FYI.

This story is over 5 years old.

A8N1: Diavolo di un satanasso

Le emanazioni di Shiva

Fare offerte a Bali a un'entità che forse non si trova lì.

Ho un amico di nome Anthony che ha studiato calligrafia in Cina. L’ultimo giorno del corso, prima di distribuire gli attestati, il maestro tenne un discorso molto sincero e parecchio offensivo: disse che nessuno degli allievi di quella classe avrebbe mai dovuto dire che era stato lui il suo maestro. Disse che farlo sarebbe stato come indicare la propria merda il giorno dopo aver mangiato una cena deliziosa in un ristorante a cinque stelle, e fare il nome dello chef. Dico questo all’inizio dell’articolo per giustificare il fatto che sarò un po’ riluttante nel parlare di questo viaggio a Bali e dei motivi per cui l’ho fatto. Nel senso che sì, sono buddista, ma non voglio dire il nome del mio maestro, perché non sono proprio una studentessa modello. In ogni caso, l’estate scorsa teneva un corso in California, e durante il pranzo, il terzo o il quarto giorno, le persone gli facevano domande informali su questioni riguardanti le proprie vite. Eravamo seduti sull’erba–un gruppo di circa 40 persone su 400 frequentanti–e lui si era accomodato su una panchina. Un giovanotto disse che stava per partire per l’Asia e chiedeva consigli su che Paesi visitare. “Il Marocco, Shanghai… poi l’India.” Una donna cinese all’incirca della mia età–ho 35 anni–chiese come avrebbe fatto a trovare un compagno, e il maestro, invece che rispondere, rigirò la domanda a uno dei suoi studenti anziani, che disse: “Non devi essere tu a scegliere. Quando scegli tu, vedi, spaventi gli uomini, Dovresti solo aspettare quello che ti capita.” A me sembravano delle fesserie hippy, e quando il maestro alzò lo sguardo, roteai gli occhi. Lui sostenne il mio sguardo per un secondo, e io capii che voleva dire che era un buon consiglio, che quello che l’altro aveva detto era vero. Poi aggiunse, in tono pacato: “Dovresti andare a Bali e portare offerte a…” Non capii a chi. Parlava con la donna cinese, mica con me. Volevo alzare la mano e chiedere, “Chi?” ma mi vergognavo. Un paio di mesi dopo, contattai la segretaria del mio maestro e le dissi che stavo partendo per Bali per offrire doni a una divinità, sulla base di quello che avevo sentito dire quel giorno–e che VICE mi aveva commissionato questo articolo da scrivere e che sarei partita in tre giorni–ma non ero sicura di quale fosse la divinità in questione. Lei rispose che avrebbe chiesto. Ero in Corea che cambiavo aereo, quando ricevetti una sua mail. La risposta era solo una parola: “Shiva.” Ecco, penso che questo aneddoto possa dirvi quanto io sia poco affidabile nel dare spiegazioni su qualsiasi cosa, figuriamoci su una religione complicata. Ma cercherò di spiegarvi quello che ho capito del buddhismo. L’idea principale, per quel che ne so, è di svegliarsi–di smetterla con la continua illusione. E per “illusione” intendo guardare qualcosa che non è vero e pensare che sia vero. E, per il buddhismo, ogni cosa è tale. Non solo gli arcobaleni e i sogni, tutto. Questo non vuol dire che un giorno, se mai vi svegliaste senza più illusioni, tutte le cose come le conoscete sparirebbero, e voi sareste circondati da un’aura di luce, ma piuttosto, per fare solo un piccolo esempio, che il modo con cui guardereste alle forme cambierebbe definitivamente. Per farti progredire verso il risveglio, i maestri usano qualsiasi mezzo a loro disposizione. Un metodo efficace per fare breccia in una mente pigra e cosiddetta scettica è il “credere”. Badate che questa è solo la mia interpretazione, ma per smatellare una forma mentis soddisfatta di ciò che già sa, arrogante, che accetta ogni cosa che le sia stata introiettata e scambia questa accettazione acritica per scetticismo, un maestro può introdurvi una credenza superstiziosa. Questa persona le prenderà come punto fermo nelle sue elaborazioni successive, distruggerà il suo scetticismo, e solo a quel punto il maestro dirà, “Oh, ma dai, non ci crederai davvero?!” E questo processo può continuare ancora e ancora, eliminando strato per strato le credenze dure a morire, fino a che non resta più nulla. E credo che sia per questo principio che mi sono trovata su un aereo che atterrava a Bali all’una di notte. Avevo uno spostamento organizzato. C’erano circa tre ore di strada per arrivare al primo tempio, chiamato Pura Ulu Danu Bratan. L’avevo scelto cercando un tempio dedicato alla divinità indù Parvati, ma, per puro caso, si è rivelato essere uno dei maggiori templi di Shiva. Ci sono un tempio più grande per la divinità del lago e del fiume, Dewi Danu, e un tempio più piccolo per Shiva e Parvati. Al tempio più piccolo si arriva solo in barca. All’interno, si trovano statue di Shiva, Parvati, e del Buddha. Avevo visto in internet delle foto della zona, ed ero certa che sarei riuscita a comprare dei fiori da offrire al tempio. Ma non avevo dormito un granché, e non riuscivo a pensare con chiarezza. Una volta entrata, mi accorsi che non c’erano posti per comprare fiori, e il tempio più piccolo, quello dedicato a Shiva–di solito raggiungibile in barca–era irraggiungibile a causa dell’acqua troppo bassa. Stavo sulla riva guardando il santuario dall’altra parte delle acque, chiedendomi cosa avrei potuto fare. Il tempio era a meno di dieci metri dal punto in cui stavo in piedi, ferma. Una donna della mia età, ma più bassa di 30 centimetri buoni, mi si avvicinò. Mi stava porgendo una macchina fotografica, e io feci per prenderla, pensando che mi stesse chiedendo di farle una foto. Scosse la testa–ovviamente–e mi ritrovai a stare in posa con le sue zie per molti scatti. Sorridevo persino. Quando le foto finirono, la ragazza mi ringraziò, e io dissi: “Posso farti una domanda? Il tempio, si può raggiungere?” Rispose di sì. Le chiesi come, e fece un gesto vago con la mano. Le dissi “Incamminati con me e fammi vedere,” e lei rifece daccapo lo stesso gesto, indicando la sponda del fiume, disse “Non c’è di che,” e se ne andò. Laggiù, nel punto che lei aveva indicato, in piedi nel fango all’ombra del tempio, un gruppo di ragazzini si erano levati le scarpe, e pescavano. Discesi l’argine di fronte a loro, e osservai il fango in cui avevano camminato. Era il letto del fiume, visibile a causa della secca. Pensando che mi sarei infangata tutti i piedi ad attraversarlo, sospirai e feci il primo, riluttante, passo. Affondavo fino alle ginocchia. Per caso, durante il volo, avevo letto un articolo su uno scrittore che era andato in Maine a passare un po’ di tempo con dei cercatori di vermi. L’articolo era corredato da molte scene raccapriccianti, in cui lo scrittore si ritrovava intrappolato nel fango e pensava di morire–c’era dentro fino alle anche, e forse sentiva il risucchio del fango sotto i talloni. Comunque, era ancora un’immagine fresca nella mia mente, quindi, piuttosto che fermarmi e farmi prendere dal disgusto, continuai a camminare, affondando fino al ginocchio a ogni passo, verso l’altra sponda del fiumiciattolo e la scaletta che di solito, durante la piena, sorgeva dall’acqua. La risalii fino al tempio. Avevo con me un paio di offerte che mi ero portata da casa: una sacca di seta contenete delle pietre semi-preziose e un iPod su cui avevo caricato qualche album di St. Vincent, che io ammiro molto, la considero la donna perfetta, perché non si dispiace di mostrarsi vulnerabile. Sono cresciuta con l’idea che nessuna donna dovesse farsi prendere per il culo da un uomo. È un’idea che credo di aver avuto fin da piccola, e anche se qualcuno si arrabbierà, non mi interessa, io penso che sia sbagliato. Credo che la vera forza di una donna sia la sua vulnerabilità, e tutti quei discorsi da dure che ho sentito, negli editoriali e nei film sulle donne forti e sui loro rapporti con gli uomini, mi confondono. Parlando di St. Vincent e della vulnerabilità femminile, mi riferisco in particolare alla versione live della canzone “Marry Me”, che spesso ascolto a ripetizione su Youtube. Penso che lei abbia capito tutto. Non avevo nient’altro con me, ma cercai di metterla giù in questo modo, riguardo alle offerte che portavo: forse avrei potuto offrire la storia del mio primo amore, della prima volta che davvero mi sono lasciata andare in amore. Mi sedetti e raccontai questa storia sull’innamorarsi della persona sbagliata, e sull’avere il cuore spezzato… O, per lo meno, ci pensai tra me e me, e poi mi dissi “Perché non la racconti davvero?” “Non saprei.” “È una bella storia.” Tornai indietro e trovai il mio autista, e tornammo in albergo. Il giorno dopo, il mio autista e io ci accordammo per visitare molti altri templi più piccoli, e poi andare fino al tempio più grande di Bali, a Besakih. Ma la mattina, mentre lo aspettavo, parlando con il gestore dell’albergo, gli dissi che ero a Bali per portare offerte a Shiva, e lui mi disse che in quel caso, dovevamo assolutamente raggiungere un piccolo tempio sulla cima della montagna al di là della dorsale. Me la indicò, dall’altra parte della catena più vicina, la seconda montagna più alta di Bali–solo un triangolino nero in lontananza. Non parlava bene inglese, quindi può essere che io abbia frainteso, ma mi sembrò che dicesse che la montagna era un ling e che il lago sottostante era una yoni. Non me ne intendo di questa roba, ma so per certo che ling significa “pene,” e che yoni significa “vagina”. In ogni caso, dalle sue parole sembrava un posto da visitare assolutamente, quindi dissi “Va bene, ci vado.” Lo lasciai davvero di stucco. Mi aiutò a cercare una guida locale, e mi ripeté un paio di volte “Il tempio è molto semplice.” Insistette perché prendessi un pranzo al sacco dalle cucine dell’albergo, offerto da lui, e biascicò qualcosa su una caverna che raggiungeva le viscere della terra, e di come rappresentasse la visione indù del cerchio della vita. Credo che abbia anche detto che questa grotta, nella cosmologia indù, rappresentava il centro del mondo, ma non è che capissi bene quello che diceva, quindi, per lo più, mi limitai ad annuire, confusa. Avevo ripetuto più e più volte al mio autista che era assolutamente imprescindibile che ci fermassimo a comprare dei fiori. Tuttavia, anche quando vidi un paio di baracchini sul ciglio della strada, non dissi nulla. Pensai che avesse un piano. Raggiungemmo la fine della strada asfaltata: era il momento di lasciare il mio autista e inforcare la motocicletta della mia giovane guida, e allora il mio autista si voltò e mi chiese: “Hai comprato i fiori?” Avrei voluto rispondergli “Che cazzo dici? Te l’avevo detto, che dovevo comprarli,” invece, emisi una sorta di “Nooooo…” “Be’… Puoi prenderne qualcuno lassù. Lui ne ha.” Avrei dovuto fare qualcosa, dopo aver fatto tutta questa strada solo per recare offerte, ma ero completamente attonita. L’albergatore mi aveva detto che l’escursione sarebbe durata un’ora e mezza, ma, durante il viaggio, il mio autista mi disse che in realtà le ore sarebbero state sette. Ero a Bali. Ero disorientata. Quindi salii sulla moto e ci dirigemmo su per il crinale. La mia guida avrà avuto forse vent’anni. Aveva addosso una felpa con il cappuccio a quadri rossi e si era infilato i lacci dentro le scarpe. Quando giungemmo alla fine della strada polverosa, parcheggiò il suo mezzo di fianco a una baracca ed ebbe un rapido scambio di battute con il proprietario. Poi ci incamminammo a piedi. Dopo tre chilometri circa, giungemmo a un sentierino. Si trovava alla nostra sinistra, e si inerpicava su per la montagna. A destra c’era un campo, dove un ragazzino vestito di iuta mieteva fiori blu con una falce. La guida mi disse qualcosa indicando il ragazzo. Io annuii, grata, dando per scontato che avremmo comprato dei fiori. Lui parlò con il bambino, che andò a prendere un altro ragazzo, che ci condusse al sentiero. Lo so, anche stavolta, avrei dovuto dire “Ehi, io voglio comprare dei fiori.” Certo, nessuno parlava inglese, ma avrei potuto spiegarmi a gesti. Invece, seguii i due ragazzi su per il sentiero. Dopo forse un chilometro, il ragazzino indicò un punto, lui e la guida parlottarono un po’, io gli diedi qualche soldo, e lui se ne tornò indietro. Non posso dire che successe qualcosa degno di nota, una volta giunti in cima. Il tempio, osservandolo a 500 metri di distanza, era circondato da templi più piccoli, praticamente invisibili, e non ci fermammo a nessuno. La mia guida aveva portato delle piccole offerte floreali tradizionali balinesi, e, dal momento che non avevo null’altro, io offrii il mio pranzo a pezzetti–prima una banana, poi un’arancia, poi la macedonia, poi le frittelle di riso, e infine il panino al formaggio. Ad ogni tappa, pregavo per la stessa cosa: Fa’ che io trovi un uomo. Fa’ che io sia circondata di attenzioni maschili. Voglio un figlio. Cose così. Il tempio più grande aveva una piccola statua leonina che non aveva più volto, ma aveva una sciarpa di seta intorno alla vita. Penso che questo leone fosse il protettore del tempio, e di fianco a lui c’era Shiva–un dipinto adornato da un drappo di tessuto. Ci fermammo a pregare lì, poi continuammo per la cresta della montagna, giù per un sentiero così ripido che dovetti scenderlo camminando all’indietro, a quattro zampe. Scendemmo così per circa sei metri e poi ci fermammo a un albero avvolto in un tessuto a scacchi bianchi e neri. Da quel punto vedevo una grotta. Era spettacolare, ma la mia guida non mi fece andare oltre il tessuto. Pensava addirittura che sarei fuggita, infatti mi teneva con fermezza per mano e diceva “Non si fa.” Non so se fosse perché non ci si debba avvicinare o perché sia pericoloso, ma rimanemmo lì a guardare, e poi risalimmo, e di nuovo, per qualche istante, ci sedemmo davanti all’altare e pregammo. Lì seduta, pensai “Ma lo voglio davvero un uomo?” Al momento, non riuscii a fare a meno di pensare che la risposta fosse no. Sono una persona strana e solitaria, e non so come gestire una relazione. Il giorno dopo, intrapresi il pellegrinaggio più lungo, portando offerte ai due templi minori e poi salendo al tempio più grande di Bali, il Tempio Madre di Pura Besakih. Stavolta, costrinsi l’autista a portarmi al mercato, dove comprai le offerte da portare. L’autista cercò di aiutarmi a scegliere un cesto. Ne prese uno di dimensioni modeste, come un piatto da portata, ma gli dissi che ne volevo uno più grande. “No,” rispose. “Non hai bisogno d’altro.” Ero esasperata. Mi cadde l’occhio sul più grande cesto in vendita. Non ero nemmeno sicura che fosse fatto per le offerte (più tardi scoprii che sì, lo era). Dissi, “Tre di questi.” Impiegammo circa un’ora a comprare frutti e fiori per riempire le ceste. Ce n’era abbastanza da riempire l’intero bagagliaio, eppure feci la mia bella faticaccia per far sembrare le ceste floride. Portammo le offerte ai primi due templi, poi, lungo la strada per l’ultimo, chiesi all’autista di fermarsi a un baracchino che vendeva mango, e ne comprai circa dieci chili. Quando giungemmo al parcheggio di Pura Besakih, riempii per bene la mia ultima cesta. Ci misi i mango, un’anguria, un paio di ananas–e poi fiori, torte, e piccoli frutti. Era incredibilmente pesante, e, mentre ci dirigevamo al tempio, l’autista e la guida locale mi dissero che avrei avuto bisogno di aiuto per trasportare il cesto su per le scale. Mi dissero anche che non avrei dovuto tenerlo in mano, davanti a me, ma metterlo in equilibrio sulla testa. Non mi piace per niente far portare agli altri le mie cose. E poi, non mi sembrava che i miei doni fossero belli come avrei voluto, quindi parte della mia offerta poteva consistere nel trasportarli da sola. Credo di aver portato il cesto su per cinque rampe di gradini di pietra. Il cielo era coperto, e minacciava pioggia. Entrammo in un padiglione di pietra, dove si svolgeva una cerimonia. La guida mi diede istruzioni perché appoggiassi il mio cesto contro una cappella di pietra in fondo a sinistra, ma il celebrante mi vide e disse alla guida di farmi sedere accanto a lui. Tutta la gente in attesa–circa 75 persone–aveva portato offerte, molte in cesti come il mio, ma nessuno aveva cesti così pesanti. Con un cenno, vennero avanti–erano tutte donne–e portarono i loro cesti su per una scalinata che conduceva al tempio di Shiva. Ognuna portava la sua cesta fino alle scale e poi tornava indietro, e quando venne il mio turno, feci lo stesso. Un’aiutante del tempio, una donna vestita di bianco da capo a piedi, si avvicinò e iniziò a frugare nel mio cesto, ma il mio autista la fermò. Il mio autista mi chiese: “Non vuoi tenere nulla per te, vero?” E io risposi di no, allora la donna mi diede una manciata di frutta, giusto un paio di frutti, da mangiare in seguito, come benedizione. Fui cosparsa per tre volte di acqua santa e di riso, applicato sulla fronte e sul petto, e me ne diedero un paio di chicchi da mangiare. E io pregai, o meglio, pensai “Voglio un marito. Voglio un figlio. Fa’ che mi piovano uomini dal cielo.” E venne il tempo di andare. Sapete, per l’ultima notte avevo organizzato di dormire nella dependance per gli ospiti di una donna che viveva a metà strada tra il tempio di Pura Besakih e l’aeroporto. Prima che partissi, durante il nostro scambio di email, le avevo raccontato un po’ del mio progetto. Era prima che avessi risposta dal mio maestro, quindi le avevo detto che avrei recato offerte alla “divinità dell’amore.” Allora mi invitò a partecipare insieme a lei a una cerimonia locale, durante la quale avrei potuto incontrare una dea in terra. La cerimonia si svolgeva in un piccolo villaggio a circa 45 minuti da Ubud, in uno spazio circondato da muri di pietra, con due patii quadrati divisi da un corridoio stretto. Un patio aveva attorno dei palchetti dove ci si poteva sedere, sotto le tipiche coperture balinesi, in stile pagoda. Uno di questi palchi, sulla sinistra, aveva il pavimento piastrellato ed era riservato agli ospiti d’onore, i Bramini di rango superiore. L’altro, sulla destra, era di cemento e più esposto alle intemperie. La gente del luogo stava lì, seduta, insieme a un gruppetto di donne con delle gonne rosa e dei sarong abbinati. Erano, come scoprii più tardi, una band–era una cosa speciale, un gruppo di sole donne, per celebrare l’ospite d’onore. Lei, l’ospite d’onore, era una donna di 25 anni nata nel villaggio. Aveva avuto una vita ordinaria. A 21 anni, aveva lasciato Bali per cercare lavoro a Singapore, ma non ero riuscita a ottenere neanche un colloquio. Era tornata a Bali ed era caduta in depressione. Suo padre–un modesto prete locale–si era impietosito e aveva iniziato a insegnarle un po’ di quello che sapeva. In breve tempo, così mi dissero, la ragazza iniziò a scivolare in profondi stati di trance, durante i quali comunicava con gli dei. Le divinità le dissero che la sua vita terrena era giunta a termine, e che da quel momento, il suo compito sarebbe stato di agire come strumento divino. La sua missione, in breve, era di salvare il mondo. Questa storia, mi dissero, fu accolta piuttosto scetticamente. A Bali, una società induista, i Bramini sono soggetti elitari, per usare un eufemismo, e pensarono che facesse acqua da tutte le parti. Ma la esaminarono, e lei sapeva rispondere a qualsiasi domanda sulle dottrine, e conosceva tutti i mudrã, i gesti simbolici. Mi fu anche detto–e questo mi lasciò un po’ interdetta–che parlava 11 lingue, di cui una era chiamata Astra. Me lo sono sognata? Penso di essermelo sognata, ma credo che mi abbiano detto che è il linguaggio delle stelle. E quindi ci trovavamo in questo posto, ed erano circa le sei di pomeriggio. La mia ospite aveva colto, credo, dalla mia espressione e dalla mia postura che stavo tollerando la situazione con benevolenza, e ne fu a tal punto irritata, che cominciò ad attaccarmi. Disse che progetti come il mio, da quando era uscito il libro Mangia, prega, ama, erano all’ordine del giorno. Risposi: “Non l’ho mai letto, quel libro,” e le raccontai del mio botta e risposta californiano. Mi spiegò che “Non appena il libro uscì, vedevi ovunque donne che camminavano per Ubud tenendolo sotto il braccio, dicendo ‘Ho appena letto un libro pazzesco,’ e noi dicevamo ‘Sì, lo sappiamo, lo sappiamo.’” “Non l’ho mai letto.” Disse, “Solo perché Elizabeth Gilbert ha trovato un uomo a Ubud, tutte le donne single del mondo pensano che venendo qui, matematicamente lo troveranno anche loro.” Qualcuno si aggirava porgendo delle piccole tazze da tè, addolcito da sciroppo. Un gallo si aggirava tutto impettito per il cortile. Non era lontano, il suo tempo. Una parte del rituale includeva un sacrificio, e, non per essere schizzinosa, ma avrei preferito non saperlo. Fino a quel momento, io e un’altra donna eravamo le uniche ospiti non balinesi, ma quando cominciò ad avvicinarsi l’ora dell’inizio della cerimonia, molti altri occidentali arrivarono. Tutti vestiti di bianco. Uno aveva un tatuaggio sulla fronte, il simbolo del terzo occhio. Mary mi spiegò che gestiva un’agenzia di viaggi che organizzava tour in Mongolia, Tibet, Bhutan. Lo sentii rivolgersi a un suo amico mentre alla ragazza del villaggio, che quella sera riceveva il grado più alto per i Bramini–alta sacerdotessa–veniva posta attorno alla vita una treccia di velluto. L’uomo diceva: “Quei cristalli sono nuovi? È davvero luminosa, stasera.” Tra i locali c’era un uomo carismatico. Sembrava uno figo. Non era, in nessun modo, bello, ma era molto curato. A differenza degli altri ospiti, che vestivano per la maggior parte in bianco, era vestito di scuro, grigio antracite, quasi nero, e il sarong gli cadeva a pennello. Quando Mary se ne andò, si sedette sulla sedia accanto alla mia, e si presentò. “Mi piacciono i tuoi occhiali,” gli dissi. “Oh, questi… Li ho presi in Francia nel 1991.” Mi raccontò di averli comprati a una sfilata di John Galliano. Disse che quando li aveva comprati, e ne aveva comprate tre paia, aveva sostituito le lenti–che erano verdi–con delle lenti che viravano all’arancione, come quelle dei piloti. E che in seguito, quando Galliano aveva visto le lenti, aveva detto che aveva fatto una buona scelta, e che arancioni stavano meglio di verdi. Parlava un sacco. Mi disse che era uno psichiatra, che aveva studiato in Alabama, e poi mi parlò di una sua ricerca sulla neuro-meccanica che gli aveva garantito una posizione come consulente al Dipartimento della Difesa. Mi portò a vedere le offerte, che erano impilate dal pavimento al soffitto, e riempivano una stanza intera, e poi tornammo alle nostre sedie. Sul trono che dominava il padiglione, la cerimonia era cominciata. L’uomo con gli occhiali, a cui ci si doveva rivolgere con il nome di Gusti–nome che gli era stato dato dal Bramino locale–si girò verso uno degli occidentali che sedeva dietro di noi e gli disse “Riesci a sentire l’energia?” e l’altro rispose che la sentiva. Poi Gusti si girò verso di me: “E tu, tu riesci a sentire l’energia?” Io gli dissi di no. Mi prese la mano, “Ti aprirò la via,” disse, e mi chiese di respirare profondamente. Obbedii. Facemmo parecchi respiri in questo modo, e poi: “E adesso?” mi chiese. Mi spiacque dirgli che non era cambiato nulla. Più tardi mi dissero che era conosciuto per essere un grande sostenitore della sacerdotessa, e quando io gli dissi così, vidi che era un po’ arrabbiato, ma non voleva irritarmi, quindi se ne andò dicendo semplicemente “Be’…” La cerimonia includeva canti e salmodie. La sacerdotessa sedeva dandoci le spalle. Aveva una bellissima schiena e dei modi bellissimi–i suoi movimenti erano così particolari. Era dritta come un fuso, ma non rigida. I suoi movimenti erano veloci, allenati, come quelli di un ballerino del tutto sicuro del proprio corpo, in piena forma, leggiadro. Quando lasciò cadere un fiore, quello scivolò lontano dalla sua mano prima che io potessi accorgermi che lei aveva fatto un movimento. Eppure, ancora, non sentivo nulla. Gusti tornò dopo circa un’ora e si risedette vicino a me. Indicò qualcuno dei Bramini seduti nell’ala sinistra della platea: “Dovresti fare loro una foto. Sono del suo stesso grado, ma sono vishnuiti, è per questo che sono così dimessi.” Mi limitai ad annuire vaga, del tipo “Sì sì, va bene,” così che me lo ripeté. E di nuovo, me lo disse un paio di volte ancora, così che tirai fuori la mia fotocamera, e insieme ci alzammo, per raggiungere una postazione da cui fare qualche foto. Continuava a ripetermi la storia che erano vishnuiti, e allora, all’improvviso, una domanda mi sorse spontanea. Mi volsi a lui, e chiesi “ Con che divinità è connessa, lei?” “Shiva.” Chiesi “Qual è il suo rapporto con Shiva?” E lui rispose “Questo te lo deve spiegare lei, è molto complicato.” Forse la mia espressione aveva qualcosa di soddisfacente, che a Gusti piaceva vedere in chi parlava con lei, perché aggiunse “Lei è Shiva e Buddha messi insieme.” A quel punto, mi venne la pelle d’oca, e–se non fino al giorno dopo–per lo meno fino a notte inoltrata, ebbi la sensazione di essere in presenza di qualcosa di terribile e di ultraterreno, e pregai, con ardore, perché questa donna mi aiutasse a trovare un uomo. Dopo essere tornata da Bali, ho frequentato un seminario di sceneggiatura alla Seattle Film School. Uno dei miei compagni si è preso una gran cotta per me, e per ben due volte è venuto a lezione con una maglietta con Shiva dipinto a colori sgargianti. Il suo indirizzo mail era sydart@-----.com [sic]. Gli ho detto che non mi interessava. Lui mi ha detto di essere sposato. Un altro dei miei compagni sembrava proprio gay, fino a che ha raccontato una storia di mezz’ora su quando a tredici anni aveva avuto una faccenda di sesso violento con una ragazzina. Ha detto che pensavano che lei fosse rimasta incinta, e in un eccesso di isteria adolescenziale, lui aveva cercato di farla abortire prendendola a pugni finché il feto non fosse uscito. Me ne sono innamorata per le successive 24 ore. Che sguardo di fuoco. Gli ho detto “Fammi sentire il tuo odore,” e lui si è avvicinato e ha aperto la camicia. Puzzava di umanità. Un paio di giorni dopo, un giovane barista molto attraente in un locale vicino a casa mia mi ha chiesto di tornare venerdì, e che mi avrebbe insegnato a giocare a domino. (Mentre scrivo, è domenica. Sarò lì, venerdì.) Vivo con mia mamma e non conosco quasi nessuno a Seattle, così ho fatto un paio di profili online sui siti di appuntamenti. Dopo un paio di giorni rinuncio, ogni volta, perché i siti di appuntamenti sembrano essere frequentati solo dalle comparse delle scene di folla durante le partite e nei grandi magazzini. Non capirò mai perché ci siano così tanti uomini che parlano come la televisione. Avevo conosciuto un tipo in rete che non era come gli altri, con cui mi sentivo via telefono. Era estroverso e pure bello, sfrontato e pieno di vita. Ci tenevamo in contatto, ci scrivevamo messaggi e compagnia bella, ma entrambi avevamo paura di vederci di persona. Ho iniziato a scrivere un racconto su noi due, ambientato in un internet caffè a Hong Kong. Lei–io, direi–aveva 16 anni ed era un po’ in sovrappeso, e lui aveva 40 anni, ed era un malato, sempre seduto alla stessa postazione, giorno e notte. Gli ho mostrato la bozza. Ero certa che avrebbe pensato che ero matta, ma non l’ha fatto. Ha detto che voleva vedere come andava a finire. Gli ho detto che la verità era che i personaggi dovevano incontrarsi; e non riuscivo a scriverlo. Mamma era fuori città, quindi gli ho detto di venire da me. Era alto, largo di spalle, e con l’addome leggermente appesantito, cosa che mi fa impazzire in un uomo. Era bello, e aveva una voce morbida, ma profonda. Mi ha parlato di cose insolite, come di quando ha visto gli alieni. Ha prodotto una spiegazione molto ragionevole del fatto che esistano, e del perché non visitino la Terra. “Forse invece lo fanno,” ho ribattuto. “Forse prendono forma umana.” “Sì, ci ho pensato,” ha detto. “Forse anche io sono uno di loro.” “E tutto questo è un ologramma? Se lo è, vorrei che tu me lo dicessi ora, ma per favore non mostrarmi il tuo vero volto, se fa paura.” Ho dovuto mantenere la calma e non contattarlo per un paio di giorni dopo questi fatti, perché ho sentito dire che non è cosa buona che un ragazzo sappia quanto ti piace.