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Dentro la radicalizzazione jihadista nelle carceri italiane

Dopo gli attentati di Parigi, l'allerta radicalizzazione è ai massimi livelli. Ma la realtà dell'islam nelle carceri italiani è molto più complessa e variegata: VICE News ne ha parlato con il sociologo Khalid Rhazzali.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Detenuti comuni nel carcere di San Vittore. [Foto di Elena Brenna]

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Dopo aver saputo degli attentati di Parigi dello scorso novembre, quattro detenuti nel carcere di Rossano Calabro avrebbero esultato al grido di "Viva la Francia libera" dagli infedeli. Qualche settimana dopo, un detenuto egiziano nel carcere di Bologna è stato espulso dall'Italia "per avere inneggiato all'Isis e agli attentati di Parigi auspicando un'altra strage." E ancora, all'inizio del 2016, nel carcere di Bolzano è stata chiusa la sala Internet perché alcuni detenuti si sono collegati a "siti inneggianti allo Stato Islamico e alle stragi compiute in nome dell'Isis."

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Quelli appena elencati sono solo alcuni recenti casi di cronaca che hanno riportato l'attenzione sul proselitismo jihadista e sulla radicalizzazione violenta nelle prigioni — due temi su cui c'è sempre più attenzione a livello mediatico, e che le autorità politiche hanno indubbiamente messo in cima alle priorità da combattere.

Il ministro della giustizia Andrea Orlando, ad esempio, nel febbraio del 2015 fa aveva spiegato che le carceri "sono dei luoghi in cui si può strutturare una visione estremista dell'Islam, con capacità di proselitismo," ma al contempo "bisogna assicurare il diritto di culto negli istituti per evitare l'effetto boomerang come Guantánamo." Lo stesso Orlando, il 26 gennaio del 2016, ha fatto sapere che l'Italia sta seguendo "con preoccupazione" il fenomeno della radicalizzazione, la quale "ha come focolaio gli istituti penitenziari."

Proprio in questi giorni, inoltre, il deputato di Scelta Civica Stefano Dambruoso – che considera l'Italia "in grave ritardo" sul contrasto alla radicalizzazione – ha depositato insieme a Andrea Manciulli del Partito Democratico una proposta di legge con diverse misure "per la prevenzione della radicalizzazione e dell'estremismo jihadista."

Tra queste sono contemplate una formazione specialistica per le forze di polizia, la creazione di un "sistema informativo sui fenomeni di radicalismo jihadista" e un "piano nazionale per garantire un trattamento penitenziario teso alla rieducazione e deradicalizzazione."

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Poco tempo fa, invece, è stata avanzata una proposta decisamente più tranchant — quella di riaprire la prigione dell'Asinara e di trasformarla in un "supercarcere" in cui rinchiudere "i sospetti jihadisti e i condannati per reati legati al terrorismo islamico."

Formulata originariamente dal Sappe – un sindacato di polizia penitenziaria – la prospettiva di un "supercarcere per jihadisti" è stata salutata con un certo entusiasmo dalla Lega Nord. "Portiamo i terroristi all'Asinara, facciamolo per la nostra sicurezza nazionale, ma anche come deterrente per i potenziali jihadisti, in modo che sappiano cosa li aspetta in caso di cattura," ha scritto il senatore Roberto Calderoli sulla sua pagina Facebook.

Il quadro generale che emerge dalle dichiarazioni ufficiali, insomma, è a dir poco inquietante: le carceri italiane sembrerebbero davvero una specie di enorme incubatore di persone che [entrano](http://ladro di macchina ) come "ladri di macchine" ed escono jihadisti provetti.

Questo rischio, del resto, è stato sottolineato a più riprese in rapporti stilati dall'intelligence e studi pubblicati dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (DAP).

In particolare, già nella "Relazione sulla politica dell'informazione per la sicurezza" del 2008 si era evidenziato il fatto che nelle carceri "è stata rilevata un'insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da 'veterani', condannati per appartenenza a reti terroristiche, nei confronti di connazionali detenuti per spaccio di droga o reati minori."

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Detenuti a San Vittore. Foto di Elena Brenna.

A questo proposito, e stando a fonti investigative raccolte di recente dal settimanale L'Espresso, sarebbero "almeno cinque i musulmani che durante la detenzione hanno abbracciato la causa islamista, e una volta usciti sono partiti per campi d'addestramento in Siria o in Iraq."

Al di là di questi casi estremi, tuttavia, i dati consegnano un contesto nettamente più composito, e che in un certo senso ridimensiona l'allarmismo fomentato da media e politici. In base a un rapporto del Dap del 2013, intitolato Le moschee negli istituti di pena, i detenuti di fede musulmana sono 13mila e 500, di cui 8.732 osservanti e 4.768 non osservanti. Dati aggiornati al 15 gennaio 2015 dell'Associazione Antigone, tuttavia, fissano a 5.786 i detenuti di fede musulmana.

Di questi, come ha dichiarato il capo del DAP Santi Consolo, gli "osservati speciali" sono "oltre duecento." I detenuti reclusi con l'accusa di terrorismo internazionale, invece, sono 21; e tutti si trovano nel circuito separato AS2 ("Alta sicurezza, livello 2") del carcere di Rossano Calabro, descritto da alcuni articoli come la "Guantanamo italiana."

Fino al 2012 i detenuti che rientravano nel circuito erano 80, divisi tra l'istituto di pena calabrese e quelli di Asti, Benevento e Macomer (Nuoro). Da quest'ultimo, nel 2009, era partita la protesta di alcuni detenuti musulmani che lamentavano presunti trattamenti discriminatori e degradanti.

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Di fronte a cifre simili, pertanto, concentrarsi esclusivamente su radicalizzazione e proselitismo non fa altro che fornire un'immagine monolitica di una realtà estremamente complessa e variegata com'è quella dei musulmani in carcere.

Sebbene se ne discuta incessantemente, in Italia poche persone si sono occupate seriamente del fenomeno. Uno di questi è il sociologo Khalid Rhazzali, docente dell'Università di Padova e dell'Università di Lugano, nonché autore del saggio L'Islam in carcere (FrancoAngeli) — una delle tre ricerche sul campo prodotte in ambito europeo, insieme a quelle di James A. Beckford e di Farhad Khosrokhavar.

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L'ora d'aria nella Casa Circondariale di San Vittore, a Milano. Foto di Elena Brenna.

Nel libro Rhazzali documenta come i carcerati musulmani, "sepolti sotto il triplice stigma di musulmani, stranieri e criminali," spesso si rapportino alla dimensione religiosa "come l'unica risorsa capace di garantire un punto di vista e un principio interpretativo utile a elaborare un significato per la propria condizione." La pratica religiosa, inoltre, "diviene il nucleo attorno al quale si produce una resistenza del carcerato nei confronti dell'istituzione totale."

Allo stesso tempo, però, il discorso generale che si fa fuori dal carcere – con tutto il suo carico di stereotipi e definizioni univoche dell'islam – inevitabilmente si ripercuote al suo interno.

"Per certi versi, nella carceri ritroviamo in miniatura i tratti essenziali del mondo esterno," dice Rhazzali a VICE News. "Molti dei discorsi che circolano correntemente all'esterno, vi si riproducono, a volte, in misura accentuata. Vale a dire, stereotipi e pregiudizi che sono diffusi all'esterno, nel carcere si ingigantiscono nello spazio della prigione."

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"La pratica religiosa diviene il nucleo attorno al quale si produce una resistenza del carcerato nei confronti dell'istituzione totale."

Paradossalmente, scrive Rhazzali ne L'islam in carcere, "diventare l'incubo dell'Occidente, dopo essere stati accusati per tanto tempo di esserlo, può finire per essere una soluzione che conferisce un'identità falsificata ma paradossalmente sicura."

Tuttavia, nella vita quotidiana i soggetti riescono comunque ad andare al di là dello stereotipo e delle categorizzazioni imposte dall'esterno. "Sono delle persone vicine alla radicalità delle posizioni ma al contempo abbastanza lontane, perché sanno giocare con i propri Self e il proprio milieu identitario," afferma Rhazzali.

Un detenuto a San Vittore. Foto di Elena Brenna.

Per vari motivi comunque, tra cui anche la scarsa rilevanza delle filiere jihadiste sul territorio, in Italia "fortunatamente sino ad oggi non si sono registrati eventi particolarmente preoccupanti tali da far pensare alla concreta presenza di nuclei stabilmente organizzati, in corrispondenza a un qualche progetto complessivo."

L'ascesa dell'ISIS, inoltre, non sembra aver avuto un impatto molto rilevante sulla popolazione carceraria. "La stragrande maggioranza dei detenuti musulmani appare poco propensa a condividere le proposte dell'estremismo jihadista e del militarismo dell'ISIS," spiega il docente, "mentre i pochi che potrebbero farsene attrarre avvertono come nel carcere sarebbe altamente probabile che nello spazio del carcere sarebbero facilmente intercettati dall'intelligence che vi opera con una certa efficienza."

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Piuttosto, continua Rhazzali, all'interno del carcere potrebbero determinarsi processi di radicalizzazione "come risposta ai disagi della condizione carceraria, quali il generale sovraffollamento e le difficoltà organizzative che rendono precaria la fruizione di diritti formalmente riconosciuti."

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A questo proposito, dunque, si manifesta sempre di più "l'importanza dell'assistenza religiosa e spirituale ai musulmani - e non solo - come supporto indispensabile alla creazione di circoli virtuosi nei quali si sviluppi uno sforzo di elaborazione esistenziale e culturale della condizione del carcerato, alternativo ad una cultura del risentimento che costituisce nelle sue molteplici varianti l'humus nel quale tutti gli estremismi sono soliti piantare i loro semi."

Lo scorso novembre il DAP ha siglato un protocollo d'intesa con l'UCOII (Unione delle Comunità ed Organizzazioni islamiche in Italia) proprio per "favorire l'accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari."

Nel documento si menziona il fatto che 52 istituti dispongono di "un locale adibito a sala preghiera," mentre in 132 "il culto è esercitato nelle stanze detentive o in locali occasionali a causa delle carenze strutturali." Tuttavia, nelle carceri accedono solo 14 imam, 39 mediatori culturali e 28 assistenti volontari — una presenza che lo stesso ministero riconosce come assolutamente "esigua" per la richiesta dei carcerati.

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Immagine dal rapporto Le moschee negli istituti di pena.

Come spiega Rhazzali – che cita anche dei programmi di "rieducazione" e di prevenzione alla radicalizzazione violenta implementati in Marocco e Tunisia – le potenzialità dell'assistenza religiosa in carcere sono molto elevate "proprio nella prospettiva di un'efficace azione di contrasto nei confronti della propaganda jihadista. Non soltanto perché le tradizioni teologiche islamiche sono in palese conflitto con lo pseudo-islam di queste formazioni, ma perché può, se praticata da guide competenti e adeguatamente formate, offrire le basi per un'esperienza nella quale la ricerca di un'affermazione della propria identità prenda non l'aspetto del conflitto, ma di una ricerca costruttiva di senso."

Insomma, afferma il sociologo, "la reazione più efficace nei confronti della minaccia del proselitismo estremista nelle carceri potrà avvenire soprattutto in collaborazione con le comunità musulmane d'Italia, se queste verranno sostenute nel loro tentativo di dare vita un islam effettivamente italiano, alternativo all'identificazione di questa religione con una scelta fondata su di un'autorappresentazione identitaria chiusa e risentita".

"La reazione più efficace nei confronti della minaccia del proselitismo estremista nelle carceri potrà avvenire soprattutto in collaborazione con le comunità musulmane d'Italia."

Una parte del problema deriva dal fatto che le esperienze di ricerca e di elaborazione teorica maturate nel nostro paese, sostiene Rhazzali, "filtrano in misura assai limitata nel dibattito pubblico e nel confronto politico, dove predominano formule retoriche, al di là di ogni altra considerazione, letteralmente inutili ai fini di una comprensione dei fenomeni in corso."

Conseguentemente, prosegue il sociologo, "al volume cospicuo dell'attenzione mediatica, finisce per corrispondere molto poco sul piano delle azioni concrete. Ciò limita le possibilità presenti in una situazione nella quale i direttori delle carceri e il DAP mostrano consapevolezze e abilità che - se adeguatamente sorrette da politiche pubbliche lungimiranti e coerenti - potrebbero presto portare a risultati importanti."

Dopotutto, affrontare la radicalizzazione violenta nelle carceri non è un'impresa così insormontabile. "Basterebbe solo applicare le leggi che già ci sono," conclude Rhazzali, "e avere anche altri obiettivi, che possono essere la cultura (ad esempio destinare più risorse alle biblioteche e ai programmi sull'intercultura), i diritti di libertà, e magari qualche carcere in più per evitare il sovraffollamento."

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Tutte le fotografie pubblicate in questo articolo sono di Elena Brenna.

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