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A9N3: Il sottobosco ucraino è roba dura

Gioia Tauro, andata e ritorno

La storia di un porto che avrebbe dovuto rilanciare la Calabria ed è diventato lo snodo tra cartelli messicani e 'Ndrangheta.

Foto di Tommaso Parrillo.

Il porto di Gioia Tauro visto dalla statale che attraversa il paese.

La prima volta che sono stata a Gioia Tauro era il 2010. C’era appena stata la rivolta dei neri a Rosarno ed ero in Calabria per raccontare cosa stesse succedendo in quel posto dimenticato da tutti e improvvisamente finito sulla prima pagina del New York Times. All’epoca non avevo nemmeno idea di quello che avrei trovato. In realtà la prima cosa che colpisce della zona più povera d’Europa (secondo i dati UE) è che non è così schifosa come te la immagini. La Piana si chiama Piana perché non è altro che una minipianura incastrata tra le colline e il mare, ma non è esattamente una distesa infinita di capannoni. È una distesa infinita di alberi e capannoni. Il prodotto locale più conosciuto sono le arance, coltivate da manovalanza e “schiavi” stagionali. Il secondo è la cocaina. O almeno questo è quello che emerge dalle ultime inchieste della polizia locale. La Piana di Gioia infatti è baciata dalla fortuna di uno sbocco sul mare, che grazie alla costruzione dell’immenso porto è diventa epicentro di diversi commerci dagli anni Settanta, quando il piano per il Mezzogiorno avrebbe dovuto rilanciare l’economia come quel famoso volano che poi non ha mai combinato un cazzo. Il fatto che non abbia rilanciato nulla si nota al primo impatto estetico della città di Gioia. Se la Piana non è così pessima, ammetto che Gioia non è nella top ten delle città più belle che ho visitato. È il classico paese italiano arroccato su una lunga statale polverosa, con le case di mattoni a vista o coperte da spennellate provvisorie che se ne stanno ammassate sui due lati. Lungo la parte di Gioia che dà sul mare, entrando nelle vie che portano alla Marina e procedendo verso nord, si arriva al porto. Non è solo un porto di passaggio per prodotti industriali che fanno dalla Calabria al Medio Oriente e ritorno. Forte della posizione e dell’essere meno vistoso rispetto ai porti di Rotterdam e Napoli, quello di Gioia Tauro è diventato uno degli epicentri del traffico internazionale di cocaina tra i capi dei capi latinoamericani e i calabresi, diventati ormai soci consolidati dei cartelli, che li preferiscono ai meno affidabili camorristi. Già nel 1996 il boss dei Piromalli, una delle famiglie di ‘Ndrangheta della zona, diceva: “Noi abbiamo il passato, il presente e il futuro.” E in effetti, questa banda di delinquenti e le altre famiglie beccate a trafficare droga e armi da polizia e magistrati continua imperterrita in traffici illeciti grazie alle radici nel passato, alla forza nel presente e ai grandi obiettivi preposti per il futuro. Anche se, a onor del vero, le autorità di polizia e la magistratura si sono fatte nel tempo sempre più determinate ad attaccare i business criminali delle cosche della Piana. L’ultima notizia arriva dalle condanne inflitte nel processo chiamato “Crimine 3”, che, a febbraio di quest’anno, ha condannato a 265 anni di carcere alcuni esponenti delle famiglie (‘Ndrine) che operano tra Rosarno, Gioia Tauro, Gioiosa Jonica e Reggio Calabria.

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“La Piana di Gioia Tauro è sempre stato un luogo ad altissima densità criminale,” mi spiega Giuseppe Creazzo, procuratore di Palmi (la sede competente per la Piana) con la voce impastata delle persone che queste storie le masticano da anni, “ma le cosche di Rosarno e Gioia Tauro sono cresciute moltissimo proprio grazie alla costruzione del porto all’epoca del lancio del centro siderurgico, che non venne mai realizzato.” Il porto infatti avrebbe dovuto dare slancio all’economia calabrese insieme a un fantomatico polo industriale che non vide mai la luce e venne così “rimpiazzato” da un porto commerciale, “una scelta che ha aiutato le ‘Ndrine a passare da una criminalità interessata solo a business locali a cosche in grado di gestire grossi flussi di denaro che provenivano e provengono dalle attività legali e illegali svolte nel porto,” aggiunge Creazzo.

Il porto di Gioia Tauro. In questo porto dalla banchina di oltre quattro chilometri, dove annualmente transitano oltre tre milioni di container e lavorano anche molti calabresi che nulla hanno a che fare con le cosche e i loro affari, le ‘Ndrine locali si sono infiltrate cercando di accaparrarsi i traffici illeciti e quelli leciti, fondamentali per mantenere una facciata pulita. È il duro gioco del riciclaggio. “A volte ci sono riusciti anche con la complicità dell’amministrazione pubblica, della politica e dei funzionari,” mi spiega Creazzo. A furia di tempestarlo di domande, aggiunge che tra i business illegali in cui sono coinvolte le ‘Ndrine ci sono anche il traffico di merci contraffatte realizzato insieme alla mafia cinese e quello, più redditizio al momento, della droga. “E stiamo parlando di cocaina purissima,” nicchia. Mi dice che per ogni chilogrammo sequestrato da polizia e guardia di finanza, si stima ne passino almeno dieci e che le rotte del traffico siano assolutamente variabili: “Riescono a cambiare rotte a seconda dei controlli e quindi della facilità per loro di far entrare o meno la droga,” conclude. Dopodiché mi saluta frettolosamente dicendomi che deve andare assolutamente in tribunale alla corte di assise per un processo di omicidio. Oltre ai già citati Piromalli, famiglia originaria di Gioia Tauro che fin dagli anni Settanta era in grado di controllare buona parte delle attività legali e illegali del porto, sono soprattutto i Pesce e i Bellocco le famiglie che negli ultimi tempi sono finite nel mirino di polizia e magistrati. Queste due famiglie sono le ‘Ndrine originarie di Rosarno, paesone a pochi chilometri da Gioia Tauro, la cui influenza si espande fino alle rive del mare.

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Il paesaggio di Rosarno è composto da case fatte di ultimi piani senza tetto, con muratura e inferriate a vista. Qui le due ‘Ndrine si sono alleate per controllare al meglio tutti i traffici criminali della Piana, dal traffico di droga alle estorsioni. Giuseppe Pignatone, procuratore a Roma, ha spiegato che Rosarno conta 15.000 abitanti, 250 affiliati di ‘Ndrangheta ufficiali e numerosi sostenitori tra famigliari, amici e la “zona grigia” di interesse che per comodità si schiera dalla loro parte. In pratica, un controllo del territorio così uniforme da renderlo democraticamente maggioritario.

Sempre a febbraio di quest’anno la procura di Reggio Calabria ha chiesto per 64 dei loro esponenti ben 800 anni di carcere. Tutto questo, accaduto all’interno del recente processo “All Inside”, è stato possibile grazie a una piccola donna mora, dagli occhi enormi, anch’essa parte della famiglia: Giuseppina Pesce. Arrestata nel 2010, da allora ha deciso di collaborare con i PM che si occupano del caso. Ovviamente, ha paura. Sa di aver fatto la scelta più difficile per chi è figlio di ‘Ndrangheta, la famiglia che non si può tradire e dalla quale non si esce se non dentro una bara. È un caso rarissimo. Sono pochi i collaboratori di giustizia tra gli affiliati e ancora meno tra le donne, che detengono un ruolo importante all’interno delle famiglie.

Giuseppina ha parlato del ruolo di tutti gli esponenti della famiglia Pesce e dei Bellocco, ha raccontato i rapporti con Milano e le istituzioni del Nord (come emerge anche dall’arresto di Domenico Zambetti, assessore della regione Lombardia accusato di comprare voti per la ‘Ndrangheta), e con le squadre di calcio locali. Proprio al nord, nella capitale economica d’Italia, i Pesce comandano nei quartieri di Quarto Oggiaro e Comasina e gestiscono con i Bellocco e altre famiglie un traffico di stupefacenti che transita per le vie della movida milanese e parte per il resto della Lombardia, la Svizzera, l’America Latina. Giuseppina ha anche raccontato dei traffici di droga e di come lei stessa sia stata testimone di discussioni che provano il passaggio di stupefacenti dal porto di Gioia Tauro. La sua deposizione è infinita, più di 1.000 pagine di dichiarazioni che tracciano un quadro preciso: la famiglia Pesce (così come i Bellocco) dispone di numerosi galoppini— senza un ruolo elevato all’interno della gerarchia—a cui vengono assegnati diversi compiti, come quello di andare a recuperare il carico di droga al porto e poi di farlo arrivare ai “reggenti” della famiglia. Giuseppina descrive perfino una scena casalinga della famiglia Pesce, che, riunita al tavolo davanti alla televisione, apprende dal telegiornale che quel giorno il carico di droga non arriverà a destinazione: è stato sequestrato.

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“E questo avviene perché, nonostante tutto, i sistemi di controllo del porto di Gioia Tauro sono migliori di quelli di molti altri porti europei,” mi dice Claudio La Camera, autore di numerosi libri sulla ‘Ndrangheta, consulente scientifico della Fondazione di studi sul crimine transnazionale di Reggio Calabria, responsabile dell’Osservatorio sulle misure di prevenzione e sul Crimine organizzato di Reggio Calabria e direttore del Museo della ‘Ndrangheta fino al 2012.

Claudio è sempre in viaggio e ha l’aria un po’ stropicciata. Non sempre si ha la fortuna di incontrarlo se si passa per Reggio Calabria. Quando gli ho parlato l’ultima volta era su un treno per Palermo e il suo tono di voce si alzava all’idea che si possa pensare di risolvere tutto concentrandosi solo sui rapporti che intrecciano le singole famiglie della Piana. E infatti lo ascolto proprio per capire di più. Davvero si tratta solo di business legati ai singoli Pesce, Bellocco, Piromalli? “La questione è sempre più complessa. Il porto di Gioia Tauro ha come vocazione quella di trasferire da una nave all’altra i container, alla massima velocità possibile, in modo da aumentare la produttività. Chiaramente—come tanti altri porti europei—è un luogo importante per i traffici illegali, ma rispetto ai porti tedeschi o spagnoli dispone di maggiori controlli. Oggi a Gioia Tauro si controllano tutte le anomalie: vengono fatti almeno 500 controlli in un mese senza danneggiare le attività commerciali,” mi dice per spazzare via l’idea che il porto di Gioia sia una sorta di fortino senza legge. Da una parte le singole famiglie che riescono ancora a infilarsi nelle trame dei controlli, dall’altra la Guardia di Finanza e la Polizia Portuale e i loro sforzi per contrastarle, con la consapevolezza che solo il dieci percento della droga che passa viene effettivamente sequestrata. “L’unica verità è che se non ci fosse il consenso della popolazione, queste famiglie non potrebbero operare. Se non ci fossero professionisti consenzienti, tecnocrati e burocrati che chiudono un occhio e una società civile silente, la ‘Ndrangheta non potrebbe continuare in questi traffici,” si accende Claudio. “Tutto questo ha portato a una mutazione della ‘Ndrangheta e del narcotraffico. Si inizia pensando alle singole famiglie, ai singoli cartelli, ma ormai è appurato che il mercato della droga è divenuto un mercato globale costituito da diversi cartelli criminali, a cui partecipano mafie di varia provenienza e attori commerciali dove non necessariamente la mafia ha un ruolo predominante. È una nuova mafia trasversale che ha come collante i soldi.”

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Oltre che trasversale, questa è una mafia sempre più globale, che intreccia interessi di diversi Paesi, di diversi esponenti e che mai come ora è capace di muovere su larga scala immensi quantitativi di droga attraverso i porti, ma non solo. Il super processo “Crimine 3” ha provato come, ancora una volta, le ‘Ndrine della zona di Gioia Tauro e Gioiosa Jonica e i loro uomini di New York abbiano stretto contatto con i cartelli messicani del Golfo e con i rinnegati Los Zetas per trasportare la droga dall’America Latina agli Stati Uniti e poi in Europa, attraverso Spagna, Germania e Italia. In questa storia che comincia dalla Piana di Gioia si arriva diretti al Messico insanguinato dalla guerra ai narcos, che hanno guadagnato terreno e conquistato intere zone del Paese. Per capire questo traffico non si poteva che andare alla radice, al luogo dove questa droga viene prodotta. Ho chiamato Cynthia Rodriguez, che mi risponde sorridente su Skype da Città del Messico, dove si trova temporaneamente. Dal 2006 Cynthia, giornalista e ricercatrice, fa la spola tra il Messico e l’Italia, dove insieme a Libera, associazione contro le mafie che raccoglie attivisti e cittadini di tutta Italia, ha redatto una recente ricerca proprio sui cartelli e sui rapporti con le mafie italiane. “Al contrario di quello che si pensa, questo rapporto tra cartelli e ‘Ndrangheta nasce per caso. Nasce a New York, quando gli Schirripa, una famiglia calabrese da tempo negli States, cominciano ad avere problemi con i fornitori abituali di cocaina. Vengono allora avvicinati dai messicani, dai Los Zetas, che offrono agli Schirripa una partita di droga senza chiedere nulla in cambio, per mostrarsi affidabili. I messicani stavano cercando di aprire una nuova rotta: gli Stati Uniti erano saturi, quindi bisognava puntare sull’Europa,” mi racconta Cynthia. Lo fa senza nascondere il dolore pensando alle conseguenze per il suo Paese: l’eterna guerra ai narcos, i desaparecidos, la nuova “polizia comunitaria” ovvero “i cittadini che hanno iniziato a farsi giustizia da sé perché non hanno alcuna fiducia nelle istituzioni: in Messico solo due casi di violenza su 100 vengono denunciati.”

Oggi i cartelli messicani si sono moltiplicati e dispongono di armi e munizioni costruite negli USA. “I rapporti con la ‘Ndrangheta sono solo uno dei tanti rapporti che questi narcos intrattengono. La vera domanda è: perché in America Latina girano tutte queste armi americane? Chi le fornisce? E poi, molti capi narcos vivono negli States. Hanno dichiarato che gli americani sapevano e sanno dei loro traffici. Allora quali sono gli interessi dietro a questo traffico globale? Chi c’è veramente dietro?” Queste domande probabilmente non avranno mai una risposta. Certo è che le dinamiche di cui Cynthia racconta sono state provate definitivamente in primis dall’operazione “Solare”, nel 2008, la prima inchiesta che ha dimostrato il legame tra famiglie di ‘Ndrangheta e Los Zetas, all’epoca ancora braccio armato del cartello del Golfo (uno dei più importanti) e oggi invece cartello a sé stante—il più sanguinario, anarchico e spietato, il cartello con cui la ‘Ndrangheta continua a intrattenere rapporti come emerge, ancora una volta, da “Crimine 3”. Questa indagine ha dimostrato una volta per tutte che i mercati criminali della droga e i traffici illegali non guardano in faccia alle rivalità locali. Per i soldi le famiglie si perdonano tutto, non curanti della mitologia quasi sacrale che stabilisce i rapporti di sangue come primo dogma da rispettare. Negli ultimi anni, le famiglie della Piana si sono alleate tra di loro e con i Los Zetas per far arrivare la droga in Italia tramite broker che selezionano la merce e la spediscono in Europa. Secondo gli investigatori, uno dei tramiti principali era la Diamante Fruit, azienda che commerciava frutta e nei cui carichi i Carabinieri hanno trovato enormi quantità di cocaina in arrivo dall’America Latina. La destinazione di questi carichi? Il porto di Gioia Tauro. La famiglia dietro tutto questo? I Pesce. Ancora una volta, tutto torna alla Piana. Ai paesoni che negli anni Settanta avrebbero dovuto rappresentare l’avamposto dell’industrializzazione calabrese. E invece quel peccato originale di corruzione, paura e compiacente silenzio intrappola ancora il futuro del porto di Gioia Tauro, di Rosarno e della Calabria intera.

Segui Chiara su Twitter: @ChiaraCaprio