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Música

Gli artisti dell'evasione – Intervista ai Factory Floor

I paladini della new new wave Factory Floor raccontano come e perché il rumore, la ripetitività e le luci accecanti servano a distruggere la noia quotidiana.

Il successo, quando arriva in fretta, è una delle peggiori bestie in circolazione, soprattutto quando a incapparci è una band. Molto facile in questi casi che ragazzi creativi e interessanti si trasformino in stronzi arroganti o rimastini senza idee.
Non è il caso dei Factory Floor. Ok, magari non hanno fatto i mega-soldi, ma per un gruppo d'ispirazione wave/post punk, arrivare nel giro di cinque anni a condividere palchi e dischi con Mark Stewart, Chris Carter e Cosey Fanny Tutti, e ricevere la benedizione di Stephen Morris, significa tuffarsi direttamente dentro i poster appesi in cameretta e in sala prove. Più realisticamente, significa venire riconosciuti non solo come appartenenti e a un’estetica che i “grandi” di cui sopra hanno iniziato, ma anche come innovatori capaci di imporle una linea del tutto personale. Sono riusciti a unire il tribalismo della generazione post punk, con quel senso di vitalità contemporaneamente meccanica e selvaggia dato dal rumore e dalla ripetitività, con aperture verso l’improvvisazione totale da una parte, e verso la techno dall’altra. Questa necessità di fare musica ripetitiva e di stimolare tutti i sensi dell'ascoltatore è la loro fissazione principale, per cui ho voluto dedicare questa chiacchierata con Nik, Gabe e Dom a sviscerare questi concetti, e soprattutto la loro idea di evasione, che sembra essere fondamentale per la band. VICE: Come va? Siete in tour da molto?
Nik: È il primo concerto di questo giro, siamo arrivati ieri da Londra. Tutto ok, il posto sembra fichissimo, l’ideale per un nostro show. Mi sembra che rispetto a un tempo stiate girando parecchio, no? Pensavo non vi piacesse… Avete rinunciato all’idea di suonare solo in posti studiati appositamente?
Gabe: No no, vogliamo ancora farlo. Questo posto, infatti, è perfetto per il tipo di show che ci interessa fare. Molto semplice, con questi muri bianchi. Il palco è molto basso, siamo praticamente alla stessa altezza del pubblico, per cui tutti possono venire vicino ed immergersi completamente nel suono. È la prima volta che veniamo in Italia come Factory Floor, per cui è una specie di test, direi. Quando il nuovo album sarà uscito faremo più concerti. Non è che non ci piace andare in tour, vogliamo solo scegliere attentamente le location. In che modo è importante, per voi?
Nik: Penso sia perché non ci interessa seguire il modello classico di concerto rock. Preferiamo l’idea di creare un vero evento, un’esperienza unica di cui possiamo curare tutto. I nostri set sono per lo più improvvisati, e si lasciano anche influenzare dai luoghi in cui suoniamo. Non troviamo stimolanti i posti creati apposta per le band, preferiamo le fabbriche, o le gallerie d’arte.
Gabe: L’ambiente deve potersi integrare col nostro modo di suonare, il pubblico deve poter stare intorno a noi. Capisco che anche l’uso di video durante il live serva a questo. E suonare a volumi alti è importante per lo stesso motivo?
Nik: Credo che la cosa veramente importante per noi sia il concetto di evasione. Invitare il pubblico a prendere parte a qualcosa che non ha niente a che fare con la solita routine per cui una band che ha appena fatto uscire un disco ne suona i pezzi dal vivo, etc etc.
Con noi non sai mai davvero come andrà. E non si sa mai come suonerà, considerato che è tutto improvvisato.
Tutti e tre in coro: Sì!
Nik: I live sono improvvisazioni, ma allo stesso tempo sono frutto di una lunga preparazione. Facciamo moltissime prove in cui jammiamo anche per ore e ore, giorni interi. Poi magari riutilizziamo alcune idee che sono nate in quel contesto. La differenza col live è che in quel caso il pubblico si trasforma in una sorta di quarto membro del gruppo, nel senso che c’è un confronto tra noi e loro. E non volete che diano niente per scontato?
Gabe: In un certo senso, vogliamo far parte del pubblico stesso. Creiamo un sound in cui vogliamo immergerci e in cui vogliamo che la platea si immerga. Per cui non ci concentriamo tanto sulla band quanto sulla sensazione globale dell’ambiente. Una specie di… ahem… opera d’arte totale?
Dom: È semplicemente un modo di fare concerti più adatto a noi. Il modo “classico” di fare concerti è andato avanti per un bel po’ e non voglio dire che è noioso, però dai, si possono tentare nuove strade, anche altre band lo fanno. È ora di lavorare di più sui visual, sul modo in cui il sound system può essere installato nello spazio, etc etc. Il discorso sull’evasione è interessante. In realtà pensavo foste influenzati più dal tipo di discorso portato avanti dai Throbbing Gristle, per cui volume, visual, etc. servivano all’esatto contrario, a trascinare in maniera brutale verso qualcosa che di solito si rifiuta di accettare.
Dom: Be’, ma l’evasione ha origine proprio da questo tipo di conflitto. Anche noi possiamo essere piuttosto aggressivi, ma questo serve a porre il pubblico in una sorta di posizione in cui tutto può succedere.
Gabe: Porsi in questa maniera serve ad aprire una porta… “Devi passare per la foresta per arrivare alla radura.” Credo che tutto quello che la nostra musica fa sia raggiungere delle vette. È un viaggio, va affrontato onestamente e credo che tocchi a tutti passare prima da questa dimensione conflittuale.
Nik: Si tratta di invitare la gente ad avere una mentalità aperta, anche attraverso la ripetitività. Abbracciare questa contraddizione tra il fatto che il suono è molto ripetitivo ma cambia comunque in continuazione. La chiamerei evasione perché quando sei in quello stato la quotidianità perde di importanza. Dimentichi per un po’ ti tuoi problemi di ogni giorno, tipo quello che ti succede al lavoro e così via. In effetti, volevo che mi parlaste proprio di quella ripetitività. È l’elemento più evidente del vostro sound. Allo stesso tempo, però, è completamente free form.
Dom: Esatto. Il termine “ripetitivo” si può applicare a molte cose. Quando una chitarra va in feedback, ad esempio, è solo il suono che rimbalza tra l’amplificatore e il pick up, un suono che si ripete, insomma. Tutto nella vita si ripete, questo ci fornisce degli strumenti. Se riesci a far sì che il suono non sia statico ma viaggi, la ripetitività ha una sua funzione.
Gabe: È una sorta di piattaforma, le fondamenta su cui possiamo costruire qualcosa. Spesso sembra che vogliate esaurire completamente l’ascoltatore. E lo dico in un senso del tutto positivo.
Dom: In realtà vogliamo esaurirci noi. Distruggerci, così che possiamo lasciarci andare. Quanto invece vi interessa fare musica ballabile? In alcune release più recenti, tipo il singolo che avete fatto uscire per DFA, sembra proprio così.
Nik: Quando abbiamo registrato quel disco, gli abbiamo dato il suono che ci interessava avere in quel momento. Le registrazioni le trattiamo in maniera molto diversa dal live. C’è molta più disciplina. Cerchiamo ogni volta di imparare cose nuove—in questo caso eravamo anche in uno studio diverso dal solito—e di registrarle in maniera che siano fruibili. Quindi, non avevamo intenzione di fare un disco ballabile, è solo la forma che ha assunto.
Gabe: Credo che l’elemento chiave della musica dance sia la sua ripetitività, che la rende primordiale. E ci riporta all’evasione.

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Verissimo. Ballare può creare stati mentali trascendentali.
Dom: Per quanto mi riguarda, è quando vado a ballare che riesco davvero a concentrarmi.
Gabe: Ti fornisce un fondamento di assoluta libertà, su cui puoi muoverti.
Dom: Permette al tuo intelletto, alla tua coscienza di viaggiare. Penso sia uno stato mentale davvero libero. Quella primordialità ci permette di rivolgerci anche a, non so… gente che frequenta club a New York, o cose del genere. È tribale.
Nik: Il noise e la dance hanno caratteristiche simili. Hanno a che fare con sentimenti basilari, primordiali. Come un sentimento di euforia assoluta, per esempio, specialmente quando il volume è alto.
Dom: La saturazione è una cosa molto importante in un’opera d’arte. Prestare attenzione a quanto il tuo lavoro riempie l’ambiente, che sia arte visiva, musica o altro. Anche se si tratta di suoni molto piccoli, appena percettibili, devono avere una loro rilevanza, saturare  l’atmosfera tanto quanto un muro di suono alla My Bloody Valentine. In quel modo la musica ha un effetto molto profondo.

Questa primordialità, però, non rende il vostro sound approssimativo. I suoni sono molto curati. Mi sembra abbiate anche un’attenzione particolare alla strumentazione.
Gabe: Factory Floor per noi è un progetto in continua evoluzione. Ora siamo in una fase in cui vogliamo insistere su questo discorso della primordialità e dell’evasione. Ma cambierà e crescerà col tempo. Credo sia fondamentale per essere longevi come band. Una buona band deve crescere continuamente.
Dom: Puoi iniziare con qualcosa di molto primitivo, ma se continui a crescere e crei un tuo linguaggio—cosa che penso siamo riusciti a fare tra di noi—puoi renderlo un marchio inconfondibile.
Nik: Gli strumenti, come il resto, sono attrezzi. Cerchiamo sempre di spingerli al limite delle loro possibilità e di imparare come usarli in modo personale, oltre a provare costantemente nuova strumentazione. Una volta che non avremo più nulla da imparare, smetteremo di suonare insieme, mi sa.
Gabe: Non ci piace stare sempre nella stessa posizione. Quando ci sembra troppo comoda cerchiamo di cambiare.
Nik: Potremmo dire che è un atteggiamento autodistruttivo. Avete lavorato molto sul vostro modo individuale di suonare, per sviluppare questo linguaggio? Mi sembra che proprio tu, Nik, una volta abbia detto qualcosa sul fatto che prima cercavi di suonare la chitarra come lo fanno gli uomini, mentre ora suoni in modo più femminile.
Nik: Ho iniziato a suonare la chitarra quando avevo vent’anni, dieci anni fa ormai. Sono arrivata ad un punto, ora, in cui ho dimenticato tutto quello che avevo imparato, ma riesco davvero ad ottenere tutti i suoni e rumori che voglio. Credo sia una condizione a cui puoi arrivare solo se hai passato prima degli anni facendo cose completamente diverse. Se invece parti dal nulla cercando magari di imitare o copiare un sound altrui, non sei onesto con te stesso. Insomma, mi ci è voluto davvero molto per arrivare dove sono ora.
Gabe: Si tratta di semplificare le cose. Chiunque può imparare a suonare uno strumento, e dominarlo fino all’estremo delle possibilità ma, a conti fatti, le cose migliori nascono dalla semplicità. Per cui, abbiamo semplicemente spazzato via tutta la merda inutile.
Nik: Quando non hai idee puoi sempre nasconderti dietro la complessità, o dietro cose che qualcuno prima di te ha già fatto. Invece, quando ho incontrato Gabe e Dom ho imparato a spingermi in territori che non avrei esplorato se fossi andata avanti da sola. Il volume a cui suoniamo di solito ti spinge necessariamente a suonare in un certo modo. Ho fatto il mio primo concerto con loro due mesi dopo essermi unita al gruppo e per me è stata una vera rinascita. Abbiamo iniziato a imparare molto di concerto in concerto, improvvisando e così via. È stato tutto molto naturale, ora sul palco riusciamo tranquillamente a “conversare” tra di noi.
Dom: Dal punto di vista creativo siamo sempre stati persone curiose e aperte. È per questo che funziona. Ed ecco ancora una cosa che ci riconnette ai Throbbing Gristle: stavo rileggendo proprio oggi un passaggio di Wreckers Of Civilization in cui dicono esattamente le stesse cose. È interessante perché Nik ha suonato live e registrato insieme a Chris Carter e Cosey Fanny Tutti. Lei ha un modo di trattare la chitarra decisamente simile al tuo. Come è stato suonare con loro?
Nik: Credo che mi abbiano invitata proprio perchè si erano resi conto che il modo di lavorare dei Factory Floor è simile al loro, del tutto aperto mentalmente. Io non sapevo cosa aspettarmi… li ho sempre visti come degli eroi e, cazzo, ero nervosa! Prima di suonare dal vivo non avevamo neanche parlato di quello che avremmo fatto. Chris ha semplicemente mandato dei ritmi tribali su cui io e Cosey abbiamo improvvisato. Suonare con loro non è stato davvero diverso dal suonare con Gabe e Dom. Sono talmente uniti come coppia, praticamente l’esempio più perfetto di coppia a cui si possa pensare, che tra di loro c’è un affiatamento incredibile anche nel suonare. Molto simile a quello che c’è tra Gabe e Dom.
Gabe: Sì, e io sono la Cosey della situazione, ahahah.
Nik: Quando ti trovi a lavorare con qualcuno con cui hai sviluppato una chimica del genere, riesci a sentirti abbastanza sicuro da avventurarti in posti insicuri. Pensate che anche la semplicità e la ripetitività possano diventare qualcosa dietro cui nascondersi?
Gabe: Non so, non è il nostro caso. Noi semplicemente cerchiamo di non adagiarci sugli allori, di insistere finché non raggiungiamo quel punto in cui dici “cazzo, non ho mai sentito niente del genere!”, che è la migliore sensazione al mondo. Le cose semplici sono le migliori, è un dato di fatto. Se vai a vedere una band che fa un sacco di cambi ed evoluzioni complicate, è davvero difficile entrarci dentro. Le cose complesse non sono scorrevoli. Durante le prove, in realtà, ci esce anche roba complicata. Vi create fate gli strumenti da soli?
Gabe: Più che altro li impostiamo e modifichiamo in modo da ottenere suoni diversi. Soprattutto Dom. Ciascuno di noi setta le sue cose nel modo che personalmente gli piace di più, per poi cercare di farle funzionare quando suoniamo insieme. Ora stiamo lavorando su un set totalmente elettronico per un concerto al Berghain di Berlino, senza chitarra né batteria acustica. È sempre improvvisato, anzi lo è ancora di più. E trovate che improvvisare con una strumentazione tutta elettronica si più o meno difficile?
Gabe: Non credo sia più difficile.
Dom: No, non c’è differenza.
Gabe: Credo che anche se provassimo a fare un set con dei cazzo di sassofoni, ognuno di noi saprebbe trovare un modo di suonare per cui il risultato sarebbe comunque Factory Floor.

Nik, hai anche lavorato all’ultimo disco di Mark Stewart, The Politics Of Envy. Immagino sia stato completamente diverso.
Nik: Sì. Ci è capitato di suonare di spalla ai Pop Group, siamo piaciuti a Mark e mi ha chiesto di collaborare. Neanche in quel caso avevo idea di cosa ne sarebbe uscito. Sono andata a casa sua… No, a casa del produttore dell’album, Youth. Ero molto spaventata [ridono tutti]. Posso immaginare che ti sentissi sotto pressione.
Nik [ridendo]: Sotto pressione… Ahem… Hai mai incontrato Mark Stewart? No.
Nik: Diciamo che è un… personaggio molto particolare! Io adoro la sua musica, sia i Pop Group che i Maffia che le sue cose soliste. Ha un senso dell’umorismo proprio folle, devi saperlo trattare. Fa un sacco di battute… sessiste! Davvero?! Non me lo aspettavo da uno così politicamente impegnato!
Nik: Sì ma scherza! Mi ricorda Tommy Cooper, il comico inglese degli anni Settanta. Aveva esattamente lo stesso tipo di humor. Mark è uno estremo… ha una mente iperattiva, costantemente in movimento. Mi ha fatto cantare una ballata di un qualche gruppo metal americano anni Novanta, non ricordo chi fossero. Voleva che la rifacessi esattamente come il tizio che la cantava, al che gli ho chiesto “Mark, ma mi hai mai sentita cantare?” E lui: “No!”. Quello che faccio non è esattamente “cantare”, più che altro produco rumori e suoni con la voce. Alla fine, comunque, è stata una bellissima esperienza. Siamo rimasti in contatto, e ci sentiamo abbastanza spesso. Interessante questa cosa che hai detto sul cantare. Che mi dici delle parole? Hanno una qualche importanza nella vostra musica?
Nik: Ha più importanza il modo in cui suonano che creare un vero e proprio testo. Trovo piuttosto difficile usare le parole quando cerco di pormi in uno stato di apertura mentale totale, perché il linguaggio ti costringe quasi inevitabilmente in una struttura.
Gabe: Credo che veicolare un messaggio renda impossibile l’evasione, se capisci cosa voglio dire. Il linguaggio è realtà quindi, per forza di cose, non sono compatibili. È una cosa che ho sempre pensato riguardo al molte canzoni politiche. Se stai cercando di promuovere la libertà, come fai a farlo usando il linguaggio? Per cui, forse l’unica vera forma di arte libera è quella che distrugge la dittatura del significato. Credete che la vostra musica abbia un qualche tipo di valore politico?
Nik: Solo nella misura in cui l’evasione ce l’ha.
Gabe: Dipende da come la gente la interpreta. Su questo preferiamo essere completamente aperti. Ogni buona opera d’arte può essere interpretata in modi diversi.
Dom: Tra l’altro, non credo che dalle nostre parti ci siano condizioni socio-politiche particolarmente gravi da cui potremmo essere influenzati. Ci sono Paesi in cui, mi rendo conto, la gente sente molto più il bisogno di esprimersi in questo senso. Ma il contesto sociale in cui vivete vi influenza?
Dom: Per forza. Ma la nostra reazione non è tanto politica quanto estetica.
Nik: Viviamo a Londra, che è una città caotica in cui la ripetitività è sempre presente. Questo si riflette nella nostra musica, senz’altro.
Dom: Si tratta solo di reagire a quello che hai intorno, secondo le tue idee. Se ti trovi in un ambiente oppressivo, reagirai in un certo modo…
Nik: Secondo me reagiamo più allo stato della musica che ad altro. Intorno a noi ci sono sempre molte cose interessanti.
Gabe: È solo questione di essere onesti. Stavo pensando anche a un articolo che ho letto recentemente su The Quietus che metteva in relazione la condizione globale e la musica “oscura”. Non vi nominava, ma citava molte band stilisticamente simili. Voi trovate che la vostra musica sia “oscura”?
Dom: No.
Gabe: No. Non lo è, affatto. Ci sono momenti in cui può trasformarsi in una forma assolutamente euforica di rumore. Non credo sia mai oscura. Noi non siamo persone oscure.
Dom: Molta gente, quando si trova davanti a un certo tipo di evasione dalla realtà, ci appiccica subito sopra questa etichetta, “oscurità”.
Nik: Nah, ci sono un sacco di band più oscure di noi!