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In difesa dei migranti economici

Essendo stato io stesso un "migrante economico," l'essere dipinto come una specie di spauracchio che ruba il lavoro e che sfrutta i conflitti globali per il proprio tornaconto non mi va troppo a genio

Una manifestazione di supporto ai profughi a Londra. Foto di Jake Lewis.

Dopo aver essere stati descritti da David Cameron con una terminologia riservata alle piaghe bibliche, e dopo che l'opinionista Katie Hopkins ha chiesto il loro sterminio mentre affogavano nel Mediterraneo, i profughi che sono riusciti a sopravvivere alla traversata dalle aree di guerra del Medio Oriente fino ai confini della zona Schengen si sono finalmente guadagnati un po' di solidarietà. Ma come la mettiamo con i "migranti economici"? Qui la storia è diversa.

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Un'involontaria conseguenza di quest'ondata di empatia è che, nel tentativo di riguadagnare territorio sul sentimento popolare, i commentatori più cinici e conservatori hanno tracciato una distinzione molto netta: profughi? Va quasi bene. Migranti economici? Male. Essendo stato io stesso un "migrante economico," l'essere dipinto come una specie di spauracchio che ruba il lavoro, e che sfrutta i conflitti globali per il proprio tornaconto, non mi va troppo a genio

Se proprio si deve dare credito a questa retorica, si potrebbe ache pensare che i migranti economici leggano articoli sulle atrocità siriane come se fossero referenze su Linkedin, sempre alla ricerca di nuova opportunità per muoversi. Certo, ci sono migranti che non scappano da guerra e morte, ma la loro situazione non è di certo paragonabile al trasferirsi a Dubai per avere un lauto stipendio esentasse, né al trasferirsi a Berlino a causa degli assurdi affitti londinesi, né allo sposare un tuo amico gay tedesco per poter rimanere nel Regno Unito.

Ma percorrere i primi passi di quella strada che ti porta a scappare lungo il confine ungherese mentre una giornalista fa lo sgambetto a tua figlio non è qualcosa che si fa spinti dall'insoddisfazione per il proprio stile di vita; è, piuttosto, una questione di mancanza di speranze. Chiamarli "migranti" economici sminuisce la loro lotta. In realtà – come lo siamo stati io e la mia famiglia – sono dei "profughi" economici.

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Uno striscione durante la manifestazione "Refugees Welcome" a Londra. Foto di Jake Lewis.

Sono nato a Belgrado giusto un paio di anni prima che l'esperimento della Iugoslavia finisse in un genocidio. Anche se non abbiamo mai vissuto sulla nostra pelle ciò che hanno vissuto altri a Sarajevo e Vukovar, abbiamo sofferto gli strazianti effetti quotidiani del vivere in una zona di guerra: cose come iperinflazione, sanzioni, razionamento di benzina e scarsità di cibo.

Crescendo ho sentito storie di come, nel giorno dello stipendio, la gente dovesse scegliere tra il correre in un negozio a spendere tutti i guadagni in beni di prima necessità, o affidarsi al primo trafficone per cambiare il proprio denaro in marchi tedeschi. Visto che il dinaro serbo precipitava in tempo reale, dovevi capire quale delle due opzioni fosse economicamente più efficace. La realtà militare della guerra non ha raggiunto la Serbia fino alla campagna di bombardamento della Nato, ma intanto la società civile si era sgretolata, e la cleptocrazia e il crimine organizzato avevano ormai riempito il vuoto che avevano di fronte.

A causa delle sanzioni imposte dai paesi occidentali, l'economia sommersa prosperava: le persone andavano fino al confine con l'Ungheria, riempivano le macchine di benzina e sigarette, e poi tornavano indietro per rivenderle a un prezzo più alto di quello di mercato. Il tasso di omicidi di Belgrado è raddoppiato nel giro di un solo anno. Le figure chiave nel regime di Milosevic erano sospettate di trafficare eroina. Per i politici corrotti e le mafie la situazione era davvero ideale. Le discoteche, per mantenere un senso di normalità sotto i bombardamenti della Nato, aprivano durante il giorno e chiudevano al tramonto, dando alle persone il tempo di tornare a casa prima che le sirene ricominciassero a suonare.

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Le nostre vite non erano a rischio, e non eravamo costretti ad abbandonare le nostre case, il che negava a noi e molti altri lo stato di rifugiati all'interno dei confini serbi. Molti non capiscono quanto sia stringente questo criterio: per ottenere l'asilo, di solito devi essere a rischio diretto di persecuzione o morte. La mia famiglia non ha provato a compilare una falsa richiesta d'asilo, né a percorre il tunnel di Calais; ci è stato rilasciato un visto grazie alle qualifiche professionali dei miei genitori. Anche se non eravamo in pericolo di morte, le nostre prospettive di vita lo erano eccome.

Attualmente, la Serbia è ottava nell'" Indice di Miseria Mondiale ". La disoccupazione giovanile è stabile intorno al 50 percento, e lo stipendio medio è fermo a 390 euro al mese (di media, il che vuol dire che in molti guadagnano di meno). Naturalmente le difficoltà di restare erano incredibilmente banali se paragonate con quelle che devono o hanno dovuto affrontare le popolazioni di Aleppo, o Kabul, o Srebrenica, ma non accetterò in silenzio di essere demonizzato.

È interessante notare quanto sia contradditoria la posizione dei Tory sul tema dei migranti economici rispetto ai loro sbandierati ideali. Per un partito che idolatra l'altare del Thatcherismo, che predica il vangelo della deregolamentazione e deifica il libero mercato, una posizione del genere sull'immigrazione contraddice il nucleo fondante dei suoi principi neoliberali. Un mondo globalizzato e senza frontiere è fantastico quando permette alle aziende di sfruttare il lavoro a poco prezzo nelle nazioni più povere; ma quando questi principi vengono applicati nella direzione opposta, allora sono contrastati col filo spinato burocratico.

Ma i conservatori non sono gli unici responsabili: un membro del CDU, il partito cristiano e democratico guidato da una certa Angela Markel ha recentemente dichiarato che "le difficoltà economiche non sono una ragione sufficiente per l'asilo. Non vogliamo che l'immigrazione si riversi nel nostro sistema di welfare." Già, perché le persone che si sono fatte a piedi un intero continente non sembrano aver molta voglia di lavorare. Sono sicuro che vogliono solo starsene seduti a grattarsi il culo guardando la televisione a spese dei contribuenti.

L'attuale isteria che circonda i migranti economici mette in ridicolo i principi umanisti di cui si fregiano le nazioni europee. Quello che ci dice, essenzialmente, è che l'ambizione e l'avanzamento personale sono privilegi riservati all'élite della zona Schengen, mentre il resto del mondo deve accontentarsi di sopravvivere. Invece di essere la sede spirituale degli ideali liberali e progressisti, l'Europa è diventata un continente che si regge su un sistema di caste, costruito in base alla nazionalità e protetto dai visti.