Marco Gualazzini fotografa il paese più pericoloso del mondo

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Contrasto

Marco Gualazzini fotografa il paese più pericoloso del mondo

Marco Gualazzini conosce bene l'Africa: dal 2011 a oggi è stato in Mali, Congo, Sudan del Sud, Somaliland, e da qualche tempo a questa parte ha iniziato a occuparsi di Somalia, uno dei paesi più inaccessibili del mondo.

Mogadiscio. Un uomo porta uno squalo in equilibrio sulla testa. Si teme che l'incremento di pesca di frodo da parte di navi straniere in acque somale possa portare a nuovi scontri. Le acque nazionali vengono sfruttate da pescherecci di frodo da tempo, con conseguenze terribili sull'economia locale. Tutte le foto di Marco Gualazzini/Contrasto.

Contrasto è il punto di riferimento per il fotogiornalismo in Italia. Da 30 anni rappresenta alcuni dei migliori fotografi e fotoreporter italiani ed esteri, oltre a diverse agenzie internazionali come la Magnum. Quella che state leggendo è la seconda stagione della rubrica in collaborazione tra Contrasto e VICE Italia, in cui intervisteremo alcuni dei nostri fotogiornalisti italiani preferiti per farci raccontare le storie e le scelte dietro il loro lavoro. In questa puntata abbiamo raggiunto Marco Gualazzini, che nel corso del suo lavoro da fotografo si è concentrato sull'Africa e le sue ombre.

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Marco Gualazzini è stato in tutti i posti dove vorrei andare io—ma non è solo per questo che l'ho intervistato. Dopo l'università e un lento apprendistato alla Gazzetta di Parma, nel 2009 Gualazzini è andato prima in Etiopia e poi in Congo, nel Kivu. Era a Bukavu mentre 3.000 soldati ruandesi passavano il confine da Goma, a nord, per sconfiggere le milizie FDLR e catturare il loro capo Laurent Nkunda. "È stato un bel battesimo del fuoco," mi ha detto, "se conosci l'Africa sai di che parlo."

Lui l'Africa la conosce bene. Dal 2011 a oggi è stato in Mali, Congo, Sudan del Sud e Somaliland. Da qualche tempo a questa parte ha iniziato a occuparsi di Somalia, probabilmente uno dei paesi più inaccessibili del mondo, sicuramente il più pericoloso del mondo per i giornalisti.

Il suo primo progetto nel continente africano riguardava il rapporto tra religione, stregoneria e malattia mentale nell'est del Congo, dove esiste un solo ospedale psichiatrico e chi soffre di malattie mentali viene spesso considerato un indemoniato. Ma si è anche occupato di sfruttamento minerario, guerra e conflitti vari. L'ho chiamato per parlare del suo progetto in Somalia, della sua visione della fotografia e dei rischi del mestiere.

Baidoa. Le forze di sicurezza di Abdirashid Abdullahi Mohamed (governatore della regione Bai, in Somalia) pattugliano l'area intorno al palazzo del presidente, ormai distrutto.

VICE: Prima di cominciare, come sei arrivato a occuparti di fotografia?
Marco Gualazzini: Mio padre era un giornalista e in famiglia si è sempre respirata quest'atmosfera. Per cui si può dire che in parte me ne sono occupato fin da subito, anche se non è che volessi seguire le sue orme o mettermi in competizione con lui. Ho iniziato a interessarmi di fotografia all'università grazie a un mio professore, e da lì ho cominciato a lavorare per il quotidiano della mia città, la Gazzetta di Parma, occupandomi di cronaca spicciola. È stata una bella palestra: ero appassionato di fotografia, l'avevo studiata, ero convinto di saperne anche se non avevo mai scattato una foto ma poi nella pratica non sapevo cosa fare.

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E poi, dopo aver lavorato lì per sei anni, sei andato per la prima volta in Africa. Come mai ti sei appassionato a questa parte di mondo?
Non te lo so dire, diciamo che ci sono un po' inciampato. Ricordo che quando ci sono andato per la prima volta mi sono trovato a guardare fuori dalla finestra del mio albergo ad Addis Abeba pensando, "Ah, l'Africa." C'era questa parola che mi riempiva la bocca.

Poi era un po' un momento di crisi per il fotogiornalismo, in cui bisognava diversificare cercando delle storie da approfondire invece di saltare da una storia all'altra. In un primo momento credevo di star seguendo le infiltrazioni islamiste in Africa, soltanto che poi mi sono accorto che era molto complesso. Poi sono finito in Congo, che non c'entra niente con l'islamismo… Non lo so, forse è un luogo comune, ma l'Africa è l'Africa.

Mogadiscio, Radio Kulmye News. Questa stazione radio è tra i pochi media che ancora riescono a offrire informazione indipendente. Per questo motivo, i giornalisti che ci collaborano sono vittime di persecuzioni da parte del governo e di al-Shabaab. Nel corso degli ultimi cinque anni, gli estremisti hanno ucciso cinque giornalisti, e altri tre hanno perso gli arti nelle deflagrazioni di ordigni esplosivi.

Come ti organizzi per questi viaggi? Vai sempre già per conto di qualche testata o anche in modo autonomo?
Sì e no: a volte per conto di quotidiani, a volte con ONG, a volte come freelance. In Mali ci sono andato per il New York Times, prima per una feature sulle milizie e poi per coprire la guerra del 2012—gli estremisti islamici avevano conquistato il nord, sono arrivati i francesi e hanno fatto piazza pulita, andandoci giù abbastanza duri. L'anno scorso in Somalia invece ci sono stato per una ONG, il Norwegian Refugee Council. L'unico viaggio che ho fatto davvero in modo autonomo è stato quello in Somaliland.

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Quali sono state le principali difficoltà che hai incontrato durante questi viaggi?
Allora, le zone di crisi sono tutte difficili ma l'Africa è davvero complessa, è difficile tutto. Tanto per cominciare brilli, perché sei un bianco. Non riesci a mimetizzarti, ti vedono arrivare da un chilometro. Poi c'è il cibo: io sono sempre stato fortunato, ma le persone che sono venute con me sono rimaste inchiodate per giorni puoi immaginare dove perché avevano mangiato qualcosa di sbagliato. In Sudan del Sud dovevamo bere l'acqua dei pozzi, che era potabile, ma il collega che era con me ha perso 14 chili per la dissenteria.

Poi gli spostamenti: hai sempre bisogno di un 4x4, perché in luoghi come Goma o Bukavu con una macchina normale non ti muovi. E poi c'è la malaria… la malaria è una menata del cazzo, in qualunque posto vado sembra che sia endemica. Nessuno poi ti sa dire niente sulla malaria.

Mogadiscio, Tendopoli Lido. A. H., 28 anni, ha un cancro alla gola e ha bisogno di cure.

Sì, la prendono come fosse un'influenza, una roba da niente.
Esatto. Gli chiedi, "Ma qua c'è la malaria?" e loro—in qualunque stagione io vada, che sia prima, dopo o durante le piogge—ti rispondono, "No, non è stagione." Poi l'interprete si ammala e ti dicono, "No ma non è niente, ha la malaria."

Poi dipende molto dal periodo e dalla situazione. Per esempio quando sono stato in Congo a seguire la guerra degli M23 si sono creati dei grandi rapporti umani. Ma ci hanno anche sparato addosso, ci sono entrati in casa, ci hanno praticamente arrestati… Invece quando sono tornato l'anno dopo questi rapporti umani non sono riuscito a costruirli, ho trovato un paese profondamente cambiato. Con la guerra, nonostante si respirasse terrore, si riusciva creare rapporti profondi; l'anno dopo, quando le cose si erano "sistemate" e la gente era tornata per strada, ne sono venuto via abbastanza svuotato e deluso.

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Bosaso, Haji Mire Primary School. Gli allievi studiano inglese, arabo, matematica, fisica e il Corano.

Per quanto riguarda l'organizzazione, immagino che tu ti muova sempre con interprete e scorta.
Sì, l'interprete—il cosiddetto fixer—è necessario. Se non hai una persona che ti apre le porte non vai da nessuna parte, anche perché sei bianco e non parli la lingua. In Congo ti chiamano muzungu, sputano per terra mentre passi e ti porgono il palmo chiedendoti soldi… La scorta invece non è sempre necessaria. L'unico posto in cui l'ho avuta stabilmente è stato in Somalia. E poi una volta in Mali, quando sono andato a vedere la linea del fronte con gli islamisti insieme al corrispondente del New York Times per l'Africa occidentale. Ma lì era più che altro per tutelare lui. In Somalia invece è una cosa diversa, non puoi muoverti senza scorta. Alcuni vanno anche in giro su auto blindate.

Mogadiscio, Posh Treats Country Club. Il primo country club di Mogadiscio, creato nel gennaio 2015 da Manar Molin, 33enne vittima della diaspora somala. Il club offre un parrucchiere, una spa, una palestra, biliardi, musica live, un restorante e dei narghilè—tutte cose tabù in Somalia.

Come mai hai deciso di andare in Somalia, uno dei paesi più pericolosi del mondo?
Ho sempre avuto questa fissa per la Somalia, l'ho sempre pensata in modo quasi romantico. Anni fa avevo parlato con il fotogiornalista Franco Pagetti che c'era stato per l'Espresso, poi avevo visto il black hawk down e tutto il resto… Quando sono arrivato in Somaliland non mi è sembrato vero di essere lì e mi è sembrato che la mia vita mi stesse portando in Somalia.

Tante scelte nella mia vita lavorativa penso di averle fatte quasi per casualità. Un giorno ero in Pakistan a girare un documentario per la RAI e mi trovavo in un'ambasciata. Stavo parlando al telefono con il regista, in italiano. E a un certo punto mi si avvicina un somalo, un signore distinto, che mi dice, "Sei italiano? Fammi praticare un po' l'italiano." Mi ha detto di essere somalo e abbiamo cominciato a parlare, io gli ho detto che mi sarebbe piaciuto andare in Somalia ma non sapevo da che parte iniziare. E lui mi ha detto: guarda, io faccio parte del governo transitorio. Era un delegato del governo somalo in Pakistan.

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Mi ha detto, "Ho la persona che fa per te" e mi ha dato il contatto, io ho sentito questa persona e nel 2012 ho avuto la possibilità di andare per la prima volta a Mogadiscio. È stata un'esperienza straordinaria, proprio a livello di avventura. Tu arrivi, ti vengono a prendere all'aeroporto con la scorta, con i motorola… non lo so, mi sembrava di essere finito in un film.

Mogadiscio. Rifugiate yemenite in coda.

Che situazione hai trovato a Mogadiscio nel 2012?
Allora, in Somalia c'è stato il regime di Siad Barre fino al 1991. Nel 1991 sono nate le corti somale, che erano l'opposizione al regime e l'hanno sconfitto. Al loro interno c'era la frangia giovanile, al-Shabaab, che era la parte più estremista che non si accontentava di sconfiggere Barre ma voleva far cadere tutto quello che rappresentava l'occidente. E così è iniziata una guerra senza quartiere: la cacciata degli italiani, il checkpoint pasta, il black hawk che venne giù a Bakaara Market, che fu l'episodio che spinse i caschi blu dell'ONU ad abbandonare la città… A quel punto i somali, senza l'aiuto di nessuno, in qualche modo sono riusciti ad allontanare al-Shabaab da una parte di Mogadiscio. Nel 2012 al-Shabaab era stato spinto fuori dalla città.

Quindi in un certo senso il nemico stava perdendo e a quel punto ha cambiato tecnica dandosi al terrorismo e iniziando una guerra asimmetrica colpendo i punti di ritrovo della comunità somala e la popolazione civile. Per fare un esempio, quando siamo arrivati ci hanno portati in albergo—dormivamo un po' fuori dalla green zone, al cosiddetto chilometro quattro. Al nostro arrivo la piazza era piena, il tempo di mettere giù i bagagli ed era vuota. Cos'era successo? Avevano trovato un'auto piena di esplosivo, che poi hanno fatto brillare. Insomma, quando sono arrivato la situazione era questa. Di notte stavamo sotto i letti perché sentivamo i colpi di mortaio. Di giorno invece la vita cercava di scorrere normalmente, ma c'erano ovunque persone armate, forze speciali, autoblindo…

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Mogadiscio. Partita a pallone alla spiaggia del Lido.

Com'è stato lavorare in quella situazione?
In Somalia sono stato tre volte, l'ultima volta per tre settimane. E tutte e tre le volte è stato molto pesante. Non è tanto il momento in cui esci, perché quando esci hai addosso un sacco di adrenalina: esci con l'auto coi finestrini oscurati, scortato da due auto di miliziani armati, arrivi, fanno la bonifica, scendi, fanno partire i cronometri, non puoi stare in un posto più di 20 minuti perché quello è il tempo che ci mette un commando di Shabaab a organizzarsi e colpire…

Poi ci sono certe zone in cui non puoi proprio andare. Una volta abbiamo fatto l'azzardo di andare nel Bakaara Market ed è stato un momento molto teso, i nostri miliziani erano nervosi e hanno rischiato di sparare a uno che ci aveva attraversato la strada davanti perché pensavano fosse pieno di esplosivo.

Ma il peggio è quando sei in albergo, con il coprifuoco, e magari ti fai 36 ore chiuso in stanza perché dovevi uscire e non esci più perché nel frattempo la tensione è salita. Nel 2012 la situazione era più tranquilla, adesso è peggiorata perché al-Shabaab si è riorganizzato. Poco tempo fa ha tirato già un albergo, lo Jazira, che sta a 200 metri dall'aeroporto in una strada in cui non può passare nessuno senza autorizzazione. E loro sono riusciti a farci passare un camion pieno di esplosivo e l'hanno fatto saltare tirato giù un'ala dell'hotel con tutti gli ospiti dentro.

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Mogadiscio. Alcuni anziani chiacchierano e bevono tè in un bar improvvisato nella città vecchia.

Immagino poi che sia molto costoso stare lì.
Ha un prezzo proibitivo, come freelance non me lo sarei mai potuto permettere. E non è un prezzo che paghi e poi puoi fare quello che vuoi, paghi e hai tutte le limitazioni del caso. Se c'è il coprifuoco tu alle sei devi essere in albergo, e non c'è verso.

Anche dal punto di vista tecnico ci sono un bel po' di problemi: nei momenti in cui c'era la luce migliore, come al mattino presto, non potevo lavorare perché uscire era troppo pericoloso. Quindi togli tutte le foto con la luce morbida, tutte le foto in notturna… Non fraintendermi, non voglio sembrare cinico e non è che fossi lì a fare le cartoline, ma io faccio il fotografo e devo cercare di fare anche delle belle foto. Scattare a mezzogiorno o alle sei di pomeriggio mi cambia. In Somalia lavoravo non con un braccio legato dietro la schiena, con due.

Mogadiscio. Il vecchio parlamento nel quartiere di Hamar Weyne è ora distrutto. Mogadiscio si trova a un crocevia: da una parte, continuano gli scontri fomentati dalla strategia del terrore di Al-Shabaab, mentre dall'altra parte, il popolo somalo vuole solo tornare alla normalità.

Hai avuto tante occasioni di interagire con le persone del posto?
Credo che quello che sto cercando di fare in Somalia sia proprio questo: raccontare una sorta di resilienza del paese e dei suoi abitanti. E credo che il progetto sia ancora un po' debole proprio da questo punto di vista, perché manca ancora di intimità con i somali.

Nel senso, io cerco di parlare con i somali e di avvicinarmi a loro ma purtroppo è difficile. Certo, sono avvantaggiato quando capiscono che sono italiano. Ma conta che ogni volta che vado da loro ho sempre intorno sei o sette miliziani armati di kalashnikov che monitorano la situazione e che con loro ci posso rimanere sempre per pochissimo tempo. Mi sono trovato diverse volte in belle situazioni che mi sarebbe piaciuto vivere, ma da cui mi sono dovuto sottrarre perché rischiavano di scappare di mano. Perché la gente chiama altra gente, noi da testimoni diventiamo delle specie di attrattive, la scorta inizia ad agitarsi… e a quel punto non c'è verso, bisogna andare via.

Quindi ecco, finora non ho avuto il tempo di creare dei rapporti intimi. Mi manca quest'intimità, mi manca che questa gente mi accetti e mi lasci entrare nelle loro vite. Ma è difficile riuscirci.

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