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I rohingya non interessano a nessuno

Nonostante il riconoscimento di popolo tra i più perseguitati al mondo, i musulmani di etnia rohingya della Birmania continuano a essere massacrati.

Musulmani rohingya denunciano la loro persecuzione, immagine per gentile concessione di Save the Rohingya.

Diversi giorni fa, l'hashtag #RohingyaNOW è balzata sulla vetta dei trending topic di tutto il mondo. Se il significato non vi è stato subito chiaro o non seguite l'account Anonymous che ha contribuito al successo della campagna su Twitter, evitate di sentirvi troppo in colpa—malgrado sia stato dichiarato uno dei “popoli più perseguitati” al mondo, raramente i media si sono occupati delle sofferenze della comunità birmana di musulmani rohingya.

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I rohingya sono una minoranza musulmana che ha le sue radici nello Stato di Rakhine—una zona che ha in comune con India e Bangladesh molti tratti etnolinguistici—ed è stanziata in Birmania, nazione prevalentemente buddista. Nonostante tutta la tiritera del buddismo consista nel raggiungere l’illuminazione attraverso la pace, una parte consistente della popolazione birmana sembra condividere gli ideali di dittatori sanguinosi più che del Dalai Lama. Infatti, secondo manifestazioni che alcuni non esitano a bollare "neo-naziste", i buddisti estremisti aspirano a un Paese etnicamente puro e non si preoccupano di attaccare e uccidere sistematicamente i rohingya per raggiungere quell'obiettivo.

Jamila Hanan ha fondato Save the Rohingya dopo i massacri avvenuti in Birmania a giugno e ottobre dell’anno scorso. Da allora, diffonde via Twitter e Facebook report sui rohingya, e si rapporta con la popolazione e agli operatori delle Nazioni Unite, Human Rights Watch e Medici Senza Frontiere. Ha portato alla luce prove che suggeriscono come finora i rohingya abbiano passato di tutto— campi di concentramento, decapitazioni, stupri e privazione di cibo—senza che qualcuno si sia mosso per salvarli.

All’inizio di questa settimana, Jamila ha saputo da uno dei suoi contatti rohingya che l’esercito birmano ha visitato il suo villaggio e ha detto loro che “i terroristi attaccheranno, e questa volta non possiamo aiutarvi, quindi preparatevi e basta.” Ciò significa fondamentalmente che grosse bande di birmani stanno progettando di attuare un genocidio di massa ai danni della comunità rohingya (che conta circa 800.000 componenti) e che l’esercito prevede di non fare nulla in proposito. Jamila ha avviato l’hashtag sui rohingya, scatenando una mobilitazione Twitter tale da costringere il mondo a farci caso, e ora l'ho contattata per conoscere a fondo la situazione.

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Un giovane rohingya porta i segni di una sparatoria organizzata da buddisti durante le violenze del giugno 2012. Foto di Dougal Thomas.

VICE: Ciao Jamila. Cos’è successo questa settimana? C’è stato un nuovo inasprimento delle violenze nei confronti dei rohingya?
Jamila Hanan: Il 20 marzo c’è stato un attacco nella città di Meiktila, chiaramente architettato per scatenare un massacro molto più grande. Il mio contatto in Birmania mi ha raccontato del fatto: una coppia buddista è andata in un'oreficeria di proprietà di un musulmano e c’è stata una discussione a proposito della vendita di oro finto. La coppia se n’è andata ed è tornata con una grossa folla che ha cominciato ad attaccare il negozio. Abbiamo dei filmati che mostrano una folla di quasi 1.000 persone che osserva gli aggressori e fa il tifo per loro.

Sì, ha un che di premeditato.
Già, in mezzo alla folla ci sono degli ufficiali che li incitano con degli altoparlanti. Era tutto organizzato. Si è sparsa la voce che un monaco buddista abbia anche perso la vita, ma nessuno ha visto cadaveri o sa come è stato ucciso e da chi, quindi la notizia potrebbe essere stata diffusa per istigare la violenza. Il musulmano proprietario del negozio è stato arrestato. Nessun arresto tra i monaci, invece, anche se sono stati loro a provocare l’attacco.

Una donna rohingya e il figlio in una clinica. Malgrado sia stato allestito un certo numero di cliniche nei campi rohingya, le cure scarseggiano. Il personale medico locale è infatti costantemente sotto minaccia degli attivisti buddisti. Foto di Dougal Thomas.

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Cosa è successo dopo quell’attacco?
Il caos completo. I buddisti hanno distrutto moschee, villaggi e scuole e hanno brutalmente attaccato e massacrato i musulmani, incluse donne e bambini—gli hanno tagliato la testa in strada (foto NSFW). Gli attacchi sono cominciati anche a Yangon, più a sud; si diffondono a macchia d’olio.

E anche quelli non sono una casuale sequenza di attacchi, giusto?
No, gli attacchi sono organizzati, risultato della propaganda e dei discorsi pieni di odio dei monaci. La polizia non fa nulla per proteggere i musulmani a parte raggrupparli in massa e metterli sotto controllo. Vicino a Meiktila, in uno stadio di calcio sono stati radunati all’incirca 9.000 rohingyas, in una situazione da campo di concentramento. Non è, come affermano alcuni, un campo per rifugiati, perché non sono rifugiati; sono persone deportate all’interno del loro stesso Paese.

Una dei sei rohingya a cui la polizia ha sparato, all'interno del campo per rifugiati di Thay Chaung. Foto per gentile concessione di Save the Rohingya. 

I buddisti sono tutti anti-rohingya?
Be’, molti dei buddisti di Meiktila hanno aiutato i musulmani—e non solo i musulmani rohingya; la violenza si è diffusa fino a interessare chiunque sia musulmano ora—e hanno rischiato la vita nel farlo, quindi ora sono molto turbati dalla situazione. Dicono che sono arrivate delle persone dall’esterno, non sanno chi fossero, ma è girata la voce che questi monaci aggressivi non siano dei veri monaci, o che sono persone diventate monaci molto di recente e che si vestono da monaci. C’è anche un certo numero di sicari.

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E da chi sono pagati? Il governo ha a che fare qualcosa con loro?
Be’, è sempre più chiaro che c’è un legame col governo perché quest’ultimo non ha fatto nulla per proteggere i musulmani. Nulla. Il fatto che non abbia ordinato l’arresto di nessun monaco e che la sua risposta mediatica si basi su menzogne—sostengono che le violenze siano dovute alle tensioni faziose tra musulmani e buddisti—entrambi che c'è un coinvolgimento, oltre a un notevole livello di organizzazione.

Raza Miah, un cinquantacinquenne del villaggio di Than Taw Li, aspetta che venga distribuito il riso. Agli abitanti dei villaggi è stato negato l’aiuto da parte dell’amministrazione locale e non hanno ricevuto cibo per 29 giorni. Foto di Dougal Thomas.

Perché stanno cercando di eliminare i rohingya?
È per "purificare" il Paese e fare spazio allo sviluppo economico che i rohingya bloccano. A Sittwe, dove vivono molti dei rohingya, c’è un oleodotto in costruzione per portare il petrolio dal Medio Oriente in Cina, quindi stanno cercando di liberarsi di loro per fare largo al denaro. In più c'è quest’ideologia della razza pura; pensano che i musulmani siano una minaccia, quindi sfruttano l’islamofobia per bollare i rohingya come terroristi, anche se non c’è assolutamente nulla che suggerisca che sono estremisti o altro.

Allora perché il resto del mondo non fa nulla?
Credo che il silenzio della comunità internazionale abbia a che fare con gli accordi petroliferi e altri contratti di affari nella zona. Ogni governo vuole essere amico della Birmania, quindi non cominceranno a pretendere il rispetto dei diritti umani—tutto quello a cui si interessano sono i 30 accordi per il petrolio che dovrebbero essere avviati questo mese. I rohingya sono soltanto uno spiacevole inconveniente per loro, ma si spera che ora che abbiamo mostrato al pubblico le loro difficoltà qualcosa cambierà.

Tu lo hai fatto attraverso i social media. Pensi che sia possibile utilizzare questo strumento per fermare la violenza?
Sì, mi sto muovendo esclusivamente attraverso i social media. C’è un vero e proprio genocidio all'orizzonte, a meno che ci sia un intervento immediato. Quindi quello che stiamo cercando di fare in rete è creare un movimento talmente grande che le autorità saranno semplicemente convinte a fare marcia indietro. Potrebbero ripensarci, perché ora abbiamo così tante prove del loro coinvolgimento che sarebbe rischioso procedere. È la nostra unica possibilità.