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Eliminare la violenza un uomo alla volta

Intervista ad Alessandra Pauncz, la fondatrice del primo centro dedicato al recupero di uomini maltrattanti.

Chiunque abbia l'abitudine di guardare un sito di news al mattino avrà notato che un giorno sì e uno no viene riportata la notizia di un caso di violenza sulle donne, nella stragrande maggioranza dei casi compiuto da un marito, un fidanzato, o un ex. Questo avviene in un Paese in cui non esiste un osservatorio nazionale sulle violenze di genere e in cui il 14 percento degli uomini all'interno di una relazione commette violenze fisiche e psicologiche sulla propria partner. Cercando di capire come fosse possibile tutto questo, ero entrata in contatto con la Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna, l'unico centro a compilare un report annuale sulle violenze e i femminicidi italiani basandosi esclusivamente sulle notizie riportate sui giornali, considerato che (ed è il caso di ribadirlo) non esistono dati ufficiali. Sono state le responsabili del centro a parlarmi del CAM, Centro d'Ascolto per uomini Maltrattanti, di Firenze, la prima associazione che in Italia si è occupata di rispondere a una domanda che molte vittime fanno quando arrivano in un centro anti-violenza: perché nessuno fa nulla per il vero problema, cioè lui? Alessandra Pauncz ha fondato il CAM nel 2009 dopo 15 anni di esperienza in un'associazione di sostegno per le donne vittime di violenza—ha anche scritto un manuale che aiuta le donne a riconosce e cambiare una relazione violenta. Dopo aver collaborato con alcuni progetti dedicati al recupero di uomini maltrattanti, ha deciso di aprire il primo centro italiano a Firenze, con un partenariato della ASL. Dal 2009 a oggi sono stati aperti altri centri in tutta Italia, ma continuano ad essere sconosciuti ai più. Abbiamo parlato con la dottoressa Pauncz per capire cos'è questo centro, come è fatto un uomo maltrattante e cosa si può fare per recuperarlo. Perché credere che questi uomini non cambieranno mai come vivessero in una canzone di Mia Martini non aiuta nessuno, soprattutto le vittime.

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VICE: C'è stato dello scetticismo da parte delle persone che avete cercato di coinvolgere nel vostro progetto?
Alessandra Pauncz: Sì, c'era all'epoca e c'è tutt'ora. Ci sono delle persone entusiaste del progetto, mentre altre dicono: perché dobbiamo impiegare le risorse per chi agisce le violenze, se tanto poi non cambieranno mai?

Prima di questi centri, se un uomo maltrattante capiva di avere un problema cosa faceva?
Si rivolgeva a uno psicologo, uno psichiatra, oppure si andava dal medico di medicina generale. Il processo era questo: un uomo che perpetra violenza faceva una richiesta d'aiuto non esplicita, che andava interpretata e approfondita, invece il medico gli dava qualcosa per dormire dicendo che non era lui il problema e lo rispedivano a casa. C’è da aggiungere l’idea comune che gli uomini che agiscono violenza non chiedono aiuto. Perché il loro problema è un problema di agire per tenere il controllo la relazione, il loro comportamento è funzionale a quello che vogliono ottenere e non cambiano. E questo è un pregiudizio che continua.

Può spiegarci qual è il percorso che fate al CAM?
Gli uomini ci chiamano e poi fanno cinque colloqui individuali con un operatore. Quando termina questo ciclo iniziale, vengono iscritti in un gruppo che dura circa un anno e insieme fanno incontri a cadenza settimanale di due ore. Il percorso è quindi molto lungo rispetto alla media dei programmi tradizionali, secondo noi i tempi del cambiamento non si hanno in quattro mesi, che ci sia bisogno di più discussione e confronto tra di loro in modo tale che emergano meglio le idee che hanno, i loro vissuti, altrimenti poi il cambiamento rischia di essere superficiale.

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Quindi in questi casi funziona meglio il gruppo della terapia individuale?
Direi proprio di sì. Ci sono poi tipi di lavoro individuali e c'è la possibilità di lavorare in individuale, ma è più difficile. Ci sono anche casi particolari, ma generalmente il gruppo è più indicato. I colloqui individuali hanno la funzione, da una parte, di rilevare l'entità della violenza, della pericolosità. In questi colloqui iniziali noi firmiamo le liberatorie per contattare i servizi sociali e la partner.

Immagino che non tutte le persone che vengono da voi siano per forza fidanzate o sposate.
La maggior parte sì. Nel caso in cui non lo fossero, chiediamo il riferimento della vittima.

Non ci sono persone che vengono a livello, come dire, preventivo?
No. Non ancora, quanto meno.

Quindi di solito arrivano con già degli episodi di violenza alle spalle?
Gli uomini che arrivano da noi hanno tra i 35 e i 55 anni, hanno un coinvolgimento serio in una relazione di sei/otto anni, anche attorno ai dieci anni. Hanno figli. Sono persone che vengono quasi sempre per salvare la relazione. Ci sono diversi elementi che possono costituire un momento di crisi, in cui si comincia a fare una richiesta d'aiuto. In molti casi è un ultimatum della compagna che dice, “O fai qualcosa o io me ne vado.” Oppure sono sull'orlo di una separazione. Oppure è intervenuto qualcuno dall'esterno, la polizia o i vicini.  Oppure hanno agito una violenza superiore a dei limiti personali che si erano messi, nel senso che al di sotto di una certa soglia per loro stessi non era percepibile come violenza. Oppure qualcosa relativa a un disagio dei figli, oppure ci sono state delle conseguenza non intenzionali della violenza—lui le ha tirato uno spintone, lei ha battuto contro uno spigolo e ha avuto bisogno di farsi mettere dei punti in pronto soccorso, quindi quello che per lui non era percepito come una violenza, da quel momento in poi viene percepito come tale.  C'è sempre qualcosa di abbastanza critico in atto. Raramente vengono uomini che hanno solo agito violenza psicologica. Ne abbiamo qualcuno, ma non sono tantissimi.

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Come mai avete pochi casi di uomini che usano solo violenza psicologica? Forse perché è più difficile da percepire?
Nella nostra esperienza, loro vengono spinti da un episodio di violenza fisica, ma il nostro percorso è lungo proprio perché prima che riescano a individuare anche la violenza psicologica, ci vuole abbastanza tempo.

Questi uomini fanno parte di una determinata classe sociale, hanno un particolare background, storie familiari di padri violenti nei confronti delle madri o situazioni comuni nel passato?
No. Sono abbastanza differenziati. Le classi sociali sono trasversali. Le famiglie di origine sono molto disomogenee, non c'è un fattore comune. In letteratura si dice che c'è una correlazione tra l'aver assistito alla violenza del padre sulla madre, da bambino. Nei casi in cui nella famiglia d’origine non c’è violenza, la cosa si fa più complessa.

Si tratta di uomini violenti in senso generale?
Non tutti, qualcuno sì. Magari si tratta della tipica persona che non vorresti mai tamponare in macchina. Altri no. Abbiamo sia gli uomini che sono genericamente violenti, sia quelli che lo sono solo nella relazione affettiva.

E per quale motivo un uomo è violento con la propria compagna?
È davvero complesso delineare un'unica causa. Io potrei dirle qual è la loro percezione del perché arrivano a picchiare la loro compagna. Oppure potrei darle una risposta più sociologica, o psicologica, e ciascuna di queste, singolarmente presa non sarebbe corretta. Loro parlano del percepirsi vittime delle loro compagne…

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Mi può spiegare meglio che cosa si intende per "vittima"?
Vittima delle loro critiche, della loro mancanza di riconoscimento o della loro necessità di organizzare la vita familiare. È difficile capire solo dal loro racconto qual è l'estensione del loro problema. Se parli con qualsiasi uomo, sono abbastanza sicuro lui comincerà a fare una lista dei motivi per cui sono vittime.

Come il classico sketch dell'uomo succube della moglie, della suocera e tutto quanto.
Esatto, secondo me c'è un nodo importante che andrà in qualche modo affrontato, perché credo sia alla base di atteggiamenti marcatamente anti-femminili. Comunque, c'è questa percezione che uno si stia solo difendendo perché viene attaccato. Vero o falso che sia.

Ma le è capitato di parlare con qualche compagna che si è dimostrata effettivamente aggressiva?
Preferirei non rispondere. È una risposta che potrebbe essere usata contro di me.

Capisco, ma in ogni caso c’è un elemento delle relazioni che fa sentire “alle strette” questi uomini?
Io credo che dovremmo parlare della difficoltà degli uomini a gestire le relazioni con le compagne perché le compagne sono un passo avanti, perché sono capaci di parlare, di argomentare, di esprimere le proprie emozioni, di pretendere certe cose nel rapporto. Comunque, se si prende solo un elemento del rapporto, si fatica a dare una risposta esaustiva.

Quindi la gelosia di cui tanto si parla, spesso non c’entra.
La gelosia è un fattore di rischio. Gli uomini che sono anche gelosi, possono essere più pericolosi, perché la loro percezione di essere autorizzati a fare violenza o a giustificare una violenza può aumentare, ma non è l'unica ragione e non è neanche la principale.

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In che modo le partner entrano nel lavoro che fate al CAM?
Sono tre contatti telefonici. Nel primo, spieghiamo come funziona il nostro lavoro per l'uomo che si è rivolto a noi. Chiediamo degli episodi di violenza, e invitiamo la donna a rivolgersi al centro anti-violenza. Se percepiamo una situazione di rischio le diamo un feedback perché è importante che lei provveda alla propria sicurezza, indipendentemente da quello che fa il compagno. Se le succede qualcosa siamo sempre aperti a sentirla, ma non usiamo mai le informazioni prese da lei per i colloqui con l'uomo, anche se è lei a richiederlo. Perché potrebbe essere un elemento di disturbo. È chiaro che sapendolo, sappiamo dove andare a parare. Quello che invece viene fuori dagli incontri individuali e dalla terapia di gruppo è coperto da privacy. Non possiamo comunicare nulla alla donna. Se lei ci chiama nel periodo in cui il compagno è da noi e chiede, "Come lo vedete? Ma secondo voi è cambiato?" noi di solito rispondiamo, "È come lei lo vede. Se lei non lo vede cambiato, non è cambiato."

In ogni caso la persona vive a casa sua durante il trattamento?
Dipende da cosa succede nella relazione. Alcuni si separano nel corso del progetto. A volte sono situazioni molto critiche, con i due già separati. Nel momento in cui gli uomini interrompono la violenza, le donne decidono di andarsene. Dipende dai casi. Noi contattiamo la donna in altri due casi. Se c'è una situazione di pericolo. O se gli uomini interrompono il percorso, perché quello che succede è che vengono per tenere calme le acque, per tranquillizzare la partner e poi lasciano il percorso senza dirglielo.

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In quale percentuale gli uomini interrompono?
Nella prima fase del percorso il 50-60 percento delle volte gli uomini smettono di partecipare. Mentre quelli che accedono alla fase di gruppo arrivano tutti in fondo.

Secondo lei perché così tante persone lasciano i colloqui?
Perché chiedere aiuto non significa essere motivati al cambiamento. Questa è un'ingenuità che facciamo sempre sia con le vittime sia con gli autori. Pensiamo che se qualcuno chiede aiuto è anche motivato a cambiare. È un percorso difficile per gli uomini. Alcuni pensano di arrivare e fare come hanno fatto con i loro terapeuti, parlare per dieci anni a vanvera senza cambiare niente.

Quanti si sono già sottoposti a psicologi o terapeuti?
Parecchi hanno fatto terapie di coppia, mediazioni, terapie individuali, analisi. Almeno il 20 percento. Quasi tutti hanno già fatto una richiesta d'aiuto con psicologi, psichiatri, medici almeno una volta. Alcuni hanno proprio fatto dei percorsi di analisi. Avranno capito molto di loro stessi, ma non hanno interrotto la violenza.

E voi cosa fate per risolvere il problema?
Ce le inventiamo tutte! Abbiamo delle tecniche psicologiche, discussioni in cui cerchiamo di definire il termine violenza. Ci sono dibattiti sulle esperienza del singolo, giochi di ruolo per aumentare l'empatia nei confronti della partner o dei figli. Mano a mano che si va avanti con il gruppo, gli uomini sono sempre meno guidati e quando gli uomini cominciano a dare meno colpa alla compagna, a fare dei progressi lungo quell'asse, poi diventa uno scambio reciproco di esperienze, di osservazioni. E quindi si attiva il concetto dell'autoaiuto. Uno ha i suoi tempi e può assorbire determinati concetti anche senza essere sollecitato sempre. Si riconoscono l'uno nell'altro, vedono i risultati degli altri uomini e si dicono le cose a partire dalla loro esperienza, senza che venga calato dall'alto. C'è poi un valore simbolico: si tratta di uomini che parlano delle loro esperienza, di emozioni, che si sostengono a vicenda. È un lavoro per scoprire una mascolinità diversa.

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Immagino che molte di queste persone non siano abili a trattare con i propri sentimenti.
Assolutamente, hanno una sorta di analfabetismo affettivo.

Parlando della terapia sulle vittime, lei se ne è occupata per 15 anni. È cambiato qualcosa rispetto a quando ha iniziato? Sia nelle terapie, che nell’approccio delle vittime.
Stanno aumentando di anno in anno le donne che si rivolgono ai centri anti violenza, quindi è aumentata sia la conoscenza di questi servizi, sia la percezione che questo sia un problema. Si è anche abbassata l’età media delle donne che chiedono aiuto, così come il numero di anni di violenze subite. Prima le donne si rivolgevano ai centri dopo 10-12 anni di violenze.

Secondo lei cosa ha permesso questo cambiamento?
La percezione del fenomeno nel paese è cambiata drammaticamente negli ultimi 10 anni. Il punto di svolta fondamentale è stato il rapporto ISTAT del 2007 sulla violenza domestica, la violenza sessuale, la percezione rispetto al reato, era un rapporto molto approfondito e che per la prima volta ha messo i numeri sotto gli occhi dell’opinione pubblica.

Ma questa eco è servita sia alle vittime che ai maltrattanti?
C’è un discorso più ampio da fare: se da una parte diciamo che c’è un alto livello di connivenza sociale, che gli uomini non capiscono, pensano di avere diritto, dall’altro c’è comunque l’idea che l’uomo che picchia le donne e i bambini è un vigliacco, un infame. Quindi alcuni processi di negazione che fanno questi uomini, “L’ho solo sfiorata, non le ho fatto nulla,” dipendono da questa grande vergogna che loro hanno per quello che hanno fatto. La maggior parte degli uomini che picchia le proprie compagne sa che sta facendo del male, chiaramente questa cosa è aumentata con la comunicazione. Ormai non credo ci siano uomini che usano violenza sentendosi a posto con la coscienza.

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In ogni caso, aumentano gli uomini che si affidano a voi?
Dal 2009 a oggi si sono rivolti a noi circa 165 uomini. Nei primi tre anni erano domande che arrivavano anche dal centro-nord e dal centro-sud, non erano solo dalla Toscana. Negli ultimi due anni invece è aumentata tantissimo la richiesta sul territorio. Noi attualmente abbiamo tre gruppi, due che stanno ancora facendo il percorso, l’altro di follow-up: a fine terapie, ci si incontra ancora una volta al mese.

Le sembra che ci sia abbastanza comunicazione di questo tipo di terapia?
No, la maggior parte delle persone non sanno neanche che esistano. Ci vorrebbe però anche una comunicazione diversa rispetto alla violenza.

Ecco, le volevo chiedere se le sembrano efficaci le campagne che vengono fatte attualmente.
Sono un disastro. Intanto bisognerebbe fare una riflessione su a chi sono rivolte e che cosa vogliono ottenere, perché secondo me sono inefficaci sia sugli uomini che sulle donne. Le donne perché sono spesso dipinte come Vittime con la V maiuscola, schiacciate dalla situazione, e questa è una immagine difficile in cui se le donne non sono proprio alla frutta non si riconoscono. E gli uomini men che meno, perché non sono rivolte a loro. Noi abbiamo lavorato con i maltrattanti per  riflettere sulla comunicazione che viene fatta, e abbiamo lavorato su degli spot, ci stiamo muovendo per fare qualcosa.

Quale potrebbe essere un tipo di comunicazione efficace?
Deve essere una comunicazione che parla dell’esperienza quotidiana delle persone, che avvicina la violenza, non che fa apparire chi agisce violenza un mostro e chi la subisce come “predestinato” a quella violenza. Ci sono i casi estremi, ma anche le persone che arrivano sulle cronache, e poi parli con le persone coinvolte ti parleranno delle difficoltà, della paura di perdere la compagna, cose di questo tipo. Bisogna parlarne cercando di inserire gli elementi comuni a tutte le relazioni e mostrare cosa va storto, cosa non va, come funziona, far fare degli esercizi pratici per riconnettersi a dei valori che permettano di fare scelte, perché il problema della violenza è che crea confusione.

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Ho visto l'opuscolo di auto-aiuto sul sito del CAM, e tra le citazioni di uomini maltrattanti che parlano della loro situazione, il primo era di uomo che diceva: “Io pensavo di vivere una vita normale, finché la mia compagna non mi ha detto che le usavo violenza.” Come è possibile che non se ne rendesse conto?
Guarda, hai visto che c’è anche un test sul sito per capire se sei un maltrattante? Non hai idea di quante persone ci mandano la mail dicendo: “La mia compagna mi ha detto di fare questo test, ho risposto di sì a più di quattro domande, ma secondo me io non sono violento. Aiutatemi a capire.”

Ma come fanno a non vedere la violenza?
Secondo te, un uomo che quando è arrabbiato butta per terra un oggetto, si ritiene violento?

Se non aveva l’intenzione di fare del male a qualcuno direi di no.
Se sbatte una mano sul tavolo?

Non credo.
E se tira un pugno all’armadio?

Be’, forse lì sì.
Non è detto. Ci sono gradazioni di comportamenti in cui la persona dice, “No assolutamente, io ho colpito l’armadio.” La maggior parte degli uomini ce l’ha nelle sue corde di essere così, molti si controllano, ma da lì a percepirsi violento è un altro discorso. Spingere qualcuno, spintonare, è un gesto violento? Quante volte anche le donne spintonano mentre discutono. Bisogna pensare che c’è una gradualità, non è che si parte da una discussione banale e si arriva subito a pugni e calci. Una gradualità in cui si finisce per alzare sempre di più l’asticella di quello che è accettabile. Magari prima è alzare la voce, poi offendersi, poi spaccare qualcosa, poi tirare un oggetto, e uno piano piano si abitua. È più facile che uno pensi di andarsene quando lui tira il primo schiaffo, un classico. Poi i due parlano, “Mi spiace, non so che mi è preso, è una cosa che mi fa schifo, però devi capire…” Lì l’asticella si è già alzata.

Quindi non si inizia mai con un episodio esplosivo.
No. Anche perché siamo fatti così, non è che riusciamo a superare il limite di colpo, lo facciamo gradualmente. Per questo è difficile che una vittima se ne renda conto subito, prima fa passare una cosa, poi un’altra, spesso si rimane peggio per alcune cose che vengono dette piuttosto che per i comportamenti… È complesso.

La violenza sessuale invece è un elemento presente in queste dinamiche di coppia?
In tutta onestà, non le so rispondere. La percezione degli uomini di imporre rapporti sessuali non desiderati c’è in una piccola percentuale, intorno al dieci. Negli altri casi è un tema su cui dobbiamo riflettere, non viene fuori da loro e noi non lo abbiamo ancora affrontato bene.

Come mai?
Diciamo che la difficoltà nell’affrontarla viene fuori dal fatto che non emerge da loro, non è percepita. Perché sono situazioni in cui hanno insistito finché non sono riusciti a ottenere un rapporto, e le compagne stesse non chiamano questa una “violenza sessuale”. Cedono, come potrebbero cedere molte donne all’interno di una relazione di lungo termine. All’interno della relazione coniugale è più difficile la percezione, a parte in certi casi in cui c’è un’imposizione forte ed è chiaro sia agli uomini che alle donne. In molti altri casi siamo al limite, e lì è più complicato arrivarci: tu non eri presente, lui dice che non era violenza sessuale, lei neanche. Bisognerebbe fare un lavoro molto più approfondito sulla sessualità maschile e femminile, altro che l’anno di lavoro.

Segui Chiara su Twitter: @chialerazzi