Divina intercessione
L'autrice. Foto di David Degner.

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reportage

Divina intercessione

Quando hai 29 anni e scopri di avere una malattia neurodegenerativa, ti aggrappi a qualsiasi cosa. Questa è la storia di come sono tornata alle mie origini, in Egitto, nel tentativo di combattere la SLA.

Nel 1968 fu avvistata una luce. Proveniva dalla cupola della chiesa di Santa Maria di Zeitoun, al Cairo. Dicono avesse la forma di una donna. Rimase lì per due o tre minuti, poi scomparve. Riapparve la settimana successiva, ancora per qualche minuto.

Andò avanti così per un po', regolarmente. Le folle si radunavano per ammirarla, convincendosi che rappresentasse Maria. Il capo della chiesa copta ortodossa del tempo, Papa Cirillo VI, fece le sue ricerche, e arrivò alla conclusione che si trattava proprio della Madonna.

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Si dice che il presidente egiziano (musulmano) Gamal Abdel Nasser credesse molto in questa apparizione, e che per provarlo fece erigere una grande chiesa proprio di fronte a quella di Santa Maria. Polizia e governo cercarono spiegazioni terrene, e si misero sulle tracce di un proiettore in grado di riprodurre quell'immagine, ma nel raggio di chilometri non si trovò niente. Le foto che furono scattate sono tutte molto diverse tra loro, come se quell'apparizione fosse troppo eterea per essere immortalata in un semplice scatto. La Madonna, o la Luce, continuò a far visita a quella chiesa fino al 1971, cioè per tre anni dopo la sua prima apparizione.

Nei primi anni Novanta io ero una bambina molto religiosa. Sono cresciuta nell'Egitto cristiano, e sono rimasta sorpresa quando mia madre mi ha rivelato che molte persone continuavano ad accamparsi fuori dalla chiesa della Nostra Signora di Zeitoun in occasione della festività della Beata Vergine Maria, sperando che la Madonna si rimanifestasse.

Avevo solo cinque o sei anni, ma l'idea di passare tutta la notte a pregare e a recitare inni religiosi in mezzo a centinaia di altre persone, nel caldo dell'estate africana, mi sembrava divertente. E poi… Se fosse riapparsa e ce la fossimo persa? La mia famiglia sembrava imperdonabilmente impreparata: dalla Madonna non aveva neanche mai ricevuto la baraka, o la benedizione. Non siamo mai andati, e la Madonna non è mai più apparsa. Ma ero circondata da miracoli.

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In Occidente, la parola miracoloso ha permeato il nostro vocabolario quotidiano fino a diventare sinonimo di straordinario, mentre straordinario è diventato sinonimo di fantastico, e fantastico è diventato d'uso comune, anche solo per descrivere un barista che si ricorda un ordine. Oggi non sono più parole collegate a una forza soprannaturale.

Ma in Egitto, quel significato lo hanno mantenuto. Là i miracoli accadono, e spesso. In Egitto, se ti sfoghi e parli di un tuo certo problema, la gente comincia a subissarti di racconti sul lavoro di Dio.

Da bambina, le storie di icone che lacrimavano unguenti o di persone paralizzate che all'improvviso si alzavano e camminavano, alimentavano la mia fede in un Dio che spesso scendeva tra gli uomini per aiutarli a risolvere i loro problemi. Tutto ciò che serviva era la fede.

Io l'ho persa quando me ne sono andata di casa, dopo l'università. Non l'ho persa nel senso che avevo bisogno di cercarla, l'ho persa in modo definitivo, come era successo con i miei giochi quando la mia famiglia aveva lasciato l'Egitto. Per un periodo ho creduto che un fornello finto, rosa pallido, potesse cuocere le uova. Adesso non più. Credevo che la fede potesse spostare montagne. Adesso non più.

Poi però, in una mattinata assolata di dicembre dello scorso anno, mi sono ritrovata a crogiolare nel conforto e nell'affetto della religione, della fede, e di una speranza che mi ha lasciato meravigliosamente delusa.

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Era arrivato il momento di spiegare ai miei genitori che, a 29 anni, il mio cervello non riusciva più a comunicare con il mio corpo—che lentamente, senza un ordine particolare, non sarebbe stato più in grado di dire alle mie mani di muoversi. Poi alle braccia, alle gambe, alla mascella, alle corde vocali, alla lingua. E poi sarebbe arrivato a non saper più dire ai polmoni di espandersi, lasciandomi soffocare lentamente.

I miei genitori sono le ultime persone a cui l'ho detto, perché credevo fermamente che quella notizia li avrebbe uccisi. Pensavo che mia madre, con un cuore che le ha sempre dato problemi, un solo rene funzionante e un cancro sconfitto, non sarebbe riuscita a sopravvivere a quella notizia.

Mia sorella Deedee mi ha suggerito di risparmiarle i dettagli della malattia. Ho preso un aereo che da New York mi ha portata a Cleveland, dove vivono i miei genitori, con lo zaino pieno di traduzioni dall'inglese all'arabo della pagina Wikipedia sulla SLA.

Avevo dieci anni quando ho lasciato l'Egitto, e a quell'età ovviamente non avevo ancora imparato le parole "sclerosi laterale amiotrofica." In inglese ero stata costretta a imparare il significato dell'acronimo solo l'anno precedente, quando avevo detto ai dottori che la mia mano sinistra sembrava non funzionare più come prima.

Quando sono arrivata a casa dei miei genitori mi sono venute le convulsioni, non riuscivo a respirare. E non avevo nemmeno tirato fuori dallo zaino la pagina stampata da Wikipedia, né avevo assaggiato il cibo di mia madre.

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Sono scoppiata in un pianto delirante, quel tipo di pianto che mi fa gli occhi da cartone animato e le guance ruvide. "I dottori dicono che la paralisi si espanderà al resto del corpo, e morirò," sono riuscita a pronunciare in un arabo incerto. Ho cominciato a tremare, come faccio quando sono arrabbiata o stressata, o anche solo quando ho freddo, e a cullarmi tra le braccia di mia madre.

"Non dirlo neanche!" ha ripetuto diverse volte mia madre. Dai suoi occhi non è scesa una sola lacrima. Ho passato tutta quella settimana sdraiata nel mio vecchio letto, quello in cui dormivo ai tempi del liceo. Mi alzavo solo per andare in bagno. Quando sono riuscita a recuperare un barlume di energia, ho preso il computer e mi sono spostata sul divano, a guardarmi maratone di film in streaming. Di tanto in tanto rispondevo ai messaggi di Deedee, che mi scriveva da Washington.

Di notte mia madre dormiva accanto a me, sdraiata sotto le stelle fluorescenti di Spencer Gift ancora appiccicate al soffitto. Si svegliava sempre prima di me e mi portava la colazione, con lo sguardo accigliato e la mascella leggermente disserrata in uno strano sorriso, l'espressione con cui da piccola mi faceva capire che mi aveva perdonata dopo che ne avevo combinata una delle mie.

Io stavo là, con il morale a terra, e lei mi parlava della sua giornata, mentre cucinava, o puliva, e invocava Dio, Ya Rab. Se mai è capitato che una lacrima le bagnasse le guance, io non l'ho vista. Era forte, una ribelle che sbeffeggiava la scienza. Non importa cosa dicevano i dottori, lei era convinta che l'ultima parola spettasse a Dio.

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"Dio non mi ha mai delusa," mi diceva, con una sicurezza che io mi vergognavo a mostrare. Non avevo la certezza che quello stesso Dio responsabile della sofferenza e delle ingiustizie del mondo considerasse il mio dolore una priorità. Poi mia madre mi ha detto di andare in Egitto, convinta che là sarei guarita.

Era mia madre—Dio non l'aveva mai delusa, e di certo non lo avrei fatto io. Quindi, alla fine di quella settimana le ho promesso che sarei andata a chiedere un miracolo. Otto settimane dopo mi trovavo su un aereo diretto al Cairo, ad affogare le mie ansie in una piccola bottiglia di liquore.

L'autrice scrive una preghiera accanto alle reliquie dei santi.

Ho passato 12 ore a ossessionarmi col fatto che il prete, il cardinale, il monaco avrebbero detto che mi mancava proprio quella prerogativa necessaria per essere curati miracolosamente: la fede. Mi avrebbero detto di imparare a rispettare le persone che a differenza mia godevano di quel dono. Mi avrebbero ripetuto che non erano solo persone, ma servi del Signore.

Non riuscivo a togliermi quel pensiero dalla testa, anche se avevo abbandonato la religione. Prima del viaggio avevo parlato con familiari scettici all'idea che una persona giovane e in salute, all'improvviso, si ritrovasse a soffrire di una malattia degenerativa. Erano arrivati tutti, e velocemente, alla conclusione che "Dio ci mette alla prova quando ci allontaniamo da lui."

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Anche mia cugina Evette, farmacista, mi aveva detto che "Dio riserva le battaglie più difficili ai soldati più forti. Quindi credi a lui, prima che alla scienza." Il loro giudizio mi ha fatto a riflettere sulla mia posizione, su cosa mi avesse portata a considerarmi non credente. Non avevo mai detto a nessuno di aver perso la fede. Avevo parlato della mia malattia troppo scientificamente? Avevo fatto una battuta di troppo? Eppure la mia mancanza di fede era evidente a tutti, e mascherarla mentre chiedevo un nuovo sistema nervoso centrale sembrava impossibile.

Sono andata al Cairo con uno scopo, quello di adempiere alla promessa fatta a mia madre, ma avevo paura che il mio scetticismo stesse giocando con l'assurdità di quella situazione. Magari là mi avrebbero guarita, ma istintivamente affrontavo la cosa da giornalista, non da pellegrina. Prima di dire a qualcuno di essere malata, ho passato molto tempo a studiare i miracoli in Egitto, e la verità è che in Egitto non c'è bisogno di cercare più di tanto.

Il primo giorno ho chiamato un taxi che mi ha portato nell'area copta del Cairo, una piccola enclave di chiese storiche e siti religiosi, dove si trova il luogo dove si dice che la Sacra Famiglia si sia nascosta per scampare alla condanna a morte sancita da Erode. Il mio autista, anche lui cristiano, senza che lo istigassi in alcun modo mi ha detto "stamani mentre ti venivo a prendere ho assistito a un miracolo." Non avevo fatto alcun riferimento al motivo della mia visita in Egitto, non avevo menzionato la malattia né che ero una giornalista. Ma era domenica, stavamo visitando delle chiese antiche, e tanto è bastato a far partire quella conversazione sui miracoli.

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Mi guardava dallo specchietto retrovisore, e ogni tanto agitava la mano destra, mostrandomi le sue lunghissime unghie. Mi parlava con convinzione, serio e incredulo. Solo un'ora prima un prete aveva esorcizzato un ragazzo, liberandolo dai suoi demoni. "Non credo a niente di tutto ciò", ho confessato. "Forse il ragazzo è semplicemente malato." Ho provato a spiegargli delle volte in cui le persone sostituiscono spiegazioni sovrannaturali a quelle scientifiche, ma non gli importava. Neanche mi ascoltava.

Siamo arrivati a destinazione e mi sono ricordata di quanto sia bello e particolare il Cairo copto. Incastrate tra chiese che risalgono al terzo secolo ci sono piccole tombe quadrate e strade calcaree. Le persone vivono qui da prima della conquista araba dell'Egitto.

Salendo le scale della Chiesa Pendente, che si chiama così perché sospesa sulla Fortezza di Babilonia, sono passata accanto un paio di adolescenti che chiacchieravano e un bambino che stava comprando delle candele. La Chiesa è dedicata alla Vergine Maria, ma i miei occhi si sono posati subito sulle reliquie di Santa Damiana.

I mie genitori mi hanno raccontato che quando mia madre era incinta di mia sorella, la Vergine Maria è apparsa in sogno a mio padre dicendogli che avrebbero avuto una femmina. L'avrebbero chiamata Demiana e sarebbe diventata suora. In effetti è arrivata una bambina, e in buona salute. L'avrebbero anche chiamata Demian, ma lei il convento non l'ha mai neanche preso in considerazione. Deedee, come la chiamo io da quando sono piccola, è la versione più sexy e vivace di me. Adora gli spogliarellisti e il cibo senza glutine. Ha 18 mesi meno di me, ma mi tratta come se fossi io la sorella più piccola.

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Onestamente, è più responsabile di me, e anche se ha gli occhi più grandi, gli zigomi più alti e le labbra più carnose, è quella che si arrabbia quando qualcuno le dice che non ci somigliamo. Mia sorella mi vuole così bene che ha deciso di infrangere il suo giuramento di non tornare in Egitto, e per la prima volta dopo 14 anni ci è venuta, con me, per le vacanze del Ringraziamento.

Non può essere stata quell'icona a farmi scoppiare in lacrime: Santa Damiana è famosa per il suo coraggio. Era stata torturata per ordine di un imperatore pagano dopo che si era rifiutata di rinunciare alla sua fede. Deedee è coraggiosa. È lei a cui ho comunicato per prima la diagnosi. Ho provato a proteggerla, avevo aspettato sei settimane prima di decidermi e chiamarla, fuori dalla clinica per la SLA del dipartimento di medicina della Columbia University.

È arrivata da Washington senza neanche prendere lo spazzolino. Quella sera siamo andate a cena, mano nella mano, fantasticando su margarita e tacos, e di come sarei stata la prima donna a guarire dalla SLA. Mi ha promesso che si sarebbe presa cura di me, e che non avrei trascorso i miei ultimi giorni guardando le stelle fluorescenti della mia vecchia cameretta.

Pochi secondi dopo aver visto l'icona di Damiana, con le labbra arricciate e lo sguardo velato, sono entrata nella Chiesa Pendente, in lacrime. Erano passati quattro mesi da quando mi era stata diagnosticata la SLA, e gli episodi di pianto incontrollabile erano diminuiti. Quando la notizia era fresca, bastava un niente per ridurmi in lacrime. Scorrevano a fiumi, in continuazione. Piangevo sui marciapiedi di Manhattan e di Brooklyn. Mentre aspettavo l'autobus e nei vagoni della metropolitana. In ufficio, mentre lavoravo. Una volta ho pianto in un locale con in mano un cocktail rosa a base di tequila. Piangevo ancora prima che i dottori mi confermassero la diagnosi.

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L'autrice lascia un pezzo di carta con il suo nome scritto sopra ai resti di Papa Cirillo VI, patriarca della Chiesa copta dal 1959 al 1971.

Per quasi un anno, anche quando la malattia si limitava alla mano sinistra e il mio neurologo sembrava sicuro fosse curabile. Poi una notte di aprile, mentre camminavo sulle scale della metropolitana, mi sono ritrovata a reggermi la gamba sinistra. Tremava. Mi aveva fatto quasi cadere. Sono arrivata a casa singhiozzando. La gente per strada avrà pensato che a ridurmi in lacrime fosse stato qualche ragazzo.

La debolezza alla gamba sinistra significava che non mi rimanevano opzioni, ma decisi di mentire a me stessa e di impormi di non essere drammatica. Due settimane dopo, il primo marzo, ho compiuto 29 anni. Ho spento le candeline desiderando solo che non fosse SLA. Qualsiasi cosa, ma non SLA.

Il 9 luglio del 2014, durante il mio controllo neurologico di routine, ho finalmente trovato il coraggio di dire al dottore della mia gamba tremante. Non dimenticherò mai l'espressione dei suoi occhi mentre mi controllava i riflessi. Le mie gambe dondolavano a mezz'aria. Mi sono fermata e lui mi ha detto "sono i sintomi di una degenerazione del motoneurone superiore."

Per molti di voi sarà un tecnicismo senza senso, ma io avevo letto abbastanza materiale per comprendere la tragicità di quelle parole. "SLA?" ho chiesto. Ha annuito. Incapace di farmi smettere di piangere, mi ha chiesto, "Dimmi, che succede in Medio Oriente di questi tempi?" Colta di sorpresa ho smesso di piangere. "Sta cadendo a pezzi, proprio come il mio corpo", ho risposto.

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Sono uscita dalla clinica sola e confusa. Ho acceso una sigaretta dopo l'altra, ho bevuto champagne, e ho passato il resto del giorno a maledire l'imprecisione delle serie tv mediche sulle conversazioni come quella che avevo appena avuto. Nelle sei settimane successive ho visitato i migliori specialisti su piazza, e quando pensavano che dovessi rifare un esame, suggerivo che li rifacessimo tutti.

Non volevo chiamare Deedee e darle quella terribile notizia. In quella chiesa ho assistito alla messa, desiderosa di imparare storia e poteri taumaturgici del luogo, ma senza il minimo desiderio di raccontare a nessuno la mia, di storia. Uno dei preti mi ha notata e mi ha fatto cenno di partecipare. Ho smesso di piangere, e ho sostenuto il suo sguardo. Era vestito completamente di nero, aveva una lunga barba argentea e dei grandi occhi scuri. Volevo correre da lui, abbracciarlo, e sciorinargli la lista dei miei dolori, del corpo e del cuore, ma non l'ho fatto. Mi sono seduta e l'ho ascoltato mentre parlava della costruzione della chiesa, dei dettagli del nartece. Spiegava del quadro della Vergine Maria dipinto su una colonna di marmo, diceva che era uno dei misteri della chiesa.

Su una delle 13 colonne era infatti dipinto un ritratto della Madonna, con occhi e orecchie grandi e bocca piccola, in stile copto. Lui diceva che nessuno sapeva perché e come quell'icona fosse stata realizzata, perché dipingere sul marmo era impossibile. "Potrebbe averla dipinta un angelo, o la Madonna stessa. Magari un uomo," spiegava. "Non possiamo saperlo con certezza." "Potrebbe essere un miracolo," ha detto una donna sulla quarantina, come se stesse recitando la battuta di un copione provato molte volte. Il prete ha annuito e ci ha portati in un'altra area. Sono rimasta indietro, in disparte, e ho fatto delle foto al quadro miracoloso della Madonna, che era avvolto in un telone di plastica trasparente come tutti i mobili "buoni" della casa della mia prozia al Cairo quando ero piccola.

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Può sembrare sciocco, ma io al prete credevo. Invece di digitare su Google "dipingere su marmo è possibile?", facevo foto con il mio iPhone, come una ragazzina. Dopo il suo discorso avevo voglia di abbandonare la mia vita a Brooklyn e andare a pulire i pavimenti della chiesa. C'era qualcosa in quella storia che mi aveva fatto sentire contemporaneamente insignificante e potente, qualcosa che faceva sembrare il mio dolore relativo.

Che importanza poteva avere la mia morte? Gli angeli dipingono. Per qualche minuto sono rimasta seduta su una panca; non riuscivo ancora a rivolgermi a qualcuno per parlare del mio miracolo. Poi mi sono alzata e sono andata a bere da un pozzo vecchio di 2000 anni, in un'altra chiesa dedicata alla Vergine Maria.

Si dice che la Sacra Famiglia si sia nascosta in una stanza sotterranea accanto a questo pozzo, e il miracolo consiste nel fatto che per i successivi due millenni l'acqua non si è mai esaurita. Non appena ho messo piede nella chiesa ho ricominciato a piangere. Sono stata assegnata a un volontario con un dente storto, che si chiamava Maximus Mahros. Era responsabile della manutenzione del pozzo e si vantava dei miracoli a cui aveva assistito nei suoi anni lì.

Raccontava che un mese prima un malato terminale l'aveva cercato per pregare la Vergine Maria e bere quell'acqua. Una settimana dopo, il malato era tornato e aveva detto a Mahros di essere guarito. I dottori, mi ha detto Mahros, parlavano di una guarigione miracolosa. "Vuoi dell'acqua?" mi ha chiesto. Gli ho passato una bottiglia vuota, da riempire con il vecchio secchiello calato nel pozzo. L'ho bevuta tutta. Sulla mia faccia deve essersi intravista un'espressione sospettosa, perché Mahros ha continuato: "Ha chiamato oggi e ha detto che domenica prossima verrà a mostrarmi raggi x e analisi." Ho chiesto il numero di telefono di questo misterioso signore, ma Mahros è diventato subito evasivo. Ha cambiato discorso, dicendo che non lo aveva. Ha insistito sul fatto che fosse sempre stato l'uomo a chiamarlo, e mai dallo stesso numero. Mi sono fermata prima di dire che bastava andare sulla lista delle chiamate ricevute. "Ma viene la prossima domenica", mi ha tranquillizzata. "Dovresti tornare qua e parlare direttamente con lui." Ho annuito e me ne sono andata.

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Ho passato i giorni successivi a visitare chiese e ascoltare storie di miracoli che erano capitati ad altri, singhiozzando in ogni singolo posto. Sono andata a Zeitoun, come ho sempre desiderato, e singhiozzavo. Ho pianto mentre compravo gli unguenti per le mie gambe stanche. Singhiozzavo alla vista della gente che pregava. Ho scritto il mio nome su dei fogli, e singhiozzavo mentre li appoggiavo accanto alle icone e alle reliquie dei santi. Quella sarebbe stata l'ultima volta che scrivevo con la mia grafia. Qualche settimana dopo la malattia ne avrebbe già modificato i tratti.

Maximus Mahros, un volontario che predica i miracoli, riempie la bottiglietta dell'autrice.

Girare per il Cairo e piangere nei luoghi religiosi mi aveva lasciata senza energie. La mia mano destra, a quel tempo, stava peggiorando molto rapidamente. All'inizio per infilarmi le calze ci mettevo tre minuti, poi me ne cominciarono a servire cinque, poi dieci. Quel venerdì i Fratelli Musulmani avevano indetto una protesta di massa, e il sabato ci sarebbe stato il processo all'ex presidente Mubarak.

L'intero Paese si trovava in un momento di svolta. Anche lo spesso strato di smog che di solito aleggia sulla città sembrava in ansia. Quando Deedee è arrivata, otto giorni dopo di me, la sua presenza ha mitigato le mie sofferenze. L'ho portata al pozzo. Mahros, che stava raccontando ad altri visitatori la stessa storia che aveva detto a me, è sembrato sorpreso di vedermi. Secondo lui era troppo presto, e probabilmente il malato di cui mi aveva parlato era ancora a messa.

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L'ho preso in parola. Siamo andate a prenderci un caffè, e Deedee ha ammesso di credere nel soprannaturale e nei miracoli. Ero contenta, forse sollevata, che nel suo cuore non ci fosse il mio cinismo. Due caffè dopo Mahros continuava a ignorare le mie chiamate. Era evidente che il malato non sarebbe venuto, o che forse nemmeno esisteva. Ci siamo incamminate verso la Chiesa Pendente, sotto la luce delle candele, a caccia del mio miracolo.

Deedee era entusiasta all'idea di vedere le reliquie della santa che le aveva dato il nome. Le reliquie di Santa Damiana sono chiuse in una teca di vetro sotto la sua icona. Sono appoggiate su un telo di velluto blu lungo una trentina di centimetri. È decorato d'oro e profuma di rose essiccate. Deedee ha inserito un bigliettino con il mio nome in un recipiente di vetro. Qualche minuto dopo ho chiesto alla guida di raccontarmi la storia del ritratto della Vergine Maria su marmo, sperando di crogiolarmi di nuovo nel conforto degli angeli pittori. Questa volta però, la guida mi ha parlato di una tecnica usata per dipingere su marmo. Non sapeva che le sue parole avrebbero cancellato la magia della chiesa. Mi ha raccontato anche di un convento copto poco lontano.

Un oculista musulmano ne prescriveva la visita ai suoi pazienti. Ho chiesto il suo nome, o il suo numero. Ero una non credente che cercava a tutti i costi di credere. Dopo Mahros e la storia della pittura su marmo che non aveva niente di magico, ero tornata a essere la classica scettica di New York. La guida non mi ha detto il nome del dottore. Ho chiesto ad altri, chiedevo se qualcuno ne avesse sentito parlare, ma nessuno sembrava sentire il bisogno di spiegare il miracolo. Bastava la fede, il nome del dottore non era importante.

Demiana Fanous inserisce il nome dell'autrice nella cassetta delle reliquie della sua santa omonima.

"Dovresti andare direttamente al convento," mi ha detto un signore. "Le suore sicuramente lo sanno." L'avvento, i 40 giorni che precedono il Natale in cui i copti rinunciano a carne e latticini, era appena cominciato. Il convento era chiuso, e le suore erano impegnate nella preghiera. Ma qualcosa mi suggeriva di provarci comunque. Quando siamo arrivate, i cancelli di ferro erano chiusi. Incapace di giustificare il motivo della mia visita, ho detto alla guardia che ero una giornalista americana. Stavo lavorando a un servizio sui miracoli. Lui insisteva che a nessun visitatore era concesso entrare. Gli ho detto che non saremmo state molto, e di chiedere alla superiora se poteva fare un'eccezione.

Dopo qualche minuto di silenzio, i cancelli di ferro si sono aperti e siamo entrate in un luogo simile al paradiso. Sentivo uno strano senso di vittoria, che è svanito appena ho visto una giovane coppia con un bambino, nel mezzo del convento. Le borse sotto i loro occhi indicavano la mancanza di sonno, ma soprattutto di gioia. Il bambino sembrava troppo piccolo per sopravvivere a questo mondo. Sicuramente si trovavano là per pregare, per una benedizione e per un miracolo. Quella scena mi ha restituito il dolore che ero riuscita orgogliosamente a mettere da parte. Deedee però era accanto a me, e ho trattenuto le lacrime.

"Mi chiedevo se può darmi il nome del dottore musulmano che prescrive ai suoi pazienti di visitare questo convento," ho chiesto. Sapevo già la risposta. Non avevano mai sentito parlare di quella storia. "Non credere a tutto quello che trovi in rete," mi ha detto una suora con tono calmo e confortante.

"Ho anche un'altra domanda," sono riuscita a dire: "C'è qualcuno che può pregare per me?" La suora ha cominciato a scrivere il mio nome, e quando mi ha chiesto che problema avessi, le uniche parole che sono riuscita a pronunciare tra i singhiozzi sono state, "I dottori dicono che non c'è niente da fare." A quel punto anche mia sorella piangeva. È venuta verso di me e mi ha preso la mano. La suora ci ha chiesto se fossimo sorelle, abbiamo annuito, entrambe. Deedee continuava a stringermi la mano, per confortarmi.

Forse i miracoli, come tutto il resto, sono relativi. Quando avevo vent'anni ero ossessionata dai carboidrati e dai ragazzi, ora non faccio che implorare il mio corpo, "Per favore, non farmi dimenticare come si cammina. Per favore, non farmi dimenticare come si cammina. Per favore, non farmi dimenticare come si cammina."

Forse il miracolo è mia madre, che è sopravvissuta al dolore—e non grazie alla forza fisica, all'amore, o a un potere più alto, ma grazie alla speranza. La speranza è ciò che ci tiene vivi, la luce nei tempi bui. Non ho mai incontrato una forza più potente, e per molti, niente incarna la speranza meglio della preghiera.

Mi aspettavo che la suora mi parlasse subito di fede, di come mi fossi allontanata da Dio, di come lui, il Signore, mi stesse solo mettendo alla prova,. Non ha detto niente di tutto ciò. "Non viviamo per questa vita. Viviamo per la vita che c'è dopo. Sarei contenta di sapere che un domani incontrerò Gesù," così mi ha detto. Anche se sono giovane e agnostica, e spaventata dalla sedia a rotelle più che dalla morte, le sue parole sono state confortanti quanto un vero miracolo.