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A8N10: Il numero sulla Siria

Musica per pianoforte solo

Un racconto del siriano Fawwaz Haddad.

Artwork di Khaled Akil

“Non ha notato niente che potrebbe aiutarci a identificalo?” chiese l’investigatore.

“No, stavo salendo le scale a testa bassa mentre lui scendeva,” rispose Fateh.

“Quando l’ha aggredita eravate soli, faccia a faccia.”

“È successo tutto in fretta.”

“Ma deve averlo visto, era giorno.”

“Non riuscivo a vedere molto bene. La scala e i pianerottoli non erano bene illuminati. Sembrava già sera.“

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L’accertamento riprese con l’arrivo di un giovane investigatore accompagnato da quattro uomini armati. Gli erano stati conferiti pieni poteri. La polizia passò la palla, e due di loro rimasero per sorvegliare la situazione. Il suo compito era quello di indagare sulla natura dell’accaduto e scoprire se ci fossero legami terroristici—come suggerito dalla petizione che, fino alla sera precedente, avevano firmato più di 30 persone.

E il numero poteva crescere.

Prima di leggere il rapporto, l’investigatore annunciò di voler usare ogni strumento a sua disposizione. Fece uscire tutti coloro che si erano raccolti nella stanza e gli proibì di tornare, per tutelare la salute della vittima. C’erano giornalisti, attivisti di organizzazioni civili e non governative, e con loro i curiosi. Quando protestarono, li rimproverò e non gli permise di avvicinarsi alla porta. Dopo poco si raggrupparono e cercarono di rientrare nella stanza, ma lui minacciò di farli arrestare. E prima ancora che potessero disperdersi nel corridoio, ordinò che venissero allontanati dall’ospedale, avvertendoli di non dire una parola sull’accaduto. Col loro chiacchiericcio si diffuse un’atmosfera di borbottio ampolloso, in cui andavano a disperdersi opinioni su religione, fondamentalismo e libertà civili. Non si erano radunati per quello. Erano lì per sostenere la vittima contro le forze dell’oscurità e del takfir, come se loro fossero quelle della luce e della tolleranza!

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“Prima di aggredirla ha girato per il mercato chiedendo di lei ai negozianti. Gli hanno indicato il palazzo in cui vive. È rimasto lì e l’ha aspettata, e poi… conosce il seguito. Si è mosso liberamente e in pubblico, senza destare l’attenzione di nessuno. Non è strano?” L’investigatore pose la domanda rivolgendosi più che altro a se stesso.

“Non ha preso particolari precauzioni,” continuò. “Al mercato l’hanno visto in molti, e con alcuni ha parlato. Ma non ha destato sospetti. E le descrizioni fornite sono piuttosto comuni.”

Prese a enumerarle: di mezza età, alto, di costituzione robusta, fronte bassa, baffi sottili, capelli neri e radi, viso allungato, ben piantato. Differivano dalla descrizione che ne aveva fatto la vittima, che nel rapporto aveva più volte sottolineato la fronte larga, i baffi e capelli folti, il viso rotondo e il corpo snello.

“Non l’aveva mai visto prima, o magari notato da qualche parte?”

“No.”

“E non indossava una tunica!” “Io non l’ho detto.”

“Era sbarbato.”

“E quindi? Cosa vuol dire?”

“Vuol dire che non era un terrorista.”

“Non manderebbero di certo uno col turbante e la barba, e il rosario in mano.”

“E non ha corso. È uscito in tutta calma, si è sistemato i vestiti e se n’è andato.”

Con quelle domande incalzanti, l’investigatore stava cercando di insinuare qualcosa di diverso dagli schiamazzi delle persone là fuori. Qualcosa che non aveva nulla a che fare con le loro urla sul terrorismo.

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“Crede veramente che quell’uomo fosse un terrorista?”

“E perché no?”

“Un terrorista ben vestito, senza armi o bombe!”

“E chi era, allora?”

“Somiglia più a un uomo d’affari, o a quei giovani che vengono assunti per proteggerli.”

La vittima spalancò la bocca per lo stupore.

“C’è molta differenza tra le due cose.”

“Entrambi indossano completi neri, camicia bianca e occhiali scuri.”

“Non portava gli occhiali.”

“Se li è tolti per poter vedere nel buio.”

L’investigatore si allontanò dall’interrogato e si sedette su una sedia vicina al muro. Voleva dire alla vittima, la cui testa era avvolta dalla mussolina, di smettere di fingere che il suo incidente fosse una sorta di evento nella lotta contro le forze dell’oscurità. Il racconto che aveva in mente e che gli altri volevano divulgare era molto debole. Cherchez la Femme! La vittima non era priva di una grazia acerba che incanta le giovani, e di una mascolinità matura che attira le donne di un’altra età. Se solo avesse rivelato cosa stava nascondendo, la faccenda si sarebbe risolta in un istante. Nel mondo sono tante le cose che mettono in disaccordo la gente, ma da quando si erano diffuse le operazioni terroristiche erano arrivate anche le finte vittime, che se ne impossessavano e accorrevano per prendervi parte.

L’investigatore volse lo sguardo in lontananza, con gli occhi che bucavano i vetri delle finestre. Osservava qualcosa che si avvolgeva per poi salire lentamente. Non era una nuvola, ma del fumo che saliva in cielo.

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L’ULTIMO VISITATORE

Mentre i visitatori diminuivano, nel corso del giorno successivo, il signor Fateh si preparava per lasciare l’ospedale. La sera telefonò ad Haifa per dirle che non prevedeva altre visite e che se ne sarebbe andato l’indomani. Le chiese aiuto per tornare a casa, e si accordarono perché l’autista passasse a prenderla al lavoro verso le tre.

Poco prima di mezzogiorno fece la sua comparsa l’ultimo visitatore. Non aveva con sé dei fiori, e non c’era nessuno che lo avesse accompagnato o apertogli la porta. Era entrato nella stanza quasi furtivamente, con un ampio sorriso contaminato da un leggero dispiacere.

Fateh fu sorpreso di trovarsi davanti quell’uomo basso e tarchiato, che si era schiarito la voce senza però parlare, aprendo la bocca solo per sorridere ancora. Non riusciva a ricordare chi fosse, ma i suoi lineamenti cordiali e lo sguardo afflitto si sovrapponevano con uno strano effetto, dando l’impressione che l’altro lo conoscesse eccome—perché altrimenti avrebbe contemporaneamente mostrato dolore per quanto accadutogli e gioia per la sua incolumità? Questo bastò a convincere Fateh, anche se l’identità gli sfuggiva. Con un cenno della testa si mostrò dispiaciuto di non averlo riconosciuto, cercando attraverso la perplessità nei suoi occhi di scusarsi per non averlo accolto a dovere. Il silenzio era un invito a che il visitatore avanzasse e si presentasse.

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Pur aspettandosi che Fateh lo avrebbe riconosciuto, l’uomo non si lasciò scoraggiare. Trasmise con un largo sorriso la sua generosità, senza mancare di notare che la vittima lo aveva davvero dimenticato. Era passato molto tempo, quasi 30 anni.

“Da bambini eravamo amici.”

Fateh si irrigidì e si rizzò sul letto, chiedendosi Chi è? Ho condiviso la mia infanzia con quest’uomo in carne? Forse allora non era così grosso. L’altro proseguì, chiarendo:

“Alle elementari.”

Fateh tornò con la mente alla sua scuola elementare del quartiere di Sheikh Muhyiddin, e improvvisamente si ricordò del bambino che era stato suo compagno per cinque anni, dalla prima alla quinta. Tuttavia non ricordava il nome, ce l’aveva sulla punta della lingua. Forse era riuscito a richiamare il volto dell’uomo con tale rapidità perché le sue caratteristiche erano a malapena cambiate; gli rimanevano impresse nonostante fosse grasso e ormai sui quaranta.

“Cosa ti ha fatto pensare a me?”

“Ho sentito cosa ti è successo, così sono venuto a trovarti per accertarmi della tua condizione.”

“E perché non mi hai cercato prima?”

“Troppo occupato. Voglio dire, tu eri troppo occupato. Quindi non ho mai provato a contattarti. Ma ho seguito le tue notizie e letto cosa scrivi. Perdonami, amico, devo essere sincero; quello che leggevo e sentivo su di te non mi ha reso molto felice. Dopo che mi è giunta notizia dell’aggressione, il dovere mi ha chiamato, il dovere soltanto, a venire qui e vedere come stavi. Ho tagliato i ponti con te, la colpa è mia. Avrei dovuto sorvolare su determinate cose. Alcune, non tutte. L’amicizia ha i suoi diritti indipendentemente dal tempo che passa, non bisognerebbe trascurarla.”

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Fateh non gli chiese cosa avesse letto o sentito sul suo conto. A volte le sue opinioni non erano gradite nemmeno a quelli che gli erano più vicini. Perché allora preoccuparsi per un amico di un’infanzia dimenticata che non vedeva da anni? Per tutto quel tempo non se ne era ricordato né gli era venuto in mente, nemmeno per un solo istante.

“Non incolparti. Il tempo si è messo tra noi.”

Su di lui si abbatté un fiume di ricordi. Quell’uomo era stato un amico caro e fedele, suo come di tutti gli altri compagni, un bambino sempre impegnato a fare del bene. Un primo esempio del suo buon cuore era il fatto che desse la sua mancia quotidiana a qualunque mendicante incontrato lungo il tragitto mattutino verso la scuola. Divideva il suo cibo con i bambini più magri, e pur essendo un alunno diligente, non aveva mai gareggiato coi compagni per i voti più alti. Studiava non per primeggiare, ma per dare loro una mano negli esami orali e finali, anche se ciò poteva comportare una punizione.

Fateh era sorpreso dall’impetuosità della presenza di un passato dimenticato, così come dalla riscoperta dell’essere stato bambino. In un certo senso credeva che quella fase non gli fosse appartenuta, sebbene, stando a quanto diceva ora l’amico, era stato un alunno di talento.

“Uno studente modello. Mi aspettavo un futuro grandioso, per te.”

E aggiunse timidamente:

“E i maestri, i maestri lo avevano notato. Noi, tu e io, riflettevamo più degli altri.”

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Vista la lunga separazione e quelle parole, a Fateh sembrò appropriato porgere all’amico una serie di domande inevitabili: cos’aveva fatto in quegli anni, dove era stato? E cosa faceva ora? Si era sposato? Aveva dei figli?

Con esitazione e umiltà, l’amico gli riassunse 30 anni della sua vita. Non era andato all’università; dopo la morte del padre gli era subentrato nella gestione del negozio di articoli per la casa ad Asruniyya. Si era sposato giovane e aveva avuto cinque figli, due figli e tre figlie. Due di loro si erano sposati l’anno prima. Aveva lasciato il negozio al figlio maggiore e si era messo in pensione.

“Così giovane?” Fateh si chiese sconcertato se la religiosità dell’amico lo avesse spinto a lasciare il lavoro per potersi concentrare sulla preghiera e prepararsi alla morte. Doveva soffrire di un qualche male incurabile.

“Sei malato?”

“No, affatto.”

Ma non era rimasto senza far niente: il volontariato nelle associazioni benefiche lo occupava a tempo pieno. Aiutava i poveri, le vedove, gli orfani e chiunque avesse bisogno, con sola ricompensa quella di Dio. Era il meglio a cui potesse aspirare per la sua fine.

Dopo aver riassunto la sua storia, dall’inizio alla fine, stava a lui fare le domande. Accennò alla benda bianca intorno alla testa di Fateh e chiese con tono di rimprovero:

“Amico mio, cosa ti sei fatto?”

Fateh si mise in guardia. L’amico lo stava accusando. “Io non ho fatto niente, mi hanno aggredito.”

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“Temo che tu abbia aizzato qualcuno contro di te.” “Non saprei, le indagini non hanno ancora condotto a nulla.” Limitò le parole per non guastare l’umore. Ma l’amico gli si avvicinò e prese a parlare a bassa voce:

“Quelli che vengono additati come responsabili non hanno niente a che fare con questo. La tua folla sta lanciando accuse a casaccio.”

“Cosa sai?” chiese Fateh, irrigiditosi.

“Molto.”

L’agitazione di Fateh si ridusse, e non poté trattenere una risata. Il ragazzo dal cuore buono era solito usare quell’espressione in situazioni estremamente insolite, quando ancora la sua conoscenza aveva un lato innocente. Era così come era sempre stato.

“E cos’è che sai, esattamente?”

“Molto, più di quanto ti aspetteresti.”

“Sei sempre lo stesso, non sei affatto cambiato.”

“L’ho sperato a lungo.”

Fateh si meravigliò di come potesse aver conservato quell’ingenuità, proprio come le fattezze infantili che sembravano non aver subito cambiamenti consistenti segno dell’età avanzata, se non una ciocca di capelli grigi e qualche ruga appena accennata sotto gli occhi. Pareva quasi che in lui il tempo si fosse fermato.

In generale, la vita non sa tollerare un uomo di tali nobiltà e generosità; l’interazione onesta con le persone può avere risvolti involontari. Non era altro che un bambino in un rude mondo di adulti. Come aveva potuto non coglierlo la morte in una delle sue opere di bene? Era disponibile a sacrificarsi per gli altri, e probabilmente era stato ingannato in più di un’occasione.

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“Ma il mondo è cambiato.”

“Speriamo di non cambiare, noi.”

“Siamo già cambiati. Molto.”

“Se hai bisogno di aiuto….”

“Non ho bisogno di niente,” disse Fateh in fretta, svelando la sua angoscia. L’amico si volse verso la porta, poi tornò indietro.

“Voglio dirti solo che quello che sostieni è pericoloso, molto pericoloso.”

Si riferiva a ciò che Fateh diceva nelle sue conferenze e di tanto in tanto scriveva sulla stampa.

“Sì, non sta bene a molti. Hai ragione. È questo che sono diventato. Non sono più come prima. E non ti piacerà. Ma non importa ciò che dici, io sono questo.”

Come se non avesse sentito, il suo vecchio amico prese un foglio e vi scrisse sopra un numero di telefono.

“Pregherò perché tu stia meglio. Sentiti libero di chiamarmi, se hai bisogno.”

Fateh prese il biglietto, lo piegò e lo mise in tasca. No, non l’avrebbe chiamato, per nessun motivo. Perché doveva avere bisogno di lui? Nel passato felice era stato un bambino perfetto. Ma in quel presente infelice, non era altro che un uomo sgradevole e insopportabile, che per quanto diceva di conoscere sapeva in realtà molto poco, e la cui bontà di cuore sembrava averlo condotto alla devozione. Mentre il mondo procedeva, lui continuava a vivere in un’era polverosa.

Se c’era una cosa che Fateh avrebbe dovuto chiedergli, era il suo nome. Non lo ricordava, e l’amico d’infanzia non l’aveva annotato accanto al numero di telefono. Prese il pezzo di carta dalla tasca e strappò.

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IL LAICO ABOMINEVOLE

Il gran numero di visitatori accorsi all’ospedale attirò i sospetti dell’investigatore. Chiese ai suoi superiori il motivo dell’interesse per la vittima. Gli risposero che il signor Fateh al-Qalaj era un noto intellettuale e pensatore indipendente di importanza non inferiore a quelli del partito.

Cosa gli aveva fatto pensare male dell’uomo e del suo caso?

L’investigatore era soddisfatto delle sue prime impressioni e dell’intuito, spesso fonte di errore, così come della manciata di informazioni ottenute dal vicino di casa mentre si dirigeva in ospedale subito dopo l’assegnazione dell’incarico.

Quelle informazioni non mettevano Fateh in buona luce. Il vicino non conosceva granché sul suo conto. Ignorava la sua occupazione, ma sapeva che era un vedovo che abitava solo. Il resto degli inquilini del palazzo non si curava di Fateh, considerandolo schivo e presuntuoso.

Per l’investigatore non fu difficile comprendere quelle impressioni negative. Finché Fateh aveva vissuto in quell’edificio vicino alla prigione di Mezzeh, niente lo aveva fatto distinguere. Una macchina—una vecchia Peugeot del ’76 —lo prelevava al mattino e lo riaccompagnava la sera, e raramente circolava al di fuori degli orari di lavoro.

Dalle informazioni raccolte, senza dubbio le più vicine alla realtà, sembrava trattarsi di un manager rispettato ma privo di un’effettiva influenza o grossi incarichi. Quel posto gli era stato assegnato come ricompensa per le posizioni progressiste assunte in passato, sebbene lui non avesse chiesto nulla per sé. Qualcuno, dall’alto, aveva ritenuto opportuno mettere l’uomo giusto nel posto giusto, e al contempo allontanarlo da impieghi di altro tipo. L’incarico di direttore del centro informazioni era vacante.

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I vicini ignoravano tutte queste cose, compreso il lato più noto, ovvero il fatto che fosse un pensatore laico, che non troppo tempo prima aveva deciso di prestare fede alla scienza e di allinearsi al lato della ragione, sradicando superstizioni, illusioni e tutte quelle credenze dotate di una relazione con lo spirito—in pratica, tutto ciò che non si poteva vedere o toccare.

Fateh non aveva scelto il lavoro intellettuale per fare soldi. In un certo senso era un dilettante, interessato alle idee, quelle più moderne, senza doverci trarre di che vivere. Occasionalmente teneva delle lezioni e moderava discussioni senza un ulteriore compenso. Era conosciuto per i suoi interventi profondi e il suo anti-populismo, ed era un sincero difensore del razionalismo e della ricerca della verità, soprattutto quelle verità inconfutabili come la morte—che gli era costata la perdita della moglie.

Senza dubbio, se i vicini avessero saputo cosa sosteneva si sarebbero schierati dalla parte opposta, ma le loro letture non andavano oltre la nera locale e le dinamiche dei prezzi di auto e immobili. Non erano interessati alle idee, spesso incomprensibili e prive di valore nella vita quotidiana.

Negli anni, le informazioni sul suo conto erano rimaste le stesse. Era sempre il nuovo vicino pur essendo passati dieci anni dal suo arrivo, l’uomo a cui era morta la moglie sebbene il fatto fosse avvenuto tre anni prima. Appariva loro come un uomo a metà dei 30, anche se aveva da tempo superato i 40. I suoi interventi audaci sulla stampa erano limitati, e il suo nome era conosciuto da una piccola cerchia di celebri lettori e al contempo considerato sospetto tra le amministrazioni particolarmente sensibili alle critiche che rivolgeva in pubblico alle politiche nazionali. Non aveva mai proferito fedeltà all’autorità, ma non si era mai scontrato con essa. Convinti che le sue idee sfrontate li avrebbero soltanto messi in imbarazzo, dall’alto avevano preferito comprarlo con quell’incarico. L’avevano ignorato fin quando non aveva rappresentato una minaccia, anche se di tanto in tanto la gente comune si mostrava infastidita dal suo insistere su tradizioni e dogmi.

Le sue conferenze sul secolarismo si strutturavano intorno a un unico punto, ovvero la separazione tra religione e stato. Lo esponeva con competenza, portando argomenti profondi, e—vista la portata del suo entusiasmo per la materia—procedeva dallo stato detestabile al regime che rispetta la coscienza e protegge se stesso dal diventare territorio di una religione, di una setta o di una scuola giuridica.

L’ostilità maggiore era riservata alle verità sovrannaturali. Non le attaccava a viso aperto né negava il loro status spirituale, ma con scaltrezza lanciava contro di esse una propaganda atea che i suoi sostenitori e avversarsi potessero comprendere. Si opponeva categoricamente ai religiosi, e non lo interessavano la libertà di coscienza né l’opinione opposta o differente. Manifestava il suo rifiuto ad accordare la veracità a qualcosa senza prima sottoporla a indagine e investigazione. Il suo motto era “Non c’è altra verità all’infuori di quella della scienza”. E sebbene si gloriasse dell’eliminazione della magia dal mondo operata dalla scienza, lo faceva solo per dimostrare che la religione non era meno superstiziosa della magia.

Quando il regime fu spinto a mettere in guardia gli intellettuali dall’esprimere punti di vista estremi o attaccare le credenze religiose—come parte del piano per sradicare ogni forma di discordia tra il popolo e assicurare l’ordine pubblico—riuscì a raggiungere l’impossibile giusto mezzo.

Fateh non interpretò quell’avvertimento con prudenza, e rinunciò alla complessità intellettuale affilando la sua critica della gente di fede. Si avvicinò ancora di più alla gente di scienza, e guastò l’equilibrio; una volta arrivò quasi a scatenare disordini civili tra religiosi e non religiosi su una questione di immane importanza legale che i laici consideravano strana e passibile di derisione. Questo spinse il regime a tenere a freno l’intellettuale secolare. Lo convocarono presso uno dei quartieri generali dell’apparato di sicurezza e gli fecero capire che se lui era un infedele, loro potevano esserlo anche di più. Lo obbligarono a mettere freno ai suoi attacchi alla religione nei raduni pubblici. Dopo quell’episodio, limitò le sue critiche agli incontri privati, a cui partecipavano soltanto i suoi sostenitori. Gli bastava giocare in difesa, prendendo le parti del secolarismo secondo il punto di vista per cui esso manteneva la pace sociale e restituiva alla religione la sua spiritualità. Come risultato, si riguadagnò il rispetto delle autorità. Lo consideravano una risorsa razionale in uno stato irrazionale e insicuro che integrava la moltitudine di prospettive indispensabili dei dibattiti televisivi, i quali richiedevano che gli ospiti fossero irascibili e polemici e usassero parole ricercate per timore che non si credesse il loro un Paese sofisticato. Aveva portato alle reti televisive un tocco liberale di apertura mentale.

Anche se fu richiamato una volta sola, imparò la lezione. Per quanto riguardava quelli al potere, finché Fateh era sotto controllo non c’era da temere—né di lui, né del tenerlo in quella posizione o promuoverlo, a condizione che non scatenasse anche piccoli fuochi difficili da contenere o estinguere quando fosse stato necessario.

I vicini non erano riusciti a costruire una relazione normale con lui, e non approvando il suo isolamento estremo avevano concluso fosse un tipo arrogante. La sua seria condotta gli conferiva un aspetto frastornato, di quel tipo che circonda gli intellettuali pessimisti e li accompagna nelle attività quotidiane. E pur essendo impegnato a riflettere su temi assolutamente importanti e di implicazioni umanitarie, anche le questioni ambientali minori erano a suo giudizio devastanti—la spazzatura lanciata dalle terrazze, le interruzioni di acqua ed elettricità per lunghi periodi, e gli interminabili lavori in strada. Quando rimuginava assumeva un’espressione turbata. Aggrottava le sopracciglia e la fronte, mostrandosi corrucciato, mentre il disgusto gli pervadeva il volto. Appariva ripugnante, e ripugnanza provavano i vicini nei suoi confronti, senza mostrare il minimo interesse per ciò che gli accadeva—o mostrandolo, ma col solo intento di trarre piacere dalla sua disgrazia.

Di tanto in tanto, quando si trovavano a evocare la defunta moglie, provavano pietà per lui ed esprimevano compassione per la sua condizione. I sentimenti verso la sua persona si addolcivano e in alcuni casi includevano una leggera ammirazione. Ma se cercavano di avvicinarcisi, lui li sorprendeva con la sua arroganza, che non era tanto vera arroganza quanto un atteggiamento a cui era ormai avvezzo. E i vicini, a loro volta, tornavano a detestarlo come avevano sempre fatto.