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lavoro

Sono una delle ultime "veterane" dei call center italiani

L'opinione pubblica sembra ricordarsi dei lavoratori dei call center solo i occasione degli scandali. Una ragazza che lavora da tre anni come operatrice ci ha raccontato la routine, gli insulti e le pressioni.
Vincenzo Ligresti
Milan, IT

Come raccontato a Vincenzo Ligresti da Angela.

Un tempo, ogni volta che venivo contattata da un numero sconosciuto che si rivelava poi essere un operatore che pubblicizzava un'offerta "vantaggiosa" di cui non m'interessava nulla, ero la prima a concludere frettolosamente la chiamata con un "grazie, ma non sono interessata." Da allora molte cose sono cambiate, e anche se rispondo sempre con la stessa frase di una volta lo faccio con tutta la cortesia che riesco a metterci.

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Questo perché da più di tre anni tra quelli che fanno le offerte vantaggiose ci sono anche io, e se ora racconto la mia esperienza è perché in queste settimane—dopo gli esuberi del colosso Almaviva e le continue notizie di dislocamenti—si è sentito parlare molto spesso di crisi dei call center.

Quando ho cominciato avevo vent'anni e avevo da poco mollato l'università per i soliti motivi. Perciò, quando un amico mi propose di mandare il curriculum al call center in cui lavorava, la presi come un'utile alternativa alla mia inattività. A dire il vero non sapevo nemmeno come si scrivesse un CV, ma non c'è stato bisogno: Paolo [nome di fantasia] ha dato il mio numero a un suo superiore e sono stata contattata.

Non ho molta esperienza in fatto di colloqui, ma credo che quattro minuti scarsi non siano sufficienti per definire se una persona—palesemente senza esperienza—sia idonea al lavoro e dunque a presentarsi il lunedì successivo al corso di formazione. Avrei scoperto solo in seguito che questi corsi sono organizzati ogni tre settimane.

Alla formazione eravamo una decina di persone tra i 20 e i 50 anni circa. Sembrava un corso serale per diplomandi tardivi, e dalle finestre entrava così tanta luce da non permetterci di leggere le slide che spiegavano come rivolgersi ai clienti. L'unica cosa che ero riuscita a carpire è che sarei diventata un'addetta all'outbound: avrei dovuto chiamare i clienti per proporre "pacchetti telefonici vantaggiosi."

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Il concetto che avrei sentito più spesso negli anni, invece, l'ho imparato fuori da quei banchi che sarebbero mutati presto in postazioni: "Questo è un lavoro di passaggio." È la frase più comune in un call center qualsiasi, e a pronunciarla sono tanto persone alla loro prima esperienza lavorativa quanto studenti e padri di famiglia che hanno l'assoluta necessità di tamponare i mesi precedenti in bolletta. D'altronde, un call center è anche questo: un insieme di sproloqui che non sempre si concludono nell'obiettivo che ci si è prefissati.

In ogni caso, la prima volta che ho inforcato le cuffie ero piuttosto motivata. Probabilmente perché, alla mia prima esperienza lavorativa, non ero ancora assuefatta alle grida dei supervisor che ci incitavano a chiudere "il prossimo contratto." Davanti a me avevo un mese di prova da superare, nel corso del quale avrei guadagnato cinque euro—meno di un buono pasto standard—più 35 lordi per ogni contratto aggiunto agli obiettivi in bella vista sul mio account personale.

Per un corsista immerso in questo stanzone dai tempi tayloriani non è difficile chiudere i 10-15 contratti mensili richiesti per rimanere. Questo perché i corsisti sono più "freschi", come dicono i supervisor, ovvero non ancora usurati dalla routine, dalla busta paga altalenante e dalle interazioni telefoniche coi clienti.

In questi tre anni ho fatto così tante chiamate che ricordarmi la prima è impossibile. Ora però so che esistono tre tipologie di cliente a cui è impossibile abituarsi del tutto. Innanzitutto quello, spesso anziano, in grado di mostrarsi tanto interessato quanto dubbioso per oltre 90 minuti filati prima di sentenziare che ha bisogno di riflettere sull'offerta—e che avrà bisogno di riflettere anche alla quinta chiamata. Poi il cliente infastidito perché chiami dopo le nove di sera—e per quanto tu possa dargli ragione, il turno serale consiste proprio in quello. E infine quello che augura la morte a te, la tua famiglia e le generazioni future. In questo caso, il protocollo prevede di rispondere con un "grazie, buona giornata," e riattaccare.

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Tanto che, per seguirlo alla lettera, i primi tempi finivo puntualmente a piangere in bagno. Poi ho imparato a zittire l'interlocutore con una domanda abbastanza diplomatica: "Pensa che se al posto mio ci fosse sua madre [o sua figlia, o sua nipote], reagirebbe così?" Quando sono stata beccata a rispondere in questo modo, infrangendo il protocollo, mi hanno dato qualche settimana di sospensione. Ma almeno per un po' mi è passata la voglia di non presentarmi al lavoro mai più.

Non è però inusuale vedere operatori che tolgono le cuffie e mollano tutto—chi più chi meno compostamente—e questo è il motivo per cui i corsi di formazione sono così frequenti. Oggi sono "una veterana", e ne ho visto almeno 300 andare e venire. Per rendere l'idea, delle persone che avevano frequentato il corso di formazione con me, sono rimasta solo io. E il punto non è nemmeno che ci sono tanti licenziamenti: esiste piuttosto una sorta di tacita politica aziendale per cui gli operatori si "autoeliminano" senza nemmeno dare disturbo ai superiori.

Per capire come funziona il processo di "purga" bisogna sapere che chi lavora in un call center è pagato a ore e numero di contratti chiusi. Cominci a trovarti con le spalle al muro quando ricevi la comunicazione che delle sei ore da contratto dovrai farne solo quattro, seguita dall'invito a non presentarti in ufficio fino al mese seguente per "riprenderti dalla stanchezza accumulata." Quando succede, ti ritrovi spesso nell'impossibilità di chiudere i contratti che devi chiudere per continuare ad avere quel posto a causa delle poche ore che hai a disposizione per farlo.

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Noi operatori dei call center siamo portati a ragionare continuamente su questo punto—anche quando decidiamo di prenderci due minuti di pausa. Nei circa 200 call center italiani che erogano i nostri stessi servizi, infatti, esistono tre tipi di pause. La pausa 626, da consumarsi per legge ogni due ore, della durata di 15 minuti e che serve per distogliere lo sguardo dal computer, e la pausa briefing, quando dobbiamo essere aggiornati sul lavoro o ricevere comunicazioni—entrambe retribuite. Poi c'è quella che chiamiamo la "pausa tazzina", che non è retribuita: quando hai la necessità di fare una chiamata, prendere un caffè o andare in bagno, prima di alzarti devi segnalare al computer che stai entrando in pausa e per quei minuti non verrai retribuito.

Non che ci siano troppe occasioni di svago, del resto: nonostante abbia le mie cicliche simpatie, devo confessare che la competizione tra operatori è tangibile. Non importa quanti aperitivi insieme facciamo: i supervisor aizzano l'invidia per chi ha risultati migliori. Al momento non chiudo un contratto da dieci giorni e mi è stato chiesto di fare solo quattro ore—non è la prima volta che succede. Perciò, mentre ho una paura fottuta che un supervisor mi dica che rischio il posto, e i colleghi che hanno i conti in regola tentano di consolarmi, il mio senso di inadeguatezza—dovuto anche alla miseria dello stipendio—lievita.

Anche per questo mi fa un po' sorridere che adesso tutti i giornali parlino della crisi dei call center e di come questi poco a poco vengano dislocati all'estero, dove il costo della manodopera è ancora più vantaggioso dei nostri stipendi (che quando arrivano a mille euro sono il risultato di ore e ore di straordinari richiesti). Non capisco come ci sia ricordati proprio adesso dell'insoddisfazione di operatori e clienti, mentre negli anni per accaparrarsi un appalto e sbaragliare la concorrenza i call center esterni continuavano ad abbassare le retribuzioni senza che nessuno regolamentasse davvero questa situazione.

Quando mi chiedono se questo è il lavoro che voglio fare nella vita, mi viene sempre in mente il mio amico Paolo che saltellava nei corridoi e mandava a fare in culo tutti poco dopo aver ricevuto la risposta da un altro lavoro. È vero, al momento sono un po' bloccata, ma come tutti gli altri anche io dico che si tratta di un lavoro di passaggio.

Intendiamoci, non credo che cambiando occupazione scomparirebbero l'ansia, i capi passivo-aggressivi e le minuscole soddisfazioni, ma almeno mi auguro di guadagnare qualcosa in più e di ricevere qualche epitaffio telefonico in meno.

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