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Bret Easton Ellis

Un'intervista sotto forma di conversazione telefonica.

Con la pubblicazione di sei romanzi e una raccolta di racconti, Bret Easton Ellis ha dato vita a uno dei corpus più piacevoli, affascinanti e incasinati della letteratura moderna.

All’uscita di Meno di zero (1985), Ellis è stato definito dai media—con varie sfumature di ammirazione e disprezzo—enfant terrible e voce della sua generazione. Scritto con uno stile crudo e minimalista che racconta in modo calmo e mite una vicenda di disaffezione e degradazione ambientata a Los Angeles, Meno di zero è, secondo me, la narrazione definitiva sulle adolescenze privilegiate degli anni Ottanta.

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Le regole dell’attrazione (1987) abbandona la scrittura scarna di Meno di zero, e la sostituisce con una prosa densa di flussi di coscienza, creando un romanzo dalla narrazione mutevole. Il tema della disaffezione persiste, ma viene sviluppato in modo più ricco e profondo, incarnando la perfetta satira della pretenziosità e del ridicolo che animano i college di arti liberali.

E poi fu la volta di American psycho (1991). Questo iperdettagliato, a tratti incredibilmente violento e pornografico racconto di un’esasperata virilità yuppie è stato forse l’opera narrativa più controversa sul finire del Ventesimo secolo. Per quanto riguarda la satira, non ha nulla da invidiare a Jonathan Swift e, nonostante sia facile cadere nella trappola di considerare American psycho una fantasia offensiva e gioiosamente misogina, nulla è più lontano dalla realtà. Il romanzo è un atto d’accusa agli atteggiamenti del suo protagonista, e la scelta di Ellis di condurre la narrazione in prima persona è stata un rischio coraggioso e gratificante.

Glamorama (1998) è il romanzo più lungo e complesso di Ellis. Parla, tra le altre cose, di modelli che diventano terroristi. Ne parla abbastanza, a dire il vero, da aver reso possibile una causa intentata da Ellis contro i produttori di Zoolander, commedia di Ben Stiller incentrata, appunto, su un gruppo di modelli-terroristi. I produttori del film hanno patteggiato con un risarcimento di entità non dichiarata.

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Lunar park (2005) è invece il romanzo più strano di Ellis, nonché uno dei suoi lavori migliori. Il personaggio principale si chiama Bret Easton Ellis, e ha scritto libri intitolati Meno di zero e American psycho. Ma anziché essere un romanzo a chiave, come il lettore sarebbe indotto a credere leggendo le prime pagine, Lunar park è in realtà un romanzo dell’orrore che regge tranquillamente il confronto con la produzione di Stephen King. Nel libro compaiono email inviate da gente morta, personaggi fittizi (Patrick Bateman da American psycho e forse Clay da Meno di zero) che prendono vita, fantasmi, e un giocattolo posseduto e assetato di sangue. Ho già detto che è eccezionale?

Il mese prossimo uscirà il nuovo romanzo di Ellis, Imperial bedrooms. Come forse saprete, si tratta di una sorta di sequel di Meno di zero. Ci saranno Clay, il narratore, e la maggior parte dei personaggi del libro (Julian, Blair, Rip, Trent). Ma Imperial bedrooms non è un semplice sequel. È più il culmine di tutto il lavoro compiuto da Ellis finora. Prosegue la storia dell’ignaro e passivo Clay, nella spaventosa e luccicante Los Angeles? Sì. Ma si immerge anche nella violenza scatologica di American psycho e nel terrore soprannaturale di Lunar park. Come seguito di Meno di zero, Imperial bedrooms è più una reazione nauseata che un proseguimento affettuoso. E ragazzi, Ellis supera se stesso. Imperial bedrooms è più dark di Meno di zero e ancor più traboccante di terrore e paura. Finora l’ho letto tre volte, e anche se so di averlo amato, non riesco ancora a capire che cosa ne penso. Ma sono sicuro che è importante e che dovreste leggerlo.

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VICE ha recentemente contattato Ellis al telefono. Di seguito è riportata gran parte della conversazione. Contiene uno spoiler su Imperial bedrooms, ma state tranquilli, riguarda una cosa che accade a pagina 9, quindi non è un danno irreparabile. State sereni.

VICE: Cos’hai fatto oggi prima di questa telefonata?
Breat Easton Ellis: Ero al Runyon Canyon.

Non conosco bene LA, quindi non so di cosa stai parlando.
Runyon Canyon è un canyon a Hollywood dove la gente va a camminare. È a un paio di isolati più su di Sunset Boulevard e risale fino alla Mulholland. È una specie di escursione.

Ah, ci sono stato. Ho presente.
È meglio andarci quando non c’è troppa gente. Durante la settimana, verso le 14.30 o le 15, è davvero bello.

Immagino che sia il posto giusto in cui cercare un po’ di natura a Los Angeles, ma mi ha dato la sensazione che mi trasmette la città in generale—una specie di senso di minaccia, di un pericolo imminente. Mi aspettavo che il mostro-barbone di Mulholland Drive uscisse da dietro un cassonetto e mi saltasse addosso.
Esattamente. È proprio la sensazione giusta. Oggi il sentiero era vuoto e c’erano il vento, le palme… Era minaccioso.

Che cos’ha LA di strano? Dal tuo lavoro mi sembra di capire che provi lo stesso senso di paura e follia che provo io, o sbaglio?
Be’, ecco, io lo provo dappertutto.

Ok.
Non si tratta solo di LA. E sai, ci sono un sacco di cose che mi piacciono. Voglio dire, in fondo vivo qui. Non mi sono trasferito qui perché non amavo la città. In questo periodo sono piuttosto allergico a New York, quindi questo mi sembra il posto migliore in cui stare.

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Sì, anche New York è strana.
Tutti i miei amici si sono trasferiti a Brooklyn. Le uniche persone che conosco a Manhattan sono ricche, e sembra una situazione tipo, ok, la festa è stata divertente, ma per me è finita. LA sembrava il luogo adatto in cui sistemarsi.

Comunque hai una teoria su che cosa rende LA così inquietante?
La risposta è davvero molto semplice. La geografia. È una città splendida, ma è incredibilmente isolante.

Già.
Ci sono molti angoli potenzialmente pericolosi. È anche una città strana perché non cambia mai. Non ci sono stagioni. Non c’è autunno. Non c’è inverno. È una strana città in cui vivere.

L’idea che ho di LA deriva in qualche modo dal tuo romanzo Meno di zero e da vecchi film come Viale del tramonto. Forse ciò che contribuisce a rendere strana LA è il senso palpabile di disperazione che aleggia nell’aria. Un sacco di gente giovane che vuole sfondare.
Sì, assolutamente.

Questo aspetto è molto rilevante nel tuo prossimo romanzo, Imperial bedrooms.
Eccome.

Il personaggio di Rain è disposto a fare qualsiasi cosa pur di ottenere una parte in un film, ma c’è anche un passaggio in cui Clay guarda un video del precedente inquilino del suo appartamento, un giovane attore, e vede “il sorriso falso, gli occhi imploranti, il miraggio”. Incontri mai questo genere di persone nella vita reale?
In continuazione.

E ti chiedono dei favori?
Sì. È come stare a Las Vegas. È una città di giocatori d’azzardo. Arrivi, e tutte le probabilità sono contro di te, schiaccianti, ma ce la fai ugualmente. E sai cosa? Credo davvero che—l’ho già detto in passato, ma credo fermamente che LA ti spinga a essere la persona che sei veramente. Non credo che LA sia un posto in cui reinventarsi. Per nulla. La vita qui è più isolata rispetto ad altre città. Non importa quanti amici hai. Non importa se hai una relazione, o anche se ne hai due. Non importa. È una città isolante. Sei molto solo. E credo che questo ti spinga a diventare la persona che sei davvero. Non ti permette di nasconderti. Credo che New York sia una città in cui è molto più semplice reinventarsi. A Los Angeles, col tempo, la tua vera personalità emerge, a meno che tu non sia in grado di affrontarla e molli tutto prima di farlo. Ma stavamo parlando di gente che è venuta qui per sfondare…

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Sì.
Ovviamente, se scrivi per la televisione o per il cinema ti imbatti in persone che vogliono far parte di quel mondo.

E ti hanno mai fatto una proposta chiara ma tacita come quella che Rain fa a Clay? Succede davvero che un aspirante attore si offra a uno scrittore o a un produttore?
Senti, sono sicuro che accada. Voglio dire, succede di continuo. Quando lavoravo al romanzo mi chiedevo, “Qual è il mito narrativo archetipico di Hollywood?” Ed è un mito centrato sullo sfruttamento. La gente si sfrutta a vicenda.

Ok.
È a questo che si arriva in pratica, e il concetto mi interessava molto perché ci ho avuto parecchio a che fare. Sono stato sfruttato anch’io e credo che la gente abbia pensato che sia stato io a sfruttarla o roba del genere, e così mentre il romanzo prendeva forma prima nella mia mente e poi nello schema generale, quello è diventato il tema centrale. E a diversi livelli l’ho sperimentato, sì. Ma devo ripetere quello che ho detto all’uscita del primo libro: io non sono Clay, davvero.

No, certo che no. Sembra però che la gente non si stancherà mai di indagare quanto ci sia di autobiografico nella tua produzione.
Mi chiedo perché. A nessun altro scrittore, a quanto ne so, vengono fatte queste domande. A Michael Chabon non le fanno. A Jonathan Franzen non le fanno. A Jonathan Lethem non le fanno. A me le fanno. Forse perché non sono uno scrittore bravo quanto loro.

No. Sei bravo o addirittura migliore di tutti loro. Ma non saprei, non voglio uscire troppo dal seminato. Non importa.
Un po’ lo puoi fare. Mi puoi dire qualsiasi cosa. In realtà non li conosco. Voglio dire, so chi sono, ma non sono amico di nessuno di loro.

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Mi piace Chabon, ma ho la strana sensazione che non mi piacerebbe come persona. Non che questo conti qualcosa, ovviamente.
No, non importa. Guardare sempre all’arte, non all’artista.

A volte è difficile. Credo che ci sia qualcosa di troppo carino in Lethem, o perlomeno qualcosa di troppo carino nel suo ultimo romanzo, Chronic City.
Ho amato molto La fortezza della solitudine. È l’unico suo libro che mi sia mai piaciuto. E l’unico libro che ho davvero amato di Michael Chabon è stato Le fantastiche avventure di Kavalier & Clay.

Quello era fantastico.
E non mi piace nulla di Jonathan Franzen tranne Le correzioni, che reputo un ottimo romanzo americano.

Quei tre sono i loro libri inattaccabili, credo.
Sì, ma tutto il resto della loro produzione mi fa sentire, hai presente, “Grrrr.” Sai, sono andato a scuola con Jonathan Lethem.

Davvero?
Eravamo nella stessa classe a Bennington.

Non lo sapevo. Com’era a scuola?
A posto. Era un tipo a posto. Non avevo la minima idea che volesse diventare uno scrittore. Non frequentava nessuno dei laboratori principali. C’erano Donna Tartt e Jill Eisenstadt. Sai, quelli che volevano davvero scrivere riuscivano sempre a partecipare ai laboratori principali del trimestre. E Jonathan non era mai tra quelli. E poi un giorno, molto tempo dopo che ci eravamo laureati, mi sono arrivate per posta delle bozze, le bozze di un romanzo di Jonathan Lethem sugli animali o qualcosa del genere. Mi sono chiesto, “Che diavolo è?”

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Torniamo in carreggiata. Credo che la gente sia così interessata a scoprire la componente autobiografica dei tuoi libri perché quando è uscito Meno di zero non sei stato visto solo come un romanziere. C’era quella storia della “voce di una generazione”, e la gente ha pensato automaticamente, “Be’, dev’essere proprio come i suoi personaggi, perché ha la loro età e il suo passato ha qualche dettaglio in comune con il loro.” Quindi sei stato commercializzato come romanziere, ma anche come qualcosa di più. In un certo senso, era il libro che il mercato sognava. Ti riferivi a questo, parlando di sfruttamento?
Be’, sai, all’inizio è stato divertente. Molto divertente. Essere intervistato dai giornali e essere fotografato e comparire in TV sembrava una buona idea. Ma poi finisce. Dopo un anno circa smette di essere una buona idea. Perché capisci che la tua identità—la tua vera identità—è stata consumata da questa nuova narrazione, da questa narrazione collettiva, che prende piede tra il pubblico e la stampa. La tua vera identità sta morendo e questa cosa che è venuta a crearsi sarà la tua rappresentazione. E ogni volta che incontri qualcuno, sai che avrà in mente tutto questo corredo di associazioni, perlopiù false, su chi sei, ed è una cosa difficile da metabolizzare. Ti dirò, è una cosa molto difficile da decostruire e con cui lavorare.

Non ne dubito.
Devi fartela amica. È l’unica cosa che puoi fare. Non puoi combatterla. Ma rende le cose difficili. Rende difficili le relazioni. Rende difficile farsi delle amicizie. È uno strato aggiuntivo di alienazione, una vera seccatura.

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Già. 
È stata più che altro una serie di scocciature. Ma alla fine scendi a compromessi. Scrivi libri, e li scrivi per una casa editrice—quell’entità che in qualche modo ti paga le bollette. E ricambi il favore facendola guadagnare a sua volta. Se mi sono mai sentito sfruttato da questa situazione? No. Sentivo di seguire la corrente, e sentivo che era una buona idea. Credo di averla gestita abbastanza bene, ma dopo il primo anno, anno e mezzo, è diventato tutto un po’ spaventoso. Pensavo, “Oh, non va bene.”

Quando ti viene attribuito un ruolo, un ruolo che funziona, immagino sia difficile non giocarci un po’.
Be’, quando hai 21 anni… Ma è strano, perché sono cresciuto circondato da gente famosa. E io e i miei “amici fighi” pensavamo che fosse una specie di scherzo. Eravamo come superiori. Andavamo alle feste dei nostri genitori e c’erano attori famosi a bordo piscina o robe così, e abbiamo sempre pensato, “Che cosa sfigata.” E così l’idea di diventare una specie di celebrità… Era una cosa strana che è semplicemente successa. Come se l’avessi vista già finita senza aver partecipato davvero alla sua costruzione.

Quando sei diventato famoso hai perso degli amici?
No, mi sono fatto un sacco di amici! Centinaia, migliaia di amici. E alcuni sono anche durati per più di 24 ore. In un certo senso ti si aprono delle porte, e incontri un sacco di gente che altrimenti non avresti incontrato. E questa è una cosa positiva e negativa allo stesso tempo. Se ho perso degli amici? Sì, ho perso degli amici per via del mio successo. Le amicizie più strette con altri scrittori sono diventate delle rivalità. Improvvisamente ero diventato un problema. La sola pubblicazione del libro aveva spaventato alcuni colleghi, ma quando ebbe successo fu la fine. Avevo notato un cambiamento, ma ne ho avuto la conferma otto o nove anni più tardi, una volta che ne abbiamo parlato da ubriachi. Ho detto, “Credevo foste contenti del mio successo. Mi apprezzavate e mi volevate bene, no?” E loro mi hanno risposto, “Bret Easton Che? Ti odiavamo! Cazzo, se ti odiavamo! Abbiamo patito il tuo successo. Ci sembrava assolutamente ingiusto che tu avessi più talento di noi.” Ho ascoltato la loro versione e ho pensato, “Cacchio.”

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E quelle persone hanno poi raggiunto un qualche tipo di successo?
Hanno avuto successo in modi diversi. La loro vita è andata diversamente da come si aspettavano. No, non hanno avuto successo letterario. Ma sai, si sono sposati, hanno messo su famiglia. Sono piuttosto contenti.

Ok, allora… Non ho un modo carino di porre la prossima domanda.
Oh, chiedi. Chiedi pure.

Be’, perché scrivere un sequel?
Già, perché. Perché scrivere un sequel?

È una domanda semplice e impegnativa allo stesso tempo.
E la risposta è facile. È davvero facile.

Ok.
Perché mi andava di farlo.

Sì.
Insomma, mentre progettavo Lunar park ho riletto i miei libri precedente,. E l’unica domanda che è emersa da questa lettura è stata, “Oh, dove sarà ora Clay? Che cosa sta facendo adesso?” E ha cominciato a perseguitarmi. Pensavo, “Voglio farlo? Voglio davvero farlo?” Ma in definitiva non è una decisione che si prende. L’idea ti prende a un livello emotivo, e cominci a prendere appunti, e poi ti chiedi se funzionerà e se è una cosa con cui vuoi trascorrere un paio d’anni. Quindi la decisione si prende da sola. E non ho mai pensato questo libro come un sequel. Per me era come esplorare la situazione in cui questo personaggio si trova vent’anni dopo. Quello era il punto cruciale. Non volevo scrivere un sequel e non credo lo sia. Be’, voglio dire, lo è e non lo è. È narrato da lui, certo. Ma immagino che avrebbe funzionato ugualmente se avessi sostituito qualche nome qui e lì.

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Adoro il fatto che un romanzo come Meno di zero abbia un sequel. Quando ho saputo che il tuo prossimo libro sarebbe stato un seguito di Meno di zero ho pensato che sarebbe stato davvero perverso e divertente. Ho pensato che fosse un’ottima cosa.
Uno degli ostacoli che ho dovuto superare è stato convincere me stesso che non era un’idea terribile. Più ci pensavo, meno orribile sembrava. E poi ho pensato, “Non importa se è una buona o una cattiva idea, voglio farlo.”

Una volta che l’omino nella tua testa ha detto che lo farai, non si torna indietro. Giusto?
Esatto. Quando la domanda “Dove si trova Clay adesso?” si è affacciata nella mia mente la decisione era praticamente già presa. Ma poi ho avuto la fase in cui mi sono dovuto accertare di volerci passare così tanto tempo assieme e che sarebbe stato divertente, e che ne sarebbe valsa la pena, e che mi sarebbe piaciuto farlo.

Sì, ho letto da qualche parte che se una cosa non ti diverte, non la fai.
Perché dovrei?

Hai mai abbandonato un lavoro perché non si è rilevato divertente?
No. Mai.

Ottimo. Ti assicuri di arrivare all’osso della questione.
Esatto. Assolutamente. Non capisco come si possa fare altrimenti.

Molti autori parlano del loro processo di scrittura come se si trattasse di una tortura.
Ridicolo, eh? Non capisco che cos’abbiano gli scrittori da lamentarsi. Non è pretenzioso?

Sì, direi. Ecco come nascono gli stereotipi negativi sulla categoria!
Forse scrivere un saggio approfondito, che prevede molto lavoro di ricerca, può essere difficile. Ma anche quello dovrebbe essere divertente.

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Non ha senso farlo se non è divertente. È stato facile costruire la trama di Imperial bedrooms, una volta che hai cominciato ad abbozzarla?
Ho letto diverse cose di Raymond Chandler, ed è stata la mia influenza maggiore.

Volevo proprio chiederti della narrativa pulp.
Sì, sono stato influenzato molto da Raymond Chandler e da quel tipo di letteratura noir-pulp. Credo che riassuma perfettamente la situazione in cui si trova Clay. Quello stile era perfetto per me. Mi sembrava appropriato alla voce di questo narratore.

E come ha influito su Imperial bedrooms questo materiale pulp?
Be’, come dicevo ho letto molto Raymond Chandler, e sai cosa? Le trame non sono davvero importanti. La soluzione del mistero non conta. A volte non si risolvono nemmeno. È l’atmosfera a essere intrigante. E questa idea di un uomo alla ricerca di qualcosa, o che si muove su un orizzonte morale e cerca di proteggersi, ma è comunque obbligato a esplorarlo, è praticamente universale. La trama entra in gioco nella fase di progettazione, quando la storia si racconta da sé. Specialmente in un romanzo come questo, narrato da uno sceneggiatore e con un’atmosfera quasi da film. E pensavo anche ai romanzi su Hollywood, e su come scriverne uno privo di satira. Questo era l’altro punto, ogni romanzo su Hollywood sembra la satira di qualcosa.

Avevi in mente Il giorno della locusta?
Sì, oppure i romanzi di Bruce Wagner. Alcuni mi piacciono, ma dopo aver lavorato qui non mi sembra ci sia nulla di cui ridere. Ad esempio, Entourage mi fa incazzare.

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Oddio. Entourage fa vomitare.
Mi ricordo che mi piaceva cinque, sei anni fa. Ma dopo aver avuto a che fare con quel tipo di persone? È disgustoso. È disgustoso quello che celebra.

Già.
Però non saprei. Come sono finito a fare un’invettiva contro Entourage? Immagino che sia collegato. Immagino che abbia senso.

Certo, ha senso. Ma stavi parlando di Clay, e di come Raymond Chandler sia stato un’ispirazione per il personaggio del nuovo libro. È interessante, perché Clay ha un sacco di paure, ma poi sul finale si trasforma in un mostro.
Lo so. Forse è perché la paura l’ha trasformato in un mostro. È difficile parlarne, ma proviamoci.

Be’, alzare il sipario a volte rovina tutto.
Non c’è poi molto dietro il sipario, perciò… [ride]

Stavo pensando che i tuoi lavori si avvicinano spesso alla narrativa horror. Credi che valga per Imperial bedrooms? Perché leggendolo mi ha trasmesso tensione e orrore.
Sì. Immagino di sì.

E Lunar park era eccezionale. Quando ho saputo che stavi per scrivere un romanzo dell’orrore non vedevo l’ora di vedere che cosa ne sarebbe uscito.
A molta gente non è piaciuta quella parte del libro.

La gente è stupida.
I lettori non amano la parte in stile Stephen King. Amano la parte alla Philip Roth della prima metà.

È un peccato che non abbiano apprezzato, perché secondo me era perfettamente sensato. Quest’orrore ci riporta a quello di cui parlavamo prima, quando ho detto che Los Angeles mi trasmette un senso di paura e pericolo, e mi hai risposto che tu provi queste sensazioni ovunque.
Sì, abbastanza. Ma sono un tipo che si preoccupa. Mi preoccupo moltissimo.

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Che cosa ti preoccupa?
Praticamente tutto. Deriva dal fatto di essere cresciuto in una famiglia fondata sulla paura. E così temo le cose.

Hai paura di cose come essere assassinato o rapinato?
Sì, certo. Sicuro. Mi spaventa praticamente tutto. Ma non è debilitante. È solo il mio punto di vista sulle cose. Ma stiamo parlando di libri, di libri che richiedono un certo livello di tensione. Se hai progettato quella tensione e hai costruito questo tipo di mondo, allora il tuo mondo dovrebbe essere così. Il tuo mondo narrativo, intendo.

Ma bisogna essere in grado di accedere al proprio orrore interiore per poter creare un mondo così efficace, non credi?
Sì, immagino ne valga la pena.

Be’, sto facendo della psicologia spicciola, quindi forse dovrei smetterla.
Stai andando benissimo.

Di questo libro mi piace molto il senso di paura e da dove questo proviene. Come quei misteriosi SMS che Clay continua a ricevere. Mi hanno ricordato le strane email di Lunar park. Prima hai detto che alcune persone non hanno apprezzato gli aspetti horror del romanzo. Pensi mai alla possibile accoglienza di un libro mentre lo stai scrivendo?
No. In realtà non credo di scrivere per un pubblico. Credo che si scriva per se stessi. Si scrive un libro che si vorrebbe leggere, una cosa tipo, “Voglio leggere un libro così. Non voglio solo scriverlo.” Quindi alla fine non sono davvero consapevole di un pubblico. Io sono il pubblico. “E io?” [ride] E poi Imperial bedrooms parla anche di un’altra cosa. Credo che Clay sia un narcisista incredibile, e in fase di scrittura è stato un grosso nodo. Ci sono un sacco di “io, io, io” e roba del genere. Pensa che tutto ruoti intorno a lui.

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Crede che tutti lo perseguitino, che tutti abbiano un secondo fine, che tutti lo cerchino. Ed essere spaventati di tutto è davvero una strana forma di narcisismo.
Sì, lo è. Almeno, questo è quello che mi è stato detto.

Da amici e analista?
Dal mio life coach.

B_ret Easton Ellis con due affascinanti amiche del fotografo Jerry Hsu._

Ti ho chiesto della ricezione anche perché prima abbiamo parlato di come a volte la critica aggiunga un sorta di livello extra nella valutazione dei tuoi lavori, parlando tanto di te quanto del libro stesso. Giusto?
È una cosa ostile, davvero ostile. Perché lo fanno?

Posso immaginare che per te sia difficile non pensare ogni tanto, anche solo per un secondo, “Ecco, questo libro orienterà la critica in un certo modo.” Non che questo ti porti a scrivere in modo diverso o influenzi quello che stai facendo, ma mi chiedo se questo pensiero ti abbia mai sfiorato.
Di che critici parli?

Facciamo Janet Maslin.
Mi piace Janet Maslin.

E a quanto ne so, tu piaci a lei. Sbaglio?
Sì. Be’, le piacevo. Non le è piaciuta la parte horror di Lunar park.

Ah, quindi è una di loro?
Esatto. Però fino a un certo punto è stata gentile. Mi piaceva leggere le sue recensioni.

Cosa ne pensi di Michiko Kakutani?
Un po’ troppo rigida. I suoi gusti sono molto limitati e convenzionali.

Sembra più consapevole di molti altri critici del potere che può esercitare.
Il che la rende interessante da leggere.

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Sì, perché la mette sul personale.
Sì, ed è molto chiara. Non le sono mai piaciuto. Mi ritiene un pessimo scrittore.

Il risvolto della mia edizione di Meno di zero è scritto da lei, ed è positivo.
È l’unico dei miei libri che ha ritenuto decente. L’ha turbata. Ho turbato Michiko Kakutani.

Non sono in molti a poterlo dire. Hai letto l’ultima recensione del New Yorker sulla biografia di Muriel Spark?
No, non l’ho letta.

Parlava della sua consapevolezza nella scrittura, del suo giocare a fare Dio—il suo disprezzo nei confronti dei personaggi. Tu come ti poni rispetto ai tuoi personaggi?
Interessante, io la vedo da un altro punto di vista. Penso a un libro, di cui il personaggio è una parte; ho un progetto, e lo voglio mettere in atto. Non sono sconvolto dal destino dei miei personaggi, non sono reali.

Ovviamente.
Si tratta di situazioni inventate e di personaggi inventati.

Ma a volte provi una gratificazione emotiva? Ti emozioni mai scrivendo, oppure è un processo prettamente tecnico?
È entrambe le cose. Tecnico ed emotivo. Direi che è più emotivo in fase di progettazione. Lo schema generale nel mio caso è solitamente più lungo del libro definitivo. Tonnellate di appunti, moltissime idee, di cui molte poi vengono scartate. E una volta che lo schema è pressoché concluso parte un processo tecnico in cui segui le linee guida e cerchi di organizzarle in un modo che ti soddisfino in forma di romanzo. E quindi sì, è emotivamente gratificante.

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Immagino. Le sequenze finali di Imperial bedrooms e di Lunar park hanno un forte impatto emotivo. Sono commoventi. Soprattutto il finale di Imperial bedrooms, quando Clay parla del fatto che non gli è mai piaciuto nessuno e di come la gente lo spaventi. E poi c’è un gioco di rimandi, come quel richiamo alla citazione che apre Meno di zero, quindi si può dire che il cerchio è chiuso.
Giusto. È voluto, sai. Voglio dire, in qualche modo conosci la fine prima ancora di scrivere il libro. Di solito so già l’ultima riga prima di iniziare il processo tecnico di pianificazione.

Interessante.
Sì, di solito ho in mente la prima e l’ultima riga del libro prima ancora di scriverlo.

Pensi a che cosa tenere e a che cosa eliminare durante il passaggio da progettazione a scrittura?
Be’, alcuni direbbero che tengo tutto. [ride] Alcuni si lamentano, “Perché Glamorama è lungo 700 pagine?” Ma una delle cose che mi interessa di più è il narratore. Mi interessa la funzione del narratore, di colui che racconta la storia. Non ho mai scritto un romanzo in prima persona. La mia opera è composta semplicemente da una serie di narratori, e in un certo senso è a loro che affido i miei romanzi.

Sono loro a decidere se il libro sarà lungo o breve.
Sono loro a decidere come il libro sarà scritto, essenzialmente, e quale tipo di linguaggio conterrà.

Come funziona però il processo? In che modo comunichi con i tuoi personaggi?
Il personaggio di Bret Easton Ellis di Lunar park parlerà in modo profondamente diverso da Clay di Meno di zero, o dagli studenti universitari de Le regole dell’attrazione, o da Patrick Bateman di American psycho, o da Victor Ward di Glamorama. All’inizio ero un po’ indeciso sul tipo di narrazione di Imperial bedrooms. E poi ho pensato, “Be’, adesso Clay è uno sceneggiatore. È un narcisista. È come se scrivesse la sceneggiatura di un film in cui recita anche.” Poi i vari pezzi—come il romanzo si sarebbe evoluto, come avrebbe suonato—hanno cominciato a incastrarsi. Il narratore detta lo stile.

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Mi piace il fatto che tu sia così attento al narratore, perché se mai è esistito un narratore inaffidabile, i tuoi lo sono in pieno.
Direi di sì. Sì.

Ma in un certo senso ho l’impressione che tutti i narratori siano inaffidabili.
Molti scrittori la pensano così. Io mi stupisco sempre nel leggere un romanzo narrato da un personaggio che sembra, non so, un professore universitario—ma in realtà non lo è. Adesso sto leggendo A Gate at the Stairs di Lorrie Moore. È molto acuta. Voglio dire, è una scrittrice molto acuta, e ci sono dei dettagli incredibili, ed è bravissima a costruire frasi e a chiudere un paragrafo con vigore. Ma non c’è verso che io creda che questa ragazzina di 20 anni sia davvero il narratore. Cioè, c’è un tale scarto che il romanzo diventa difficile da seguire. L’ho notato anche in molti dei libri di Updike.

In alcuni sì. Ma non nella serie di Rabbit.
Ed è per questo che la serie di Rabbit funziona così bene, perché il semplice realismo americano si concilia profondamente con il personaggio e la sua vita. Per dare vita a un’esperienza onesta e profonda, l’autore deve assicurarsi che il narratore abbia una voce in linea con la propria.

Giusto.
La volta che mi sono avvicinato di più alla mia vera voce è stato probabilmente in Lunar park, dove mi sentivo davvero libero di scrivere nel modo in cui probabilmente scrivo le email o parlo con i miei amici.

Imperial bedrooms è per te un ritorno a una prosa più sobria.
Mi piaceva l’idea di tornare al minimalismo, che ho abbandonato da tempo. È stato piacevole cercare di ricreare quel tipo di tensione usando poche parole. Sai, Meno di zero non era inizialmente pensato come un romanzo minimalista. La prima versione era molto lunga ed eccessivamente emotiva. Un disastro.

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È stato il tuo editor ad aiutarti a snellirla?
È stato il mio professore di Bennington. Mi ha detto semplicemente, “Capisco. Capisco che cosa stai cercando di fare. Ma così non funziona.” E gli ho chiesto, “Che cosa faccio?” E lui, “Voglio che tu faccia un gioco. Voglio che tu faccia un esperimento.” L’avevo scritto in terza persona, al passato. E mi ha detto, “Mettilo in prima persona e vedi che cosa succede.” Ho detto, “Davvero? In prima persona?” Perché Meno di zero era il mio primo vero tentativo di romanzo. Ne avevo già scritti tre.

E questi tre romanzi erano tutti a chiave, giusto?
Sì, erano sostanzialmente dei diari. Meno di zero era il mio primo vero tentativo di romanzo. E così ho pensato, “Be’, lo farò nel modo tradizionale. Lo farò al passato, in terza persona.” Ma su consiglio del mio professore l’ho messo in prima persona. E mentre lo facevo tutto il grasso in eccesso si è sciolto, ed è diventato qualcosa di completamente diverso. Doveva essere riscritto. Ho scritto quell’orribile prima versione in otto settimane, e la gente pensa che sia quella a essere stata pubblicata. Ma ci ho lavorato due anni per farlo diventare quello che volevo.

Ci sono due trappole in cui è facile cadere quando si scrive in terza persona. Una è fornire troppe spiegazioni e troppe descrizioni, perché sei un Dio onnisciente. E poi—soprattutto quando si scrive di situazioni estreme come quelle che tratti tu—la terza persona può trasmettere la sensazione di aver assunto una certa posizione morale.
Giudizi. Si cerca di evitare i giudizi espliciti. È una cosa davvero complessa.

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E tutto questo ci riporta al perché la gente ha creduto che tu fossi Clay all’uscita di Meno di zero. Era un romanzo al presente e in prima persona.
Sì, e hanno anche pensato che quello fosse il mio vissuto, cosa che non è. La mia famiglia non era ricca. Tutti i miei compagni di scuola lo erano. Continuo a raccontarla come, “Oh, povero me. Vivevamo nella Valley.” Tutti i miei amici vivevano a Beverly Hills o a Bel Air.

Zone estremamente diverse, quindi.
Le mie amicizie hanno influenzato molto Meno di zero. Dopo essere stato inserito in quell’ambiente quand’ero più o meno in quinta elementare, quando i miei genitori mi hanno trasferito da una scuola pubblica a una privata, ho cominciato a conoscere una nuova realtà. Avevo ricevuto un’educazione piuttosto medio-borghese nella San Fernando Valley finché mio padre non aveva cominciato a guadagnare meglio. Ma non siamo mai stati ricchi come le famiglie dei miei compagni di scuola. I loro genitori lavoravano principalmente nell’industria cinematografica, e anche questo ha influenzato Meno di zero.

Nelle prime pagine di Imperial bedrooms, Clay parla dell’incontro con questo tizio che ha scritto un libro su di lui e sui suoi amici, e da cui poi è stato tratto un film. È un riferimento a te stesso? So che questa domanda è pericolosamente simile a una noiosa domanda autobiografica.
È un romanzo di finzione, quindi non ci ho pensato. Potrei darti una risposta, ma sarebbe falsa.

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Apprezzo quella sincera. Ok, adesso farò lo spoiler. Mi piace davvero molto come, nelle prime pagine del libro, racconti la morte del personaggio di Julian Wells.
Sì.

Mi ha confuso finché non ho capito che si trattava di un’anticipazione, perché nella pagina successiva Clay beve una birra con lui.
Esatto.

Il cadavere di Julian, e più avanti nel libro il suo assassinio, sono descritti nel dettaglio, in modo macabro. Quando scrivi un flashforward intenso come questo, lo fai seguendo l’istinto o in modo razionale?
È puro istinto. Insomma, non saprei che cos’altro potrebbe essere. Emotivamente mi sembra giusto. E ha un buon ritmo. Per me funziona. E penso, “Oh, sì, funziona, mi piace, cazzo.”

Ho notato una sorta di gioia nell’eliminare questo personaggio così in fretta e in modo brutale. È uno dei tuoi personaggi più conosciuti, e un personaggio che a mio avviso nel film è stato imbastardito. Tu l’hai distrutto e fatto a pezzi subito dopo l’inizio del sequel.
Che cosa succede allo scrittore quando ripensa al proprio lavoro? A un certo punto della sua carriera ha un impulso distruttore? Credo che dietro Imperial bedrooms ci fosse un altro slancio, e sono stato sorpreso di scoprirlo, in un certo senso l’ho combattuto. E questa è l’idea di… Non so come spiegarlo. È una visione sentimentale di Meno di zero. È qualcosa che ha preso forma intorno al libro. È una specie di icona. E credo che una buona metà dei suoi lettori l’abbia male interpretato. Ho incontrato un sacco di gente negli ultimi tre anni, da quando mi sono trasferito a LA, che mi ha detto, “Amico, sono venuto a vivere a LA dopo aver letto Meno di zero.”

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Gesù Cristo.
E sembra un manufatto dell’entusiasmo anni Ottanta. È al pari dei film di John Hughes e i Ray-Ban e Fuori di testa. Mentre lo scrivevo sentivo quanto fosse dark, e quand’ero uno studente ci ho lavorato seriamente—è stato davvero spiazzante vedere come veniva letto e combattere contro quelle idee. Quindi probabilmente scrivendo Imperial bedrooms avevo voglia di giocare con Meno di zero. Non ne vado orgoglioso, ma in tutta onestà devo ammettere che è andata così. Aleggiava nell’aria.

Se è stata una cosa istintiva, perché chiederti se ti piaccia o meno?
Perché è in un certo senso una cosa negativa. Voglio dire, è come pensare alla reazione che avrà il pubblico, non era da me. Però probabilmente mi era già capitato con Lunar park. Credo sia cominciato lì. E mi interessa la possibilità di poter in qualche modo riscrivere i libri.

Sì.
Comunque, Imperial bedrooms non avrà assolutamente lo stesso impatto di Meno di zero.

Ma quella era la tempesta perfetta. Era come se l’intero mondo culturale lo stesse aspettando.
Non è una situazione che si può ricreare, e non ha senso torcersi le mani e pensarci in continuazione. Devi solo fare ciò che vuoi.

Come uccidere Julian.
Ma anche in quel caso si è trattato di istinto. Solo di istinto. Non era pianificato, tipo, “Oh, devo uccidere Julian.” Mi è solo sembrata la cosa giusta da fare.

È un problema se dico che la morte di Julian è anticipata a pagina 9 di Imperial bedrooms? Se sì posso ometterlo.
No, puoi fare quello che credi.

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Ottimo. E poi si scopre dopo pochi minuti di lettura. Comunque, in questo libro Clay è impaurito e assente e passivo, ma cambia radicalmente verso il finale. Insomma, c’è questa sequenza che ricorda American psycho, dove lui porta queste due prostitute in una casa in mezzo al deserto. Non sembra una cosa che il Clay che conoscevo avrebbe fatto. Com’è stato trasformare così un personaggio?
Eccitante. Davvero eccitante.

Davvero?
Capire che si stava muovendo in quella direzione è stato estremamente eccitante.

Bello.
Mi è piaciuto.

Non saprei dire se sei sarcastico o meno.
Sono serio. Dio, se mi dessero un dollaro per ogni volta che qualcuno me l’ha chiesto. [ride]

Hai mai visto i The Kids in the Hall? Sei come il personaggio interpretato da Dave Foley, il tizio che sembra sarcastico ma non lo è affatto. Ma dici davvero? È stato eccitante per te capire che Clay stava diventando un personaggio dark?
Sì. Ricordo il momento preciso della progettazione in cui ho capito che sarebbe andata così. Ricordo che ero seduto. Ricordo che stavo abbozzando quella sequenza—è venuta fuori una sequenza con cui il mio editor ha avuto un sacco di problemi. La mia casa editrice, la Knopf, mi ha dato piena libertà. Mi hanno lasciato pubblicare più o meno quello che volevo. Ma abbiamo discusso per questa scena.

Il tuo editor è sempre Gary Fisketjon?
Sì. È un editor piuttosto puntiglioso. Tiene davvero molto alla grammatica. Litighiamo per la grammatica e la sintassi.

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E quella scena di Clay nel deserto con le prostitute…
Nella stesura iniziale era molto più macabra. Lì c’erano dei dettagli che Gary voleva omettere, e io ho pensato, “Davvero?” Non avevamo mai avuto problemi fino ad allora, ma quella sequenza ne ha creati.

È lui che ha editato American psycho?
Be’, quello che è successo con American psycho

Una casa editrice l’ha rifiutato, e poi è approdato a quella in cui lavora Gary Fisketjon.
È stato allora che Gary è diventato il mio editor. Eravamo amici da sei anni prima che si occupasse di American psycho. Ci conoscevamo bene. Uscivamo spesso insieme. Quindi sai, con un rapporto del genere, e essendo anche amico di Sonny Metha, che all’epoca dirigeva la Knopf, ci ho pensato un po’ prima di pubblicare con loro. Ma non credo che Gary fosse un fan del libro.

Di American psycho?
Sì. Non credo che fosse un mio fan in generale, ma era un buon amico, e va bene così. Succede di continuo. Non credo che i miei libri gli siano piaciuti tranne Lunar park. Ma è un editor eccezionale, da quando gli arriva il manoscritto a quando il libro viene pubblicato. Segue davvero tutti i passaggi, ed è molto attento. Ma la sua reazione per la scena di Imperial bedrooms mi ha un po’ deluso. Mi ha deluso il fatto che abbiamo dovuto contrattare su due o tre frasi.

Puoi darmi un’idea di che cosa è stato tagliato?
Io dicevo, “Se mi fai tenere questo cambierò la grammatica di pagina 47.” E lui, “Non basta. Dovrai cambiare anche la grammatica di pagina 58 e 87.” E io, “Se lo faccio, posso tenere un paio di dettagli in più?” E alla fine ha accettato.

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Avendo lavorato su American psycho non era proprio un novellino.
Be’, ha fatto un lavoro di “seconda mano” su American psycho. Quando l’ho presentato a Simon & Schuster, prima che lo rifiutassero, credevo fosse finito. Finito. Non volevo che fosse modificato. Ma è arrivato a Gary, che l’ha cambiato leggermente. Ero un po’ sconvolto, e avevamo poco tempo per l’editing. È volato a LA e siamo andati in un albergo, lui correggeva pagina dopo pagina e io ripetevo, “Vive, vive, vive.” E la situazione si è surriscaldata. Non credevo avesse capito il libro, o forse l’aveva capito ma non gli era piaciuto, e il processo di editing era davvero sconvolgente. Ancora oggi non riesco a leggere alcune delle cose che ha cambiato. Dei piccoli chiarimenti. Non so. Perché sto ancora parlando di Gary Fisketjon?

Hai cominciato quando ho citato la sequenza in cui Clay tortura le due prostitute nel deserto. Mi piace il fatto di avere una copia di Meno di zero in cui accade la stessa cosa. È anche interessante che questa sia l’unica sequenza per cui hai davvero discusso col tuo editor. Mi sembra piuttosto essenziale in quel punto del libro.
Ero eccitato e spaventato all’idea di scriverla, ma allo stesso tempo era liberatorio. Mi sembravano tutti degli ottimi motivi per scriverla.

Prima di concludere il discorso sui personaggi, vorrei chiederti di Rip. Non è proprio una domanda, ma mi piace sia in Meno di zero sia in Imperial bedrooms. È una sorta di sollievo comico, ma è anche spaventoso. Il suo personaggio è basato su qualcuno di reale? Se sì, devi averlo estremizzato.
O forse l’ho un po’ ridimensionato. Forse là fuori c’è qualcuno di ancor più spaventoso.

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Oh, fantastico.
E mi spaventa, quindi l’ho reso meno spaventoso, ma resta spaventoso lo stesso. [ride] Comunque no, non è basato su qualcuno di reale.

È come se fosse il supercattivo di entrambi i romanzi.
Sì. E Clay non lo capisce, e non sappiamo nulla di preciso su Rip perché il narratore, Clay, non vuole davvero sapere la verità, il che rende tutto più inquietante. Che cosa succede? Che cosa sta davvero succedendo?

Verissimo. Ci sono molte sequenze in cui Clay potrebbe chiarire le cose, ma è troppo spaventato o passivo per farlo. Vorrei parlare un po’ della sceneggiatura, visto che te ne occupi da qualche anno a questa parte. Sono sicuro che te l’abbiano già detto, ma mi piacerebbe che da Meno di zero fosse tratto un altro film, più fedele al libro [la trasposizione cinematografica è stata realizzata nel 1987, e in Italia è uscita con il titolo “Al di là di tutti i limiti”, ndt].
Ogni settimana mi dicono che c’è qualcuno interessato a farlo. Ho sentito che tutti, da Quentin Tarantino a Gregg Araki, hanno cercato di ottenere il permesso della Fox per girare un nuovo film. Ma adesso non si tratterebbe più della Fox. Lo farebbe la Fox Searchlight perché non sarebbe più un film da grande produzione. Ma non sarei interessato a parteciparvi, quindi mi limito ad ascoltare i pettegolezzi su chi sta cercando di ottenere i diritti del film.

Non so se potrebbe essere realizzato con un’aderenza totale al romanzo. Il libro è davvero molto dark.
Per un po’ ho pensato fosse possibile. All’inizio credevo che i diritti fossero stati comprati da Barry Diller e Scott Rudin, che avevano una visione molto fedele rispetto al libro. La sceneggiatura iniziale era piuttosto hardcore. Ma poi c’è stato un cambio di regime nella casa di produzione, credo che Leonard Goldberg fosse a capo della produzione, e, sai, era un padre di famiglia.

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Giusto.
Aveva dei figli, ed è stato… Non saprei. È stato smorzato.

Non sto cercando di denigrare il film.
Non si può.

È stato una pietra miliare sotto diversi aspetti.
Sì.

Ma forse questo cambio di regime, l’ingresso di gente con famiglia che non vedeva di buon occhio una scena in cui una dodicenne veniva stuprata…
Sì, certo.

E poi c’è da dire che era l’epoca dei teen movie, sai a che cosa mi riferisco. E c’è stato un buon riscontro di mercato, anche se il film non seguiva il libro alla lettera. È una cosa tipo, “Questo è il teen movie dark degli anni Ottanta.”
Sì. E non so quanto fosse dark. Per molti versi era una specie di prodotto da doposcuola. I minori di 17 anni potevano vederlo se accompagnati dai genitori. È strano come cambino i film con il tempo. Lo guardo ogni volta che mi capita, e sai, è scioccante che sia stata una grossa produzione.

Sì.

Sai, con uscita a novembre e quel genere di cose. Come un’inaugurazione di venerdì. Adesso è semplicemente incomprensibile.

Sì, adesso sembra più una specie di film d’autore.
Assolutamente sì. Ma è davvero bello. La fotografia di Ed Lachmann è incredibile.

E adesso Imperial bedrooms ha già una pagina su IMDb.
Sì, non capisco il perché.

I diritti del film sono stati venduti con quelli del libro?
No. I diritti del film spettano per reversione alla 20th Century Fox perché sto usando dei personaggi di cui hanno i diritti.

Davvero? Wow.
È come se scrivessi un sequel di American psycho: Patrick Bateman appartiene alla Lion’s Gate. È una specie di patto col diavolo che si fa quando si vendono i diritti cinematografici dei propri romanzi.

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E tu, ti sei dato alla sceneggiatura dopo che i tuoi libri sono diventati dei film?
No. Scrivevo sceneggiature già al liceo, con i miei amici. I miei più cari amici dell’epoca volevano fare gli sceneggiatori, e lo sono diventati. Ho sempre pensato che prima o poi sarei approdato alla sceneggiatura, ma mi interessavano anche i romanzi, che invece non attiravano nessuno dei miei amici. Non ho mai preso sul serio la sceneggiatura finché un paio dei miei copioni sono stati accettati, e ho pensato, “Oh, ok. Posso fare anche questo.” Quindi in un certo senso ho sempre scritto delle sceneggiature, ma non a tempo pieno come faccio adesso. Che tragico errore… No, no, sto scherzando.

Ho l’impressione che gran parte dell’industria cinematografica sia la fossa dei leoni peggiore del mondo.
[emette un lungo, lento mugolio gutturale]

Ehi, questo come lo trascrivo?
“Ellis si lascia sfuggire un rauco mugolio di assenso.”

Perfetto. Un rauco mugolio d’assenso.
Ma sai cosa? Sì e no. Nell’industria cinematografica si trovano anche moltissime persone dotate e interessanti. E anche molta gente divertente.

Probabilmente ho in mente soprattutto il lato economico e non quello creativo.
Il lato economico è totalmente illogico, ed è molto difficile da esplorare. Può essere davvero orribile. Ma se mi stai chiedendo se preferirei andare in giro con attori fighissimi e registi divertenti e produttori che mi vogliono dare dei soldi per scrivere, che so, un film sugli squali, oppure andare a cena con Richard Ford e Toni Morrison… Be’, adesso sono in un’altra fase della mia vita.

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Ti sei estraniato dal mondo letterario.
Assolutamente. Non ho mai sentito di farne davvero parte. Ho amici scrittori e roba del genere, ma avere a che fare con l’industria editoriale e i suoi eventi, e il fatto che tutto giri intorno alla cena del PEN…

È piuttosto triste.
E la gente mi criticava sempre perché mi piaceva andare per locali. Quando avevo 20 anni mi sembrava strano che la gente diventasse così acida perché mi piaceva uscire. Che cos’avrei dovuto fare? Starmene in soffitta a lume di candela a scrivere con il calamaio? A 23 anni vuoi divertirti. E la penso tuttora così. Non riesco a fingere che mi interessi la “letteratura”, pubblicare dei libri, vincere dei premi o ricevere delle recensioni.

Ma i libri ti interessano ancora. Insomma, almeno a giudicare dal tuo Twitter, dove scrivi e parli degli ultimi libri che hai letto.
Mi piace leggere. Mi piace ancora. È che in qualche modo la mia disponibilità nei confronti dei libri è cambiata, negli ultimi cinque anni, e mi chiedo perché…

Cambiata in meglio o in peggio?
In peggio. Adesso trovo più difficile concentrarmi sulla narrativa rispetto al passato. Anche se non è esattamente così. Che cos’è che ho letto che mi ha affascinato tantissimo? Ah, sì, era l’ultima raccolta di racconti di Jhumpa Lahiri, Una nuova terra. Leggevo le storie in sequenza. Sono piuttosto lunghe—arrivano a 40 pagine. Mi sono trovato a leggere le prime due, sei pagine qui, sei pagine lì. Poi sono arrivato a un racconto incredibilmente avvincente e coinvolgente che ho letto tutto d’un fiato, in un’ora. È stato davvero gratificante. Nessun altro medium ti fa vivere un’esperienza simile.

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Di sicuro.
È l’esperienza definitiva della realtà virtuale.

Ecco, parlando di Twitter, che cosa ne pensi? Mi affascina e mi disgusta allo stesso tempo. È una specie di distillato di tutto ciò che odio di internet, ma mi intriga leggere i tweet della gente.
È quello che è. Io lo uso come qualcosa di diverso. Non so bene come, ma non scrivo cose tipo, “Oh, ho appena bevuto un ottimo caffè da Starbucks,” o, “Oddio, è venerdì 13, che paura!” con una faccina spaventata.

È un luogo in cui si può pensare ad alta voce o fare dichiarazioni a un pubblico virtuale.
Lo aggiorno una volta a settimana, una volta ogni due. Non ci penso troppo.

Be’, tu hai scritto il tweet più bello che qualcuno abbia mai scritto.
Quale?

Quello su Salinger. Il giorno in cui è morto hai scritto: “Sì! Grazie a Dio è finalmente morto. È una vita che aspetto questo momento. Festa!”
Alcuni non l’hanno capito.

Credo sia stata la cosa migliore che ho letto negli ultimi tempi.
Ottimo, davvero. È quello che speravo.

I tuoi amici ti hanno criticato?
[ride] Sì. Ma mi sentivo così. Non potevo farci nulla. Temevo l’accanimento sentimentalista su Salinger—che tra parentesi ci odiava tutti. Vecchio bastardo. Era un tweet più complesso di quanto sembrasse. C’era dietro un ragionamento più profondo di quanto immagini.

Quindi ci hai pensato sopra prima di pubblicarlo?
In realtà, sai cosa? L’ho pubblicato e poi ho pensato, “Troppo presto, troppo presto, troppo presto!” E l’ho cancellato. Ma un paio di persone l’avevano visto e si erano indignate. E poi qualcuno ha scritto “LMAO, LMAO”. E ho pensato, “Interessante, rimettiamolo online.” Il tutto è successo nel giro di 90 secondi. E dopo un’ora ce n’erano qualcosa come 10.000.

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Risposte, re-tweet, tutto il rispondibile.
Esatto.

Mi è anche piaciuto il tuo tweet sul fatto che il remake di L’ultima casa a sinistra sia un film migliore di Precious.
Oh, lo è.

Non ho avuto bisogno di vedere Precious. Hai presente? Ho visto il trailer e mi è bastato.
Giusto. Sì.

Mi sembrava una specie di film politicamente corretto, o un modo di fare un freak-show senza sensi di colpa.
Il trailer era molto efficace. Ogni volta che lo vedevo mi lasciava senza fiato. Pensavo, “Questo film dev’essere devastante.” E poi ovviamente lo vedi e non è… Non importa. Non voglio criticarlo.

Ho trovato il tuo commento originale, perché non mi vengono in mente altri personaggi pubblici che non hanno apprezzato Precious.
La recensione di Anthony Lane sul New Yorker non era proprio positiva.

Ah, sì, è vero. Ero scioccato che a Roger Ebert fosse piaciuto.
Be’, sai, Precious non è del tutto sbagliato. Ha una prospettiva endemica sulla fissazione della società attuale su, oh, non so cosa…

Sul dolore?
[ride] Già. “Fine.” Mi ha sorpreso perché è girato in modo semplice. Non è così doloroso. Ero pronto a essere distrutto emotivamente. Ma non è successo. Non c’era niente.

Io & Marley mi ha distrutto, ma non piangerei per Precious.

Perché non ho visto Io & Marley? Perché me lo sono perso?

Be’, è un film interessante perché dovrebbe essere una confortante commedia drammatica con una morale conclusiva, ma in realtà è solo uno snuff in cui ti fanno innamorare di un cane per due ore, solo affinché possa poi morire e distruggerti. Comunque, sono curioso del tuo nuovo lavoro: stai scrivendo una sceneggiatura intitolata The Golden Suicides, che parla della vita e della morte degli artisti Jeremy Blake e Theresa Duncan.
Esatto.

Lo realizzerà Gus Van Sant, giusto?
È interessato. Di sicuro lo produrrà. Non è ufficialmente incaricato della regia.

Come sei finito a scrivere questo film?

Ho letto un pezzo su New York magazine che parlava di loro, e mi ha colpito molto per via di quello che stavo passando a livello personale. Mi ero trasferito a LA e stavo vivendo una relazione problematica. Ero legato a una persona folle, ed ero anche molto frustrato dal disastro di The informers.

La versione cinematografica di Acqua dal sole, la tua raccolta di racconti.

Sì, la sceneggiatura era fantastica, e proprio per via della sceneggiatura avevamo un sacco di attori bravissimi e un sacco di soldi per realizzare il film, che alla fine si è rivelato il peggior lavoro a cui abbia mai partecipato. Il risultato mi aveva davvero buttato giù.

Sì.
E poi ho letto l’articolo di David Amsden su Jeremy Blake e Theresa Duncan e il loro suicidio, e mi ha colpito perché mi ha fatto riflettere su che cosa significhi avere una relazione con qualcuno che sta dando di matto, ma che ami al punto da sprofondare nel suo mondo. Ho ripensato a tutte le cazzate che ho fatto quando stavo con quella persona. Di solito capisci che stai con qualcuno fuori di testa e alla fine ne prendi le distanze. Pensi, “Oh, ho capito! Adesso ho capito.” Ma che cosa succede se non te ne accorgi? Che cosa succede se resti con quella persona? Allora ho parlato con un produttore con cui avevo già lavorato a un paio di sceneggiature che poi non erano state realizzate. Gli ho detto, “Dacci un’occhiata. Voglio farlo diventare un film.” Lui l’ha letto e mi ha risposto, “Mi sembra ottimo. Fammi opzionare l’articolo.” Ho avuto qualche problema con quell’articolo. C’erano diverse cose che non mi piacevano. Ma mi sentivo incredibilmente vicino alla vicenda che raccontava.

È una storia triste e oscura.
Ma non è un film triste e oscuro.

No?
Voglio dire, è un film triste, ma non oscuro. Ha un romanticismo maledetto. C’è qualcosa di profondamente enigmatico, che parla degli inganni e dei labirinti in cui ti trovi intrappolato. Il film è il viaggio di Jeremy Blake. Lo incontriamo prima che conosca Theresa Duncan. Mi rivedo molto in lui, e amo il suo lavoro, e in qualche modo posso dire di essere innamorato di lui. Il film è girato dal suo punto di vista, ma è un ritratto molto intimo di entrambi i personaggi. Parte dei miei problemi con l’articolo iniziale dipendevano dal fatto che puntava sul gossip e sull’osceno, e si focalizzava su cose che non mi interessano. Ma la sceneggiatura è davvero sincera. Se qualcuno pensa che stia facendo una cosa alla “Bret Easton Ellis”, una specie di satira o di cabaret, si sbaglia di grosso. È una storia d’amore sincera.

L’idea che fossi tu a realizzarlo non mi ha trasmesso sensazioni negative. Mi ha solo incuriosito.
È semplicemente molto tragico. Che cosa sarebbe successo se non l’avesse mai incontrata? Voglio dire, gli sarebbero capitate moltissime cose, ma credo che lei l’abbia cambiato profondamente. Che ne pensi?

Non saprei, non li ho conosciuti. Forse alimentavano a vicenda le rispettive paranoie?

La paranoia c’era. E credo che lei avesse bisogno di una storia. Le serviva una spiegazione sul motivo per cui non sfondava a Hollywood. Nel mondo dei videogame ce l’aveva fatta, ma probabilmente tutti si aspettavano che diventasse una star nell’ambito cinematografico, una grande produttrice, e lei non aveva capito che i suoi film non sarebbero stati realizzati. Questo l’ha fatta impazzire, non riusciva ad accettare la sconfitta e ha avuto bisogno di costruirsi una storia.

È qui che sono arrivate le teorie di un complotto ordito ai suoi danni da Scientology.
Da quelli di Scientology. Poi si è messa a inventare questa storia incredibile che spiegava perché non aveva successo nell’industria cinematografica. Mi ossessiona. Non so perché mi abbia colpito così tanto.

L’hai spiegato bene prima. Era per via della relazione che stavi vivendo e della delusione di The informers. Questi due fattori hanno fatto in modo che la vicenda Blake-Duncan ti colpisse nel profondo.
E poi erano fighi.

Sì, erano fighi.
In realtà questo è proprio il motivo che ha convinto i produttori a finanziare il progetto. “Chi vuole vedere un film su due che si suicidano?” E l’altro produttore ha risposto, “Be’, erano fighi.”

Oh, cazzo.
E il primo ha detto, “Davvero? Fammi vedere una foto. Ah. Sì.”

Ne hanno davvero parlato così?
Proprio così.

Oddio. Ma se arriverà il momento di scrivere una sceneggiatura per Lunar park e Imperial bedrooms, la scriverai?
C’è già una sceneggiatura per Lunar park, e io non sono coinvolto. Per Imperial bedrooms, può essere. Mi piacerebbe. Ma non saprei, non riesco a immaginarlo in versione cinematografica.

Stai promuovendo il libro, che uscirà a giugno. I giudizi della critica ti preoccupano o ci ridi su?
Nessuna delle due cose.

Davvero?
O forse entrambe. Non so.

Però leggi le recensioni.
Certo. Le leggo. Do sempre per scontato che mi stronchino. Prima della pubblicazione dei miei libri sono sempre molto insicuro. Mi sembra di conoscerli troppo bene, come se ogni mistero fosse stato svelato. Li leggo 5.000 volte, ed è come se non provassi più nulla, se non una bassissima autostima.