Fantaghirò e cinema horror: sul set di un film a caso con Lamberto Bava

FYI.

This story is over 5 years old.

A12N1: Tanta carne al fuoco

Fantaghirò e cinema horror: sul set di un film a caso con Lamberto Bava

Abbiamo incontrato uno dei registi che hanno reso famoso l'horror italiano nel mondo, e ha affrontato l'unico esperimento riuscito di fantasy televisivo all'italiana.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Lamberto Bava è quel tipo di interlocutore con una propensione per gli aneddoti, le digressioni inaspettate e l'ironia di cui staresti a sentire i racconti per ore, affondato nel divano del salotto. Stiamo appunto parlando seduti su un morbido sofà bianco, in una saletta con al centro un tavolino da tè, quando a un certo punto lui si irrigidisce, smette di massaggiarsi il pizzetto aguzzo, e guarda l'orologio. "Quanto tempo abbiamo ancora? Perché qui mi sa che se ne vogliono andare tutti." Mentre lo dice guarda un tecnico, che riannoda nervosamente il filo di una luce di scena.

Pubblicità

Allora mi ricordo che non siamo in un vero salotto, ma in uno degli ambienti di un teatro di posa di Cinecittà, dove Bava ha appena finito di tenere una masterclass per gli studenti della Roma Film Academy, e mi accorgo che il fotografo, l'addetta stampa e i tecnici del teatro ci stanno fissando con insistenza. Gli ultimi 40 minuti sono passati troppo velocemente, ma il problema è che il flusso di pensieri di Bava si lega alla dinastia cinematografica più longeva del nostro cinema—che con suo figlio Roy è arrivata alla quarta generazione—e l'elastico fra i ricordi di una famiglia che ha fondato il cinema di genere in Italia è praticamente infinito.

Bava, oltre a essere uno dei registi che hanno reso famoso l'horror italiano in tutto il mondo con film come Demoni, Demoni 2, Macabro e Ghost Son e aver affrontato l'unico esperimento riuscito di fantasy televisivo all'italiana con Fantaghirò, è anche il nipote di Eugenio Bava—celebre direttore della fotografia che ha introdotto il concetto di effetto speciale nel nostro paese—e soprattutto il figlio di Mario, che il cinema horror italiano lo ha letteralmente inventato.

Bava ha una venerazione quasi talmudica per il padre, che ricorre continuamente nei suoi ragionamenti, ma forse se l'uomo che vi ha generato fosse lo stesso che ha lanciato quasi tutte le sfumature del cinema di genere italiano—gotico, poliziesco, pulp, e slasher—ha ispirato il nome dei Black Sabbath ed è stato riconosciuto come punto di riferimento da gente come Christopher Lee, Quentin Tarantino, Martin Scorsese, e John Carpenter, sareste riverenti anche voi.

Pubblicità

"Io in realtà non avrei mai pensato di fare il regista nella vita, il vero genio era mio padre. Ho studiato legge, e l'idea iniziale credo fosse proprio di aprire una produzione per permettergli di girare i film che voleva, senza dover rendere conto a nessuno. Era un uomo dalla curiosità infinita, che amava gli scrittori russi ma mi chiedeva in prestito i fumetti, e credo che in questo senso l'horror sia stata quasi un'induzione più che una propensione. Mio padre ha semplicemente girato le storie che lo colpivano, e in questo processo gli è capitato di ideare figure iconiche che poi sono entrate nell'ABC del cinema: ad esempio la soggettiva del killer in Sei Donne per l'Assassino," dice ridendo.

Nonostante questo, Bava ebbe l'opportunità di fare da assistente al padre in Terrore nello Spazio— ad oggi l'unico film fantascientifico italiano di qualità, i cui particolari hanno ispirato Ridley Scott nella realizzazione di Alien—per poi dirigere alcune scene di Schock, l'ultimo lungometraggio di Mario Bava, di cui lui stesso aveva scritto il soggetto.

"La verità, semplice e diretta, è che da giovane gli horror classici, quelli ottocenteschi con i vestiti di scena e i vampiri, mi facevano un po' ridere. Poi li ho rivalutati. Ma all'epoca ho cercato di andare oltre quello che aveva fatto mio padre. Schock ad esempio era un film più moderno, con caratterizzazioni e una retorica differenti."

Pubblicità

Il film che poi lo ha reso celebre in tutto il mondo, Demoni, è un horror con una cifra stilistica completamente diversa rispetto agli horror del padre, più popolare e anni Ottanta, in cui l'ironia e la metanarrativa hanno un ruolo importante—l'espediente di far accadere ai protagonisti le cose che loro stessi hanno visto al cinema, ad esempio, con un rimando continuo al confine che esiste fra contenuto e spettatore.

Questo risultato fu ottenuto anche grazie all'incontro con un altro titano del cinema horror italiano, che poi divenne il produttore di Demoni. "Quando avevo otto anni andavo al cinema quasi ogni pomeriggio, con mio fratello e la sua fidanzata dell'epoca, e con noi in sala c'era sempre questo ragazzetto che si metteva da solo nelle prime file a vedere il film. Restava sempre per conto suo. Dopo un po' di volte chiesi alla ragazza di mio fratello se sapesse chi era. 'È il fratello minore di una ragazza che frequenta il mio stesso liceo,' mi disse, 'si chiama Dario Argento'. Fu la prima volta che lo vidi."

Anni dopo Bava e Argento si rincontrarono sul set di Schock, la cui protagonista era Daria Nicolodi, la compagna di Argento, e da lì nacque un sodalizio che portò a un successo enorme: "Negli ultimi 15 anni mi è capitato di visitare le convention horror di moltissimi paesi, e all'estero ci riconoscono come veri e propri maestri. Una volta negli Stati Uniti mi si è presentato davanti un energumeno, e ha iniziato a spogliarsi. Inizialmente ho avuto paura, ma poi mi sono accorto che voleva solo mostrarmi il tatuaggio che aveva sul petto: la locandina di un mio film."

Pubblicità

Questo bagaglio è quello che ha poi permesso a Lamberto Bava di avere successo portando in televisione un genere fino ad allora mai tentato in Italia, il fantasy. "Mi ero rotto un po' le scatole di girare film con ragazze bellissime rincorse da uomini con i coltelli," ride, "così ho pensato che se fossi riuscito a portare in televisione un genere che piaceva a me, il fantastico, avrei avuto molti più spettatori e sarei riuscito a fare qualcosa di mai visto."

Ma Fantaghirò non ha affatto rappresentato uno strappo netto all'interno della produzione di Bava: "Il primo film che ho visto al cinema è stato Bambi, e ricordo che mi dovettero portare fuori dalla sala perché alla morte della mamma di Bambi sono scoppiato a piangere. Alla fine, se uno ci pensa, Bambi è un horror. Nelle favole c'è sempre una componente molto forte di paura. Quando ho ideato Fantaghirò, quindi, ho pensato di raccontare una storia del genere. Non a caso il mio preferito è Fantaghirò 3, il più horror di tutti. La cosa che mi colpì, poi, di questa fiaba, era il concetto della ragazza che per imporre la propria personalità deve travestirsi da uomo. E infatti Romualdo non sa se si è innamorato di un uomo o di una donna…alla fine Fantaghirò è la storia di un travestito. Questa componente dualistica, nonostante fosse un po' sopra le righe per quei tempi, funzionò tantissimo."

Uno degli aspetti laterali che ha reso famoso l'horror della famiglia Bava all'estero, e grande Fantaghirò in Italia, è quello degli effetti speciali. Lamberto è stato spesso affiancato da Sergio Stivaletti, ma questa tradizione quasi artigianale gli è stata tramandata direttamente da suo nonno e poi da suo padre—che addirittura durante la Seconda Guerra Mondiale lavorò per l'Istituto Luce manipolando filmati di propaganda su finte vittorie dell'esercito italiano.

"Uno dei miei primi ricordi in merito è il salotto di mio nonno trasformato in laboratorio, con tavoli da disegno e altri marchingegni per creare gli effetti speciali. In un angolo c'era una piccola asse di legno per me, e lui e i suoi assistenti creavano continuamente. Ma le intuizioni più grandi le aveva mio padre. Diceva sempre: 'Per fare un grande effetto speciale la prima cosa a cui pensare è la facilità'. Una volta ad esempio per un film chiamato Caltiki: Il mostro immortale, di cui curava la fotografia, lui e il macchinista uscirono per comprare della trippa. Inserita all'interno di piccolissimi modellini e mossa dalla mano del macchinista ecco che la trippa prendeva vita e diventava un mostro unicellulare. Il punto è che c'erano metodologie di illuminazione e ripresa che rendevano tutto questo possibile: mio padre a 14 anni sapeva già caricare una macchina da presa, sapeva quale effetto avevano i vari obiettivi. Ho ancora una vecchia Mitchell 35 mm che lui chiamava 'mia zia'. È la conoscenza del mezzo e della tecnica che ti permette tutto il resto."

Durante la masterclass e il nostro incontro, Bava si è soffermato più volte sulla scomparsa di questo tipo di 'artigianato cinematografico' che ha reso grande il nostro cinema in passato. E di come questo abbia anche contribuito a cancellare il pubblico che seguiva il cinema di genere in Italia. "Sui set di Dario Argento, ad esempio, avevi la sensazione di fare qualcosa che aveva un valore, che la gente avrebbe apprezzato. C'era un pubblico fedelissimo, che quando usciva un film di Dario andava fuori di testa. Ricordo l'uscita di Zombie, un film prodotto da Dario, al cinema Metropolitan di Roma, che adesso è chiuso ma all'epoca era il primo cinema della città, con tre gallerie. La gente durante la proiezione si calava da una galleria all'altra, e a un certo punto sono stato costretto a scappare perché c'erano dei ragazzi che staccavano un termosifone dal muro. Non so che fine abbia fatto questo tipo di pubblico, oggi l'Italia è il paese in cui si va di meno a vedere questi film, forse sono diventati tutti spettatori di commedie."

Una dinamica che, secondo Bava, si lega poi alla scomparsa della figura dei produttori e all'epoca in cui gli unici editori possibili erano diventati RAI e Mediaset: "È una situazione che si rispecchia in tante cose nel nostro paese. Negli anni Sessanta andavi all'estero e non c'erano le autostrade: le nostre erano le più belle in assoluto. Oggi hanno tutti autostrade più belle delle nostre. Fiumicino era il più bell'aeroporto del mondo, oggi forse è quello che fa più schifo," mi dice mentre si alza e mi saluta.

Foto di Jacopo Farina/Contrasto. Segui Niccolò su Twitter.