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Attualità

I'm Google è un atlante della simultaneità

I’m Google di Dina Kelberman è una sequenza d’immagini e video che crea un perturbante flusso di coscienza.

I’m Google di Dina Kelberman è una sequenza d’immagini e video che crea un perturbante flusso di coscienza. Ogni soggetto, principalmente industriale o paesaggistico insieme a semplici foto del quotidiano, è ripetuto più volte, sempre diverso, per poi trasformarsi improvvisamente in un soggetto nuovo, legato al precedente per similitudine di forma, colore o semantica. Tutte le immagini provengono da una lunga ricerca su Google Image Search o YouTube, e l’unica regola per essere scelte è che non siano volutamente artistiche.

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Dina Kelberman, artista di Baltimora con un’evidente passione visuale per le ripetizioni ossessive—vedi le due serie sui Simpson, una di dettagli insignificanti e l’altra in gif—gioca con le modalità di uno strumento pubblico. Se l’esperienza di perdersi negli specchi infiniti di Google Immagini e YouTube è un “sintomo culturale”, espresso nel migliore dei modi dal genio di Aaron Swartz, in questo caso è il ferreo rigore nel montaggio a rivelare un carattere specifico.

Scorrendo la lunga sequenza di I’m Google, alcuni soggetti ritornano, come una marea, amplificando la vertigine compositiva e richiamando alla mente una tradizione che da Mnemosyne di Warburg—i Passages di Benjamin, i Documents di Bataille—arriva agli Atlas fotografici di Gerhard Richter. Quello che realizza la Kelberman, in effetti, è un atlante della simultaneità.

Vagando per i meandri di Google Immagini, l’artista porta alla luce quello che il pensiero dominante ha lasciato indietro per mancanza di significato, e ci racconta una storia minore. Scorrendo fino in fondo il suo tumblr/tunnel—che da principio sembra infinito—la prima immagine, quella che comincia la serie, è il video di un tritaplastica che distrugge un secchio blu. Guardandolo sembra di venire macinati insieme alla materia e al colore per entrare in un mondo sconosciuto.

La sequenza iniziale di I'm Google.

Fin dalle prime immagini la Kelberman scava, imprigiona, allinea e mette in gioco le forme, che finalmente cominciano a colorarsi. È un continuo distruggere e ricreare, disfarsi e ricomporsi per diventare strumento o contenitore. Nei passaggi più delicati, gli accostamenti procedono per texture. Il soggetto sopravvive in quello successivo come un fantasma, costruendo una narrazione sempre chiara e ambigua.

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Così la roccia, l’acciaio, gli edifici più solidi vengono rimescolati per trasformarsi in utensili, parti anatomiche, protesi, corde, scarti, per essere infine ridotti a sabbia, fumo, fuoco, luce, e quindi rinascere.