimo il gelo e un piccolo strato di neve, Rachel non sarebbe mai stata tentata dal portare Tyler al parco giochi. Ma più di tutti maledico Kelly Wortman. Kelly è capo ufficio del tribunale della contea e il motivo puro e semplice per cui sono disoccupato. In altre parole, è il motivo per cui sono diretto allo Zanesville Photocopy per stampare il mio curriculum e le lettere di accompagnamento. Kelly Wortman è il motivo per cui ho lasciato mia moglie e mio figlio in un parco giochi, indifesi, mentre i predatori più pericolosi del regno animale, i corpi speciali degli assassini di professione, scorrazzano liberamente.
“L’ufficio dello sceriffo della Contea di Muskingum chiede di sollecitarvi a evitare un contatto con gli animali in libertà.”
“Anche le scimmie?” chiede Monty, l’altro speaker.
“Le scimmie sono carine.”
“Soprattutto le scimmie. Ci hanno detto che è ‘altamente probabile’ abbiano l’herpes.”
“Se sono di Zanesville, non ho dubbi.”
“Abbiamo degli aggiornamenti. Due orsi bruni sono stati avvistati al cimitero Mt. Calvary intenti a scoperchiare tombe. Un cliente del Super 8 sulla superstrada 420 ha visto una tigre del Bengala abbeverarsi dalla piscina.”
“Una tigre del Bengala?” riprende Monty. “Impossibile. Ce ne saranno tipo un migliaio in tutto il mondo.” “C’è un intoppo anche sulla I-70, in direzione est. Sembra che il traffico sia stato bloccato per far passare un branco di orsi.”
“Perché un orso stava attraversando la strada?”
“Eccoci.”
“Per mangiare qualcuno. Per squarciare qualche corpo da arto ad arto.”
“Ok, sentite qui. Un leone—criniera, ruggito possente, coda e tutto—è stato avvistato mentre divorava un cane, un collie, su Ridge Road. La padrona ha chiamato in lacrime.”
“È in linea.”
“E mettila in vivavoce, Monty. Dai, forza.”
Il volume della radio sale e scricchiola finché non subentra la voce rotta di una donna.
“Gesù mio,” dice. “Gesù caro. È la fine. La mia povera, povera Daffodil.”
“Grazie per aver chiamato WZNE, signora,” la interrompe DJ Whizbox. Si schiarisce la gola cercando di trattenere le risate. “Prego, ci spieghi cosa è successo.”
“È dappertutto!”
“Cosa?”
“Daffodil!” singhiozza. “Il mio cane. È come se fosse esplosa una bomba. Una zampa, una roba schifosa, e, ossignore, la sua coda. La coda. Si muove ancora. È finita sul portico, si muove ancora, su e giù. Mi sento male.”
“Signora? È ancora lì?”
“Devo recuperare la coda.”
“Signora, resti in casa. Dov’è il leone?”
“Sto guardando fuori dalla finestra, ma non lo vedo da nessuna parte. Un attimo.” Un ruggito possente, come il rombo di un jumbo jet a bassa quota, fa vibrare le casse dell’auto. Spengo la radio. Svolto a destra e mi immetto sulla I-70. Qualche curva dopo inizio a intravedere la scuola elementare Licking View. Accosto bruscamente vicino al parco giochi, mentre sento crescere in me qualcosa di terribile— le mie viscere, la mia bile, la mia paura. Il cancello è chiuso, ma Rachel e Tyler non sono dentro. Mi guardo intorno: la scuola elementare, la scuola superiore, una fila di case con motori, gomme e giocattoli sparpagliati nei cortili. Per essere sabato, è tutto stranamente tranquillo. Non che mi sorprenda, visto che la polizia starà senza dubbio mettendo in guardia dall’uscire. Eppure, trovarmi lì in una giornata soleggiata e completamente solo ha un che di angoscioso. Poi però noto che non sono completamente solo. La tigre è dall’altro lato del parco giochi. Le striature del suo manto si muovono furtivamente oltre la recinzione. È una bestia fatta e finita, sui due metri di lunghezza, il pelo color arancio sui fianchi e bianco sul ventre e la gola. Le piccole orecchie sono impudentemente ritte, e i baffi bianchi e spessi strisciano contro le sbarre. Lo sguardo sembra fisso sullo scivolo di plastica rossa. È uno di quelli parzialmente coperti, col tetto che si interrompe a metà della rampa. Subito immagino sia una situazione alla matador, e che la tigre sia attratta dal colore rosso. Ma osservando più attentamente noto che dalla copertura sporge una piccola scarpa bianca. In un attimo sono fuori dalla macchina, e con una corsa raggiungo il cancello. “Rachel?” chiamo. “Rachel, sei lì?”
Mia moglie urla. Penso mi stia chiamando per nome, ma il rumore è attutito dalla copertura dello scivolo. “Papà?” grida Tyler. “Papà?” Lo sento distintamente. Inizia a scivolare lungo la rampa, ma Rachel lo afferra con veemenza. Avverto baluginare qualcosa attraverso la mia visione periferica: la tigre, in un lampo arancione, sta correndo lungo il perimetro della recinzione. Rientro in fretta in macchina. Anche se la futilità dell’azione non mi è immediatamente evidente, chiudo le sicure. Poi la macchina sobbalza, e la mia testa picchia violentemente contro il tettuccio. Il mostro ha posato due zampe grosse come hamburger sul cofano e mi fissa attraverso il parabrezza. L’espressione sul suo volto—se tale composizione selvaggia di zanne, baffi affilati e occhi insensibili può veicolare una qualsiasi espressione umana—è di curiosità. La saliva le gocciola dalle fauci e cade sul cofano. Sembra chiedersi cosa le riservi il pranzo e che sapore avrà. Noto anche un altro fatto strano. Non ha la coda. Al suo posto c’è un mozzicone a spirale—proprio come la coda di un maiale. Quel particolare dà all’animale un aspetto assurdo, quasi patetico. Metto in moto e penso di fare marcia indietro, uscire da lì, e magari prendere la I-70—in direzione ovest, lontano dal traffico. Chiamerò la polizia per avvertirli di controllare il parco giochi della Licking View. Potrei essere a Indianapolis per il tramonto. Ma spingendo sull’acceleratore riuscirei ad arrivare a Saint Louis poco dopo l’ora di cena. O a Chicago. Perché Chicago? Perché Saint Louis? Perché qualsiasi altro posto? Perché non sono Zanesville. Cerco di andarmene fin dai tempi del liceo, da quando ho fatto l’autostop verso nord fino a Oshkosh, finché non sono rimasto senza soldi. Il lavoro da Lear, dove stringevo i bulloni dei sedili d’auto, è durato quel poco che serviva perché conoscessi Rachel. E poi è arrivato Tyler, e le sue vaccinazioni, la purea di mele, le babysitter, i Pampers. Ma la tigre—chi l’ha mandata qui? Non credo alle faccende spirituali, eppure questo fatto deve pur significare qualcosa. Onde evitare fraintendimenti: non speravo che attaccasse la mia famiglia, non sia mai. Ma quando una tigre del Bengala fa la sua comparsa a Zanesville, in Ohio, non puoi non chiederti se sia un segno. Se qualcuno non stia cercando di dirti che la tua banalissima vita non può andare avanti. Inserisco la retro, controllo un’ultima volta lo specchietto e mi preparo per la fuga.
Roger fu svegliato dal suono di un miagolio selvaggio. Leo, che aveva raggiunto i 200 chili, era riuscito a passare con la zampa attraverso la griglia che separava i leoni dalle tigri, e con un singolo gesto deciso aveva reciso la coda di Benji. Quando Roger corse fuori con la torcia, la coda si dimenava a terra.
“È tutto a posto con gli animali?” chiese ad Harriet studiandola.
“In che senso?” Stava pompando acqua pulita nel laghetto artificiale delle tigri. Lo aveva fatto l’anno prima mentre lui era in Wisconsin, in giro per campi estivi—aveva noleggiato un’escavatrice John Deere e fatto l’intero lavoro da sola. Al suo ritorno, Roger aveva trovato le tigri immerse nell’acqua fino al collo, accucciate, come clienti in una spa. “Non so,” rispose Roger. “Sembrano diversi.”
Harriet scosse la testa. “Mi sembra abbiano un aspetto sano. E sai cosa dicono: un bimbo sano è un bimbo felice.”
“Mm,” fece Roger. “Forse è quello.”
Gli spettacoli nelle residenze sanitarie furono un successo—agli anziani piacevano un sacco i macachi. Sorridevano soddisfatti quando le scimmiette leccavano via il gelato alla vaniglia dalle loro dita, lasciandone tracce sulle barbe e le bocche raggrinzite. (“Sembra il mio Howard!” aveva esclamato una vedova tra le risate). Eppure l’inquietudine non era scomparsa, e l’ultimo giorno del viaggio, invece di fermarsi a dormire a Raleigh, Roger guidò per tutta la notte fino a Zanesville. Arrivato alle cinque di mattina, si riposò per cinque ore e si alzò, con la testa dolorante, per ispezionare il rifugio. L’inquietudine si era trasformata in paura. E non appena fu arrivato al recinto delle tigri comprese il perché. I suoi animali non lo riconoscevano. E quella era l’interpretazione più clemente. In che altro modo si sarebbe potuto spiegare il loro comportamento nei confronti di Roger? Si sentivano trascurati per via della sua assenza? Non amati? O avevano trovato una padrona più paziente e gentile? Qualunque fosse la ragione, ora gli si erano rivoltati contro. Non appena avvertirono il suo odore, i leoni iniziarono a ruggire rabbiosi coi cuccioli che guaivano ai loro piedi, mettendo in allarme il resto degli animali. Cody, il gorilla malandato, si mise sulle zampe posteriori, sollevandosi in tutto il suo metro e 80, e si batté il petto facendo vibrare la gabbia. Le sbarre, improvvisamente troppo sottili, cigolavano. Roger sapeva che non ci sarebbe voluto molto perché Cody riuscisse a uscire. Le tigri erano destinatarie di particolari cautele, nella speranza che almeno loro, i suoi amici più vecchi, gli dimostrassero fedeltà. Eppure si aggiravano nel recinto con una certa strana passività; era come se lo stessero ignorando. Ma Roger le conosceva bene. Sapeva per certo che Benji era pienamente cosciente della sua presenza e di ogni suo singolo movimento. Lo si notava nel vigilare imperturbabile dei suoi occhi. Quando Roger si avvicinò al cancello, Benji iniziò a trotterellare verso di lui per poi allungare il passo e guadagnare terreno fino a caricare e scagliarsi contro le sbarre con un frastuono doloroso. I suoi occhi erano neri.
“Vecchio mio,” disse Roger. “Sono io. Papà. Sono il tuo papà.”
La bocca di Benji si aprì in uno sbadiglio mostrando le gengive viola e le zanne gialle, per poi emettere un terribile ringhio catarroso. I suoi artigli tentavano di afferrare la rete, come se stesse cercando di buttare giù la gabbia. Roger si voltò e corse via, e nel farlo notò Harriet; era nella gabbia dei grizzly. Sedeva a terra pacificamente, a occhi chiusi. Charlie le stava dietro, circondandole il petto con fare protettivo. L’orso rivolse lo sguardo verso Roger come a intimargli di non avvicinarsi. Nel resto della settimana non gli fu facile trovare un po’ di tempo per parlare con Harriet. Aveva paura a tornare ai recinti, e lei non rincasava se non per andare a dormire. Due volte portò addirittura un sacco a pelo dagli orsi, e si addormentò tra montagne di pelo. “La mia presenza li calma,” diceva Harriet. “Non voglio che si sentano trascurati.” Una mattina Roger si alzò un po’ prima per intercettarla prima che andasse al lavoro. La sorprese in cucina, intenta a infilare delle pillole multivitaminiche in un grosso mattone di gelatina Omnivore Chow al tacchino. “Stavo pensando,” azzardò Roger. “Non siamo più così giovani.”
“Come mai sveglio a quest’ora? Pensi di dare una bella sistemata alle moto? Si stanno ammucchiando.”
“Quando la gente arriva alla nostra età,” ritentò con maggiore delicatezza, “i figli se ne vanno da casa o si trasferiscono per l’università.”
Harriet faceva finta di niente, continuando a farcire l’Omnivore Chow di pillole fino a farlo somigliare a un Jell-O alla frutta. Tendeva a ignorarlo ogniqualvolta lui parlava di bambini, o della loro assenza.
“E poi i genitori entrano in una fase simile a una seconda luna di miele,” continuò lui. “Hanno la casa tutta per loro, e più tempo. Sono liberi dalle responsabilità che il crescere dei figli comporta. Possono fare piani su come vivere il resto della loro vita insieme.”
Harriet, irrigidendosi, si girò verso di lui. “Io so come voglio vivere il resto della mia vita. Con la mia famiglia.”
“La tua famiglia. Intendi gli animali?”
“Non li hai mai trattati come animali. Era come se fossero i tuoi figli. Come se fossero tua moglie.”
“Non è vero—”
“E ora gli animali, e tua moglie con loro, la tua vera moglie, hanno capito che persona insensibile sei.”
“Quando ero via avevo nostalgia,” rispose lui. “Non degli animali. Ma di te.”
Harriet sbuffò.
“Arrivi con vent’anni di ritardo. Ora abbiamo un altro tipo di famiglia.”
“Sono animali. Animali selvatici.”
“Non è colpa mia se ti sei allontanato da loro. Quegli animali sono perspicaci quanto qualsiasi essere umano.”
Harriet uscì col piatto di Omnivore Chow, lasciando il marito da solo in cucina.
E Roger si sedette sul pavimento di linoleum a piangere per i figli che non aveva.
Inserisco la retro, pronto a fuggire. Incapace di farne a meno, lancio un’ultima occhiata alle mie spalle. Rachel è in piedi in cima allo scivolo—povera Rachel. Non ha più niente della Rachel di quando ci siamo conosciuti, anche se sono passati appena cinque anni. Ha preso un po’ di chili sui fianchi e le gambe, ma non è a questo che mi riferisco; il suo viso ha subito una trasformazione delle più inquietanti. Ha solo 26 anni, certo. La sua pelle non è rugosa, e i capelli non sono grigi, anche se più deboli e radi—nella doccia formano un groviglio giallastro, intasando lo scarico. Non saprei indicare un segno preciso, tranne il fatto che ha perso la sua luce. Quella luce dentro ogni donna che, una volta sfuggitale, non torna più. È stato il bambino, non c’è dubbio. Avete presente quella frase che i genitori dicono ai figli, “Sei la luce della mia vita?” Ecco, Rachel ha passato la sua luce a Tyler e ora dentro è buia. O almeno questa è la mia impressione, non di rado.