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A9N6: Il settimo annuale di narrativa

Aline Kominsky ha bisogno di altro amore

Un'intervista alla nostra fumettista preferita, che è anche la moglie di Robert Crumb e creatrice di quello che è considerato il primo fumetto autobiografico femminile.

Ritratto e illustrazioni: Aline Kominsky-Crumb.

Aline Kominsky è “la nonna del fumetto dello sfogo.” Come spiega Hillary Chute, docente dell’Università di Chicago e specialista in materia, a lei si deve la creazione di quello che è considerato il primo fumetto autobiografico femminile, Goldie: A Neurotic Woman, uscito sul primo numero di Wimmen’s Comix nel 1972. Prima di scoprire Justin Green e trasferirsi a San Francisco per dedicarsi ai fumetti, Aline ha studiato Belle Arti alla Cooper Union di New York e successivamente presso l’Università dell’Arizona. Una volta in California, questa “Jewish princess” di Long Island figlia di madre isterica e di un padre poco di buono vive in piena età dell’oro della psichedelia, partecipa attivamente alla scena underground del fumetto—Manhunt, Dope Comix, Arcade—, fonda diverse riviste, tra cui Twisted Sisters e Power Pak e infine incontra Robert Crumb. Insieme i due fondano Weirdo, che porteranno avanti fino al 27esimo numero (quello col bicchiere d’acqua in copertina). Negli anni Novanta, dopo varie collaborazioni di coppia—in particolare Dirty Laundry—firmano alcune strisce per il New Yorker e Aline pubblica il suo capolavoro, Need More Love, una raccolta di tavole, dipinti, testi e foto da lei realizzati.

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L’ho incontrata a Sauve, un paesino delle Cevenne nel sud della Francia, dove sempre negli anni Novanta si è trasferita col marito e la figlia Sophie, come mostrato dalla scena finale del documentario di Terry Zwigoff, Crumb. Mi ha aperto le porte della sua bizzarra casa di sette (o più) piani, e il mio piccolo cuore di fan si è squagliato man mano che mi facevo strada nell’intimità di questa donna. Ci siamo accomodate nel suo studio per parlare dei bei tempi del fumetto, delle femministe che odiano gli uomini e le donne che li amano, della sua famiglia e del perché le donne non sempre abbiano il diritto di disegnare uccelli.

VICE: Immagino se lo senta dire spesso, è molto più bella di come si disegna.
Aline Kominsky: Grazie! Ma è così che funziona, la caricatura.

È una vera professionista dell’autodenigrazione. Ma perché dipingersi così? È il suo lato umorista ebraico?
Sì, l’origine è quella. L’umorismo ebraico, Jackie Mason, Kafka… vengo da quella tradizione. Non ho altra maniera di vedere l’umorismo. Mi diverte molto. E dal momento che è offensivo quando si fa con gli altri, io lo faccio a me stessa.

Nel documentario Comic Book Confidential c’è una citazione di Will Eisner che fa più o meno così: “Ero un pittore frustrato e uno scrittore frustrato, e dalla mia inabilità in questi due campi è nata un’abilità per il fumetto.” Potrebbe valere anche per lei?
Sì e no. Sono cresciuta negli ambienti ebraici di New York. Mio nonno ammirava profondamente comici ebrei newyorkesi come Jackie Mason o Joey Bishop. Mi portava con lui a vederli in giro per locali e alberghi. E ho iniziato a dipingere a otto anni. Penso che il fumetto fosse la sintesi naturale dei due aspetti.

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Ha iniziato tardi a leggere fumetti, giusto?
Sì, i miei genitori mi volevano raffinata, volevano che facessi danza classica e suonassi il violino o il piano. Non gli piaceva che leggessi fumetti. Li consideravano qualcosa con cui occupare il tempo al bagno, niente di più.

I suoi genitori non escono in maniera molto positiva dai suoi lavori.
Ah, sì. Mio padre era un criminale fallito. Voleva essere come Tony Soprano, ma era incapace. Un cazzaro. Con mia madre invece mi sono riappacificata. Non la disegnerò mai più come ho fatto in passato. Non è molto dolce, è un mostro, ma le voglio bene, è fantastica. Voglio dire, va bene detestare la propria madre, ma prima o poi bisogna smettere.

Ad ogni modo ha lasciato presto casa per trasferirsi e studiare arte. Poi ha incontrato il suo primo marito, Carl Kominsky, e ha proseguito gli studi all’Università dell’Arizona. Se non sbaglio è a quel periodo che risale la sua prima tavola.
Già, ho iniziato a fare qualcosa di simile come parte dei miei studi di Belle Arti, all’ultimo anno. Avevo destato un piccolo scandalo, perché mischiavo il fumetto con la pittura. E poi avevo anche scoperto Justin Green e altri artisti degli anni Sessanta. Justin Green ha cominciato da pittore, come Bill Griffith e tanti altri. Non avevo mai pensato alla possibilità di realizzare fumetti. Da bambina non mi appassionavano troppo. Quando ho letto Binky Brown Meets the Holy Virgin Mary è scattato qualcosa nella mia testa. Mi sono subito buttata sul mio primo fumetto, è successo tutto in modo molto naturale. Ero a Tucson, sarà stato il 1967.

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Cosa l’aveva colpita?
Justin Green è metà ebreo e metà cattolico, e raccontava una storia personale colma di dolore, ma lo faceva con un’onestà e un umorismo che non avevo mai visto prima. Mi ricordava artisti come George Grosz e Otto Dix. Per me, Green era come una sintesi dei due, di immagini e parole. Nella mia testa la parola “fumetto” non c’era. Questa forma di esprimersi mi è sembrata improvvisamente facile da mettere in pratica.

È da lì che ha avvertito la spinta?
Esatto, vedere i suoi fumetti mi ha dato l’impressione che qualcuno avesse tracciato un percorso. E dopo, è uscito tutto come una cascata.

Come è finita a San Francisco?
A Tucson avevo un amico che frequentava Spain Rodriguez e Kim Deitch. Li ho conosciuti quando sono venuti in Arizona. Spain mi disse: “Siamo tutti a San Francisco, vieni anche tu. Ci sono un sacco di donne che fanno fumetti.” Un anno dopo, finiti gli studi, mi trasferii.

La cosa divertente è che ho letto che aveva detto di essere fuggita dall’Arizona perché un giorno entrando in un bar si era accorta di essere stata a letto con tutti gli uomini presenti.
È vero.

E poi si è ritrovata a San Francisco, immersa nel ristretto ambiente del fumetto underground, e ha finito per rifare più o meno la stessa cosa.
Sì. Be’, c’era un po’ più di gente che a Tucson, ma sì, eravamo comunque un gruppo piuttosto incestuoso. Però funzionava così all’epoca, non ero solo io. Invece di stringersi la mano si faceva l’amore.

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Come è entrata in contatto con Wimmen’s Comix?
A San Francisco ho trovato lavoro in una piccola casa editrice, e una volta ho sentito da Spain che c’erano delle donne che facevano questa cosa. Andai alla riunione a vedere cosa succedeva, senza sperare assolutamente di essere ammessa. Pensavo si dovesse essere molto più professionali. Ma quando ho visto le opere delle altre mi sono detta che avrei potuto farcela.

E ha imparato presto a padroneggiare la sintassi?
Be’, le prime cose che ho fatto erano molto primitive. Guardavo altri fumetti e copiavo. Facevo domande, e mi sforzavo di produrre qualcosa di leggibile. E in effetti era leggibile, ma niente di più.

Crede di essere migliorata negli anni sotto questo punto di vista?
Lo spero. Ma rimango comunque molto primitiva, sempre un po’ nella sfera della pittura. E non voglio essere troppo “levigata”. Mi piace l’ingenuità.

Quando dice che il livello di Wimmen’s Comix era molto basso intende che qualsiasi donna che disegnava fumetti avrebbe potuto farne parte?
Assolutamente sì. Ricordo che una volta sull’autobus incontrai una signora che stava facendo degli schizzi su un quadernino. Esclamai, “Ma lei disegna! Non le piacerebbe fare dei fumetti?” E questa rispose, “Sì, perché no.” Così la portai con me alla riunione. Era Diane Noomin [disegnatrice e cofondatrice di Twisted Sisters].

Come funzionavano, queste riunioni?
C’erano una dozzina di donne, stavamo sedute su materassi, per terra, a casa di Pat Moodian, a fumare una sigaretta dopo l’altra e bere birra. Cercavamo di fissare un tema, ma usciva sempre un gran casino. All’inizio ero molto contenta di farne parte.

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Mi è parso di capire che Trina Robbins la detestasse.
Due anni dopo il primo Wimmen’s Comix, nel 1974, io e Diane creammo un nuovo fumetto, Twisted Sisters. Nel primo numero mi ero rappresentata seduta su un water. Era la prima volta che una donna faceva qualcosa del genere, e Tina reagì in maniera piuttosto violenta: “Come puoi disegnarti seduta sul water! È una cosa schifosa! Non hai nemmeno un po’ di orgoglio?” Ma io l’avevo fatto in modo naturale, perché quando sono sul water mi capita di leggere dei fumetti. A Trina non piacevo, e lei ha fatto di tutto per escludermi dal giro.

È quello che succede quando si ha a che fare con donne che odiano gli uomini, no? La sua espulsione, motivata dal fatto che “la sua coscienza femminista” non avesse “mostrato alcuna evoluzione significativa dopo il primo contributo” dissimula secondo me uno degli ostacoli del femminismo degli anni Settanta, lo stesso che porterà a sostenere che “qualunque forma di penetrazione è uno stupro.”
Sì, quel gruppo di femministe non amava gli uomini. Ma Diana, io e altre due o tre sì: amavamo gli uomini—e mettere la minigonna. In più avevamo un certo umorismo nero, e nel gruppo si era creata una scissione. Da una parte le femministe iper-politicizzate e serie e dall’altra noi, le bad girls. E io, che stavo con Robert, e Diana, che stava con Bob Griffith, non eravamo all’altezza per il fatto di avere un uomo.

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Tanto più che per quelle donne Robert Crumb era il male chauvinist pig numero uno. È perché ricordava il nome di uno dei personaggi di Crumb, Honey Bunch Kaminsky, che ha deciso di mantenere il cognome del suo primo marito, Carl Komisnky?
No, ho deciso così perché il mio primo fumetto era uscito a nome di Aline Kominsky, che è come mi chiamavo all’epoca. Ma la storia completa è piuttosto assurda. Quando conobbi Spain Rodriguez, in Arizona, mi disse: “Sei come uno dei personaggi di Robert Crumb!” Mi chiese se lo conoscevo, e risposi di no. È come se Robert mi avesse immaginata ancora prima che ci incontrassimo. Il suo personaggio, HoneyBunch Kaminsky, mi somigliava in ogni suo tratto. E Spain lo trovava bizzarro. Quando arrivai a San Francisco mi presentò Robert, e ora stiamo insieme da 42 anni.

Le manca quel periodo, gli anni della psichedelia?
Ho avuto la fortuna di viverlo da giovane. Avere 16 anni nei Sessanta, a New York, è stato fantastico. Nel 1964 ero a una festa nell’East Village e mi avevano dato un cubetto di zucchero. Era LSD, ma non ne avevo idea. È stato incredibile, la psichedelia, tutto quanto. Ho conosciuto Jim Morrison, Janis Joplin, Jimy Hendrix, Bob Dylan, tutti. Ma non perché fossi io: era normale. Era solo il momento giusto. Godevamo di una libertà incredibile, avevamo la possibilità di fare cose straordinarie, di fare l’amore con 200 ragazzi senza alcun problema. Era prima dell’AIDS. Ci saranno state altre malattie, ma niente di mortale. Nutrivamo molte speranze nel futuro.

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Ricordo che una volta eravamo sulla metro di New York sotto LSD, ci guardammo intorno e notammo altre quattro o cinque persone nello stesso stato. Uscimmo insieme dalla metro, andammo a Central Park e ballammo, prendemmo il sole e poi facemmo l’amore. Funzionava così, come in un sogno. Un’utopia che non era destinata a durare per sempre. Dopo c’è stato Manson, le droghe brutte, altre realtà, un’altra economia.

Quanti anni è durato?
Il periodo migliore, per me, è stato dal 1966 al 1972. Dopo le cose hanno iniziato a cambiare. E Robert e io ci siamo trasferiti in campagna. Per noi nel 1974 era tutto finito. Abbiamo cominciato a vivere come coppia, lontano dal resto. Si stava facendo tutto troppo incasinato, troppo difficile e faticoso. Robert è sempre stato un giovane vecchio. Ora è un vecchio giovane. Non portava i capelli lunghi, non sapeva ballare, era un po’ autistico. Non era libero come gli altri. Non si è goduto l’amore libero. Ma non significa che detestasse gli hippie; anche lui era un hippie, ma nel suo modo impacciato.

Ha coinciso col momento in cui tutti gli autori di fumetti underground che erano passati attraverso un movimento di moda di massa hanno incominciato a essere superati, vecchiotti?
Sì, secondo molti il fumetto underground era finito. Negli anni Settanta c’è stata la prima corrente, cose molto valide, interessanti. E poi, come per tutti i fenomeni, c’è stata una serie di persone che ci ha marciato sopra. Sono state pubblicate cose di infima qualità, che volevano cavalcare l’onda del successo dell’underground. Ma noi abbiamo continuato a lavorare con artisti di buon livello come Bill Griffith, Art Spiegelman, Gilbert Shelton… È per questo che nel 1981 Robert decise di dar vita a Weirdo. Perché c’era uno spiraglio. Era l’inizio di una nuova epoca, quella di Weirdo e Raw. Erano gli anni Ottanta.

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Ma sono due filosofie ben distinte. Da una parte si cerca di preservare lo spirito delle fanzine, e dall’altra c’è una pubblicazione curatissima, con pretese artistiche.
Sì, direi che Raw guardava più alle Belle Arti; molto grafica, molto ben fatta. Sarà stato per il contingente francese, Francoise Mouly. Noi invece siamo rimasti molto vicini allo stile del fumetto vero e proprio. Avevamo trovato dei vecchi giornali degli anni Venti, e volevamo imitarli. Abbiamo offerto una prima occasione ad artisti come Julie Doucet, Joe Matt, Chris Ware… siamo voluti rimanere nel campo della sperimentazione. Abbiamo esposto opere di senzatetto a Berkeley, cose del genere. Molto under-under-underground. Tanti artisti non avevano smesso di lavorare, ma non c’erano abbastanza case editrici o mercato. Era difficile guadagnarsi da vivere così.

Ho l’impressione che questo aspetto più artistico sia stata una vera rivendicazione di Spiegelman; a lei e Crumb, invece, non importava.
Sì, e al tempo stesso ero felice che fosse andata così. Robert e io abbiamo lavorato per Raw, e Art faceva parte di Weirdo. E al giorno d’oggi, guardando ciò che succede in Francia, a cosa fa Le Dernieri Cri, è un po’ Raw nel tratto grafico e Weirdo nei contenuti. E in questo modo dà possibilità di lavorare a un maggior numero di artisti.

Come interpreta questo recupero da parte di una specie di intellighenzia? È un fenomeno partito da piccola cerchia di hippie e fattoni, ed è arrivato fino alle gallerie d’arte. Per lei è stato positivo?
Sì e no. Gli anni Ottanta, con Raw e Weirdo, hanno ispirato la generazione che ha creato le graphic novel. In effetti la graphic novel è un po’ una sintesi dei due: di Weirdo, con le sue storie, e di Raw, che si basava su un impatto più visivo. Le gallerie, l’espressionismo astratto e la pop art erano morte, e con i graffiti, Basquiat e ciò che è venuto dopo, il mondo delle Belle Arti cercava qualcosa di vero. E cosa hanno trovato? Hanno trovato quelli di Zap, il pop surrealism californiano.

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Tornando ai fumetti, è ancora diffusa l’impressione che sia una cosa per ragazzetti.
Già. Non ci si fanno soldi: è un ambiente solitario, che non ha niente di sexy, fatto per i geek ossessivi. Bisogna essere dei fissati per occuparsene.

Di recente il mio amico Virgile mi diceva che le migliori storie femminili sono state scritte da uomini: i fratelli Hernandez, Daniel Clowes con Ghost World, Sam Keith… È d’accordo?
Sì, certo. Ma è soprattutto perché in questo campo non c’è una tradizione femminile. Gli uomini hanno cominciato a disegnare fumetti nel diciannovesimo secolo. Le donne negli anni Sessanta. Prima si limitavano più o meno al colorwork. Alla fine degli anni Sessanta a San Francisco si lavorava ai primi Wimmen’s Comix; quando mi capita di vedere quello che si faceva lo trovo di livello imbarazzante. Oggi, tre generazioni dopo, abbiamo Marjane Satrapi, Fun Home di Alison Bechdel, Phoebe Gloeckner, donne grandissime. Ci sono volute tre generazioni. Ma è normale.

Ha sempre disegnato scene esplicite e di nudo?
Sì, ma mai fini a se stesse. Nelle mie opere il sesso non è pornografico, è grottesco. È una parte della storia, come quando racconto come ho perso la verginità. Non ha affatto un tono erotico, e lo faccio perché è importante per tutte le donne. Alcuni si sono rifiutati di dare alle stampe tavole di questo tipo. Le giudicavano troppo dure. Ed è così. Ma anche la vita spesso è dura.

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È una delle sue rivendicazioni politiche, la libertà prima di tutto.
Certo, d’altronde c’è gente che è finita in arresto per pornografia perché vendeva i nostri lavori. Negli anni Settanta diverse persone sono state arrestate per aver venduto Family That Lays Together Stays Together di Robert, in cui viene ritratta una famiglia coinvolta in un’ammucchiata. InTwisted Sistersci sono tante scene di porno. Mi pare che l’editore fosse Fantagraphics, e infatti Fantagraphics ha avuto problemi con i tipografi. In tanti si sono rifiutati di stampare il mio fumetto. Ho faticato anche con Drawn Together. Diverse tipografie cristiane si sono rifiutate di prenderlo in carico perché non gli piaceva che una donna disegnasse scene esplicite. La mia lotta politica sta proprio qui. Il materiale pornografico prodotto da uomini ha completa libertà, ma se una donna osa disegnare il sacrosanto sesso maschile, diventa una minaccia per gli uomini. Per me era importante avere la libertà di farlo. Anche oggi non abbiamo la stessa libertà. Ed è altrettanto incredibile.

Nella sua carriera ha scatenato un bel po’ di reazioni negative. Sua madre che non leggeva ciò che scriveva, Trina Robbins che la odiava perché se la faceva con Crumb, i tipografi che la rifiutavano, e poi tutti i messaggi di critica per le collaborazioni con suo marito.
Un sacco di messaggi. Per molti Robert è una specie di divinità. Robert è il fondatore di Zap Comix e via dicendo. Alcuni suoi ammiratori sono dei fanatici. Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme a Dirty Laundry la gente non credeva avessi il fegato di disegnare col Maestro. Ho ricevuto lettere che dicevano: “Forse hai anche un buon tratto, ma stattene pure a letto.” Tante lettere. Ma alla fine le nostre collaborazioni gli hanno dato la possibilità di parlare un po’ di sé.

Litigate mai quando disegnate insieme?
No, non con Robert. Lavoriamo molto bene insieme. Sembriamo un duo comico. Non so se li conosci, sei giovane, ma mi vengono in mente George Burns e Gracie Alen.

E a tre?
In tre è già più difficile. Era Sophie [la figlia] a dettare le regole. L’abbiamo fatto per il New Yorker, in occasione della riunione della famiglia Crumb. Il risultato è in Drawn Together. Secondo lei non eravamo abbastanza esigenti. Spesso osservava il mio disegno e diceva, “Ma maaaamma! Che roba è?” E io, “Ok, lo rifaccio.”

Ormai è da un po’ che non pubblica nuove cose.
Ho sempre alternato periodi in cui facevo fumetti ad altri in cui mi occupavo di pittura. E poi, ho pur sempre 65 anni. I fumetti richiedono molte energie. Bisogna starsene soli, rannicchiati sul foglio… Però ho in ballo una storia che voglio finire, Dream House. Ho completato 23 pagine, e da 12 anni giace in un cassetto. Mi sono ripromessa di finirla. Parla di tutte le case in cui ho vissuto, ma mentre ci lavoravo è successa una cosa strana. La mia prima casa, quella dei miei nonni, è stata distrutta da un aereo che ci si è schiantato contro. Era stata venduta a una famiglia, e nell’incidente hanno perso la vita tutti i suoi componenti. Mi ha sconvolto, e ho messo la storia in fondo a un cassetto. Ma la finirò.

E poi, disegnare i suoi capelli le prende un sacco di tempo, giusto? Come quando in Need More Love si descrive da piccola, traumatizzata dalle incessanti discussioni tra i suoi genitori, che trova rifugio nell’allineare in maniera compulsiva le sue bambole. E lo stesso succede coi capelli, con la minuzia impiegata nel disegnarli.
Già, è un’ossessione, e penso peggiori continuamente.

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