Storia del mio stupro
Cecoslovacchia, 1960. Foto di Josef Koudelka/Magnum

FYI.

This story is over 5 years old.

Stuff

Storia del mio stupro

Raymond M. Douglas è uno scrittore. Abbiamo pubblicato un estratto del suo ultimo libro, On Being Raped, in cui racconta di quando, a 18 anni, è stato vittima degli abusi sessuali di un prete e delle conseguenze ancora vive di quell'episodio.

Ho letto il memoir di Raymond M. Douglas On Being Raped praticamente tutto in una volta. Con stile sincero e diretto, questo libro segue la vicenda dello stupro dell'autore, allora 18enne, nell'Europa degli anni Ottanta, dello stigma che la vittima porta su di sé, il suo silenzio, la vergogna e l'impotenza—mentre i responsabili restano impuniti per anni, se non per sempre. Come scrive Douglas, "Statisticamente, è quasi certo che chiunque leggerà questo libro conosca un uomo che è stato stuprato, solo che non lo sa." Oggi il tema della violenza sessuale sugli uomini è entrato nel radar dell'opinione pubblica, anche grazie a film come Spotlight, ma non se ne parla ancora molto. On Being Raped, invece, ne tratta con onestà e intelligenza. È una lettura quasi obbligatoria, direi. Siamo felici di presentarvene il primo capitolo.

Pubblicità

—James Yeh, culture editor

Gloucestershire, Gren Bretagna, 1992. Foto di Peter Marlow/Magnum.

The Story of My Rape as a Young Man

Non è il male a essere banale, è chi lo fa. I grandi crimini hanno una certa grandeur, un che di tragico che attira la nostra attenzione. Anche i piccoli crimini possono essere interessanti, come l'ondata di rapimenti di nani da giardino con richieste di riscatto nel nord-est degli Stati Uniti qualche anno fa. Ma quelli che compiono anche i più atroci crimini sembrano non avere in comune altro che l'insignificanza. Adolf Hitler era una sgradevole nullità, quello che sapeva l'aveva appreso dall'equivalente della Vienna del 20esimo secolo del Reader's Digest, aveva il fiato cattivo quasi tossico e il naso largo, per distogliere l'attenzione dal quale aveva coltivato un baffo ancora più ridicolo. Iosif Stalin era un prete fallito. Bonnie e Clyde erano, rispettivamente, una cameriera part-time e un ladro di tacchini incapace. Hermann Goering giocava coi trenini. Da cui la frustrazione dei biografi che tolgano strato dopo strato la psiche dei più grandi criminali della storia solo per scoprire, nelle parole di Gertrude Stein, che non c'è un lì lì.

L'uomo che mi ha stuprato corrisponde anche troppo bene a questa descrizione. Sapevo poco di lui prima dell'aggressione, e non ho trovato alcun buon motivo per scoprirne di più in seguito. Indistinguibile per carriera, nella norma quanto ad apparenza e comportamento, non c'era niente in lui che lo rendesse riconoscibile. È stato solo per mia sfortuna che ho scoperto che era anche subdolo, violento, e che si sentiva gratificato dal causare dolore agli altri. Ma queste caratteristiche non sono troppo inusuali nel mondo di oggi. Non è tra gli aspetti meno imbarazzanti della vicenda che la mia vita sia stata così profondamente scossa da un individuo così banale.

Pubblicità

Quanto allo stupro in sé, anche quello, a quanto ne so, è stato banale. Certo, da parte mia tiro a indovinare. C'è solo uno stupro che posso dire di conoscere a buon diritto, ed è il mio. E però anche mentre ne scrivo, mi rendo conto che le parole sbiadiscono e perdono sostanza davanti ai miei occhi. Quanti miliardi di volte sono successe cose simili nella storia dell'uomo? Quante decine di migliaia di descrizioni? Tutto si appiattisce nella stessa terribile uniformità, una storia che non vale la pena raccontare perché è così famigliare che fa perdere la pazienza. Cosa rende il mio stupro diverso? "Be', è successo a me" sembra una giustificazione un po' debole per blaterarne. Non c'è noia pari alla noia di uno stupro.

Ma c'è una complicazione. Il mio stupro, in tutti i suoi tratti principali simile a quello di chiunque altro, è conforme a qualunque immaginario tranne al mio. Da quando è successo, ho cercato di trovargli un posto nella mia biografia, dei confini netti come tutti gli altri eventi salienti (nascita, scuola, primo lavoro, stupro, università, dottorato…). Ma rifiutava il suo posto. Anche oggi, continua a riscrivere il codice informatico della mia vita, come uno di quei malware che riempie lo schermo di pop-up più in fretta di quanto io riesca a chiuderli. Ho altre esperienze con i crimini, come molte persone: borseggi, furti, piccole aggressioni. In quei casi puoi parlare di un "prima" e di un "dopo". I cattivi sono stati identificati e denunciati, o meno; i buoni sono tratti in salvo o l'assicurazione li risarciva; lo storto ubriaco che aveva inizio a ondeggiare ovunque è stato sbattuto fuori dalla sicurezza. Solo in questa occasione le cose sono andate diversamente. Per l'intervento di un'inesplicabile costante cronologica, lo stupro è sempre ora.

Pubblicità

Sospetto che sia vero per molti, anche se da quando mi hanno stuprato sono diventato ben più cauto nel dire a chiunque altro come dovrebbe essere la sua esperienza. La cosa davvero difficile da dire è perché l'ho scoperto. Molti eventi nella mia vita per me, in ogni senso, sono circoscritti nel tempo: alcuni belli, altri orribili. Perché questa singola notte, tra tutte, non può essere relegata nel luogo a cui appartiene—una spiacevole esperienza del mio passato, ma una a cui sono sopravvissuto e andato oltre?

La risposta, credo, è che lo stupro—il mio stupro, almeno; forse quello di molti altri—non ti permette quel tipo di separazione tra gli eventi e il tuo io. Lo stupro è conoscenza, ma non di quella che ti fa, o fa a qualcun altro, alcun bene. Quando sono stato stuprato, ho scoperto cose su me stesso e sul mondo in cui vivo che sarei stato molto meglio a non sapere mai. E per gran parte della mia vita da adulto, questa conoscenza mi ha ucciso.


Avevo 18 anni. Il mio secondo lavoro dopo la scuola era come unico guardiano di notte in un college per insegnanti: sei giorni, il venerdì libero. Facevo la ronda per i 30 chilometri quadrati del campus con una torcia e un cane che faceva l'impossibile per mordermi ogni volta che gli mettevo il guinzaglio finché ho insistito perché il canide pazzo venisse allontanato. Le ore erano lunghe e la paga misera, ma mi piacevano il lavoro e la responsabilità.

Pubblicità

Una piovosa sera di febbraio, nel mio giorno libero, un prete che conoscevo ha telefonato a casa mia e ha lasciato un messaggio a mia madre, mi chiedeva di andare alla casa parrocchiale dove aveva organizzato un incontro. Lo conoscevo per averci scambiato qualche parola, ma era la prima volta che ricevevo un invito simile, e non lo vedevo da mesi. Era stato una specie di cappellano ufficioso della mia scuola, si occupava dei ritiri spirituali, e molti studenti più grandi attraversavano la strada per ritrovarsi nel suo salotto al primo piano durante il mio ultimo anno. La sua collezione di dischi era famosa nella zona, e sarebbe bastata a mettere su una piccola emittente radio. Era sulla quarantina, sagace, cinico e dall'umorismo svelto. Tutti pensavamo che bevesse un po' troppo. Ci aveva detto chiaramente che eravamo i benvenuti se volevamo usufruire del contenuto del suo mobile bar a nostro piacimento, anche se stranamente pochi di noi avevano accettato l'offerta.

La festa, quando sono arrivato poco dopo le nove, era in fase discendente. Un altro prete e cinque o sei dei miei ex compagni di scuola erano già lì, tre di loro seduti vicino al caminetto in salotto con espressioni educate e scure in volto. Ho trovato i restanti nella cucina lì accanto, dove evidentemente intendevano restare tutto il tempo concesso dalla decenza. L'umore del nostro ospite, sapevamo, tendeva a fluttuare con l'alcol. Quando sono arrivato era visibilmente sbronzo, stava al camino e faceva dondolare un tumbler di whisky puro mentre si esibiva nella sua arringa favorita di banalità contro il Vaticano. L'avevamo già sentita tutti, molte volte. Mentre la serata rantolava in avanti, i suoi gesti sono diventati più incontrollati, i suoi occhi più vitrei, e la velocità di ingollo maggiore. Uno dei miei amici più furbi, riconoscendo i segni del pericolo, si è offerto volontario per preparare i drink. Per mezzanotte, il prete sembrava non realizzare, o fregarsene, che i bicchieri che gli passavamo contenevano nient'altro che acqua sporca.

Pubblicità

Alle due del mattino circa, quando gli altri preti se ne erano andati da tempo e noi non vedevamo segni di fine imminente, ci siamo riuniti in cucina per un breve consiglio di guerra. Eravamo d'accordo che il nostro uomo non era in condizioni di essere lasciato da solo; a parte tutto, la sua macchina era lì fuori, come sempre pronta in caso di chiamata al capezzale di un parrocchiano morente, e nessuno sapeva dove teneva le chiavi. Chiaramente lui non aveva nessuna intenzione di smettere finché la festa era in corso. Abbiamo tirato a sorte, ed è toccato a me di rimanere con lui quando gli altri se ne sono andati; assicurarmi che non scorrazzasse in giro in macchina da solo; e metterlo a letto quando la botta dell'alcol l'avesse mandato ko. Più di un'ora dopo, quando il fuoco si era spento e il freddo aveva invaso la stanza, finalmente il prete ha accettato i miei diplomatici suggerimenti che fosse ora per entrambi di fare un pisolino. La sua camera da letto era immediatamente accanto al salotto, bastava aprire un paio di porte scorrevoli in legno. Ha rovistato nel guardaroba e ne ha tirato fuori un paio di coperte e un cuscino, è tornato indietro lanciandomele sul divano mentre io spazzavo le ultime braci dal caminetto. Sono rimasto un po' sorpreso quando ha attraversato la stanza e ha chiuso dall'interno la porta dell'appartamento. "Oh, lo faccio sempre," ha detto, "sono entrati in casa tante volte negli ultimi anni." Allora, non ci ho pensato più di tanto.

Pubblicità

Problemi di manualità hanno ritardato il processo di mettersi a letto. Dopo aver guardato il padrone di casa seduto sul bordo del letto a guardarsi le scarpe senza scopo per parecchi minuti, mi sono inginocchiato ai suoi piedi, gli ho tolto le scarpe, e l'ho aiutato faticosamente a spogliarsi e a entrare con enormi sforzi nel suo pigiama e nel suo letto. Fatto questo, me ne stavo andando. "No, aspetta un attimo," ha chiamato allarmato. "Non riesco a dormire da solo al buio. Resta con me finché mi addormento. Ho bevuto un sacco. Non ci vorrà molto. Per favore?"

Qualsiasi cosa per un po' di pace. Ho preso una sedia. "No, non essere ridicolo," ha detto brusco. "Puoi metterti sul letto. C'è un sacco di spazio. Sarò fuori gioco in dieci minuti. Basta che ti togli le scarpe. Non voglio che mi rovini la trapunta." Senza aspettare una risposta, si è sporto e ha spento la luce accanto al letto.

A questo punto, sicuramente state arrivando alla conclusione che me la sono cercata, che mi meritavo tutto quello che mi è successo. E arriva la prima invariabile componente della sceneggiatura dello stupro: la lista delle accuse. Imputato alla sbarra, come hai potuto essere così stupido? Cosa pensavi che avrebbe fatto? Non ti sei reso conto che glielo stavi praticamente chiedendo? Non penserai davvero che la giuria creda che non sapevi cosa sarebbe successo, vero?

In realtà, non lo sapevo. Il pensiero non mi ha mai attraversato la mente. Era un prete. Io ero un parrocchiano, e un ex ragazzo dell'oratorio. Ero anche vergine, anche se questo non aveva nessuna importanza dato che l'idea che potesse accadere qualcosa di vagamente sessuale nei miei immediati dintorni era lontana quanto quella che un asteroide si materializzasse quella notte per distruggere la terra.

Pubblicità

Le lunghe tende erano molto funzionali. Non un alito della tenue illuminazione fuori dalla finestra penetrava nella stanza. Nella completa oscurità, ho raggiunto a tentoni l'estremità del letto e mi sono steso con cautela sul lato sinistro. Aveva ragione; c'era un sacco di spazio. Steso sulla schiena, ho ascoltato il rumore del suo respiro, sperando che presto si facesse lento e regolare abbastanza perché io potessi silenziosamente strisciare fino al divano che mi aspettava. Era stata una giornata molto lunga, e volevo dormire. Se non stavo attento, in un attimo mi sarei addormentato lì.

Forse sono passati dieci minuti. Poi una mano è emersa dall'oscurità e mi ha afferrato la cintura. L'altra mano è seguita, ha iniziato a lavorare alla fibbia. Scioccato, ho iniziato a tirarmi su. La prima mano si è liberata, mi si è piazzata sul torace e mi ha rimesso sdraiato. Una voce ha parlato bassa ma enfatica da quelli che sembravano pochi centimetri di distanza dal mio orecchio destro—una voce autoritaria, che non accettava repliche.

"Voglio che me lo succhi."

La nostra era una cultura poco sofisticata al tempo. Americanismi come "blowjob" non erano ancora entrati nell'uso. Per qualche breve comico istante—se fossero esistiti gli occhiali a infrarossi, la mia espressione sarebbe stata impagabile—ho cercato di figurarmi cosa la sua richiesta significasse. Rinnovati vigorosi scossoni ai miei pantaloni, però, mi hanno reso l'idea piuttosto in fretta. Di nuovo la voce, questa volta più forte e minacciosa. "Succhiamelo."

Pubblicità

Non bene. Il momento di essere da qualche altra parte. Ho rotolato fino all'estremità del letto, un'idea intelligente che mi è venuta un secondo troppo tardi. Un corpo con tutto il suo peso è mi è atterrato sopra, e non gentilmente. Per la prima volta, ho avuto modo di notare che il prete era molto più pesante di me e sembrava anche molto più potente, in quella situazione. Ho cercato di divincolarmi. Un avambraccio forte mi si è abbattuto come una sbarra sulla gola, mi ha inchiodato alla superficie del letto dal collo. Faceva male come una lama, e avrei urlato per il dolore e la sorpresa se non mi avesse anche mozzato il fiato. Con l'altra mano, il prete ha acceso la luce sul comodino. Poi si è risollevato, liberandomi il collo e mettendosi a cavalcioni dei miei fianchi, con le ginocchia accanto alle mie spalle, mi fissava come se aspettasse la mia mossa successiva.

Non credo che nessuno di noi abbia detto molto per parecchi istanti, dopo quel momento. So che io non l'ho fatto. La situazione sembrava piuttosto chiara, senza che ci fosse bisogno di ulteriori discorsi. Quello che era meno chiaro era cosa dovevo fare io. Sembra ridicolo, ma rifacendomi a una tattica più appropriata al cortile di una scuola che alla situazione in cui mi trovavo, ho cercato di togliermelo di dosso. Quando sei sdraiato sulla schiena con qualcuno seduto sopra di te, l'unico movimento che puoi fare è una serie di rapide spinte pelviche, una grottesca parodia dei movimenti di un atto sessuale. Ero un pozzo di ironia, al tempo. Comunque non ha funzionato. Il mio aguzzino ha mantenuto la sua posizione senza difficoltà aspettando che smettessi di divincolarmi e ansimare sotto di lui. Non sembrava nemmeno lontanamente impedito dall'alcol come 20 minuti prima. Avevo le braccia ancora libere, quindi ho lottato. Non era una decisione conscia, non ho soppesato le tattiche e le opzioni. Se avessi avuto il tempo di considerare la mia posizione, avrei forse concluso che in quel frangente l'accondiscendenza era la dote più eroica. Ma l'impulso di far volare i pugni e cominciare a cercare di fargli davvero male mi sembrava allora naturale come respirare. Né mi aspettavo di fallire.

C'è una convinzione che tutti i maschi di più di 12 anni, o quasi tutti, condividono: quando il dado è davvero tratto, se stai lottando per la tua vita, troverai dentro di te la forza per prevalere su chi non sta lottando per la sua. Non penso sia il risultato dell'influenza dei film hollywoodiani, o almeno non solo di quello. È la cosa più simile a un'essenza costitutiva della maschilità, a un nostro baricentro fisico. Ci consente di attraversare le zone più pericolose della città senza preoccuparci, o magari senza nemmeno pensarci troppo. Ci fa credere che se dovremo combattere in guerra potremo forse morire, ma non saremo certo i primi a essere uccisi. La ragione per cui film come Die Hard piacciono agli uomini potrebbe in effetti essere che fanno presa su questo senso preprogrammato che abbiamo in noi, che quelle riserve sono lì pronte a essere spese quando ne abbiamo bisogno, e non ci deluderanno.

Perciò mi sono dimenato, con tutta la violenza di cui ero capace, con ogni briciola di disperazione adrenalinica che possedevo. Stavo cercando di fare male, di catalizzare tutta la forza che riuscivo a raccogliere nella mia posizione prona e sfavorevole negli spintoni, di trovare i punti vulnerabili, agitando i gomiti e i pugni. Probabilmente avrei affondato i denti nella sua carne se ci fossi arrivato. Non mi ero mai comportato in modo più primitivo in vita mia, non ho lasciato niente, di quello che mi veniva in mente, intentato, grugnivo per lo sforzo come un tennista a Wimbledon a ogni pugno, cercavo punti sensibili da cavata, spremere, stortare.

Non è bastato, per niente. E posso dire onestamente che fare quella scoperta mi ha sconvolto più di qualunque altra cosa mi fosse accaduta in vita mia fino a quel momento. Avevo messo a segno un paio di pugni, certo, ma il prete li aveva incassati con relativa facilità e aveva parato gli altri. Ora rispondeva. Il primo colpo (pugno? gomito? oggetto? Ad oggi non ne ho idea) è arrivato dal nulla, mi ha preso al lato destro del cranio, sopra l'orecchio, con forza inimmaginabile, mandandomi la testa fino al limitare del letto e facendomi mordere la lingua fino quasi, così mi era sembrato allora, a tagliarla in due. Un secondo colpo non era necessario. La visione periferica se ne è andata, riuscivo a vedere solo uno stretto campo quasi completamente occupato dalla sua faccia proprio sopra di me. Un conato di nausea, accompagnato dalle scosse elettriche del dolore sincronizzate con il battito del mio cuore, hanno monopolizzato la mia coscienza. Con mia grande vergogna, quel singolo devastante colpo è stato l'unico necessario per sottomettermi. Non potevo incassare altro. La lotta mi ha lasciato vuoto come una batteria scarica, e sono rimasto completamente immobile. Quello, sembrava, era ciò che il prete stava aspettando. Si è sollevato dalle mie cosce; mi ha infilato un ginocchio aguzzo nella bocca dello stomaco, facendomi esalare anche quel poco fiato che ancora avevo in corpo; si è liberato dei pantaloni del pigiama, e ha cominciato.

Questo estratto di On Being Raped di Raymond M. Douglas è pubblicato per gentile concessione della Beacon Press.

Raymond M. Douglas è Russell B. Colgate Distinguished University Professor of History alla Colgate University. Vive a New York con la moglie e la figlia.

Segui la nuova pagina Facebook di VICE Italia: