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Macro

I colloqui di lavoro di gruppo sono un incubo

La gente pensa che un colloquio di gruppo sia il massimo della modernità. Ma immaginatevi la pressione, la competizione e il disonesto narcisismo di un colloquio normale amplificati e messi in scena di fronte a persone che speri di surclassare.

Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!

Il mio stile di vita semi-nomade preoccupa tutti; i miei amici si chiedono come io riesca a vivere senza un conto corrente e mia madre pensa che sia depresso. Non ho un lavoro fisso e secondo loro il treno del successo mi è passato davanti senza fermarsi.

È stato a causa dell'ultima ondata di paternalismo che ho fatto la mia prima vera domanda per un posto di lavoro da mesi. Dopo aver mandato un CV ormai dotato di esperienze in ogni settore lavorativo, mi è stato ahimè concesso un colloquio—per lavorare come guida turistica per gli studenti americani in visita in Europa.

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L'agenzia era nuova e "innovativa". L'annuncio sul sito diceva, "Nel nostro ufficio non ci sono cubicoli, non crediamo nei cubicoli." Che ridere! La cosa meno divertente era che per ottenere il lavoro avrei dovuto passare per un colloquio di gruppo. Immaginatevi la pressione, la competizione e il disonesto narcisismo di un regolare colloquio, amplificati e messi in scena di fronte a persone che speri di surclassare per avere il lavoro.

La gente pensa che un colloquio di gruppo sia il massimo della modernità; una discussione aperta—una piattaforma di idee a cui tutti danno il loro contributo. Ma in realtà è piuttosto antiquato. I colloqui di gruppo sembrano concepiti da una generazione di dirigenti che considera Hunger Games un modello per la ricerca di personale.

Era il mio primo colloquio di gruppo, e ho pensato che se fossi arrivato in anticipo avrei dovuto stare seduto in imbarazzato silenzio insieme agli altri, a documentarmi sulla compagnia per cui tutti i presenti volevano lavorare. Perciò ho passato un quarto d'ora in un negozio di articoli sportivi a guardare scarpe da ginnastica che non avrei mai potuto permettermi a meno di ottenere quel lavoro––che non volevo. Sono arrivato puntualissimo. Ma per qualche minuto non sono comunque riuscito a evitare l'imbarazzo mentre gli altri candidati fingevano di leggere le brochure dell'azienda, con gli occhi pieni di malizia e ambizione.

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I candidati erano un gruppo eterogeneo, molti arrivavano da posti lontani della Gran Bretagna e anche dell'Europa. Tutti avevano un background nel mondo dell'arte—un paio di attori, un'artista, una modella, un modello di nudo e un comico. Ognuno di loro sarebbe stato felice di avere un lavoro in cui bisognava viaggiare. Fingevano di non vedere l'ovvia realtà, cioè che lo stavano facendo perché i loro sogni di gloria artistica erano falliti. Insomma, eravamo sulla stessa barca.

Ci avevano chiesto di vestirci come per una normale giornata di lavoro. Il modello di nudo aveva dei sandali e una camicia aperta fino all'ombelico. Ci hanno detto che avremmo cominciato "a rompere il ghiaccio." A questo punto ho pensato di andarmene, perché avevo sentito da mio fratello di quella volta che per "rompere il ghiaccio" in un colloquio per cassiere aveva assistito a questa conversazione:

Capo: "Se foste un animale, che animale sareste?"
Candidato: "Sarei una tigre perché sono una persona forte e orgogliosa."
"E allora vai, ruggisci come una tigre. Forza, guarda ciascuno di noi e ruggisci." Ruggisci per avere il lavoro! Roarrrr."

Grazie a Dio per noi è stato un po' meno umiliante—dovevamo solo disporci nella stanza rispettando la geografia del luogo di provenienza. Si è generato il caos tra chi litigava sulla posizione di Belfast rispetto ad Halifax. L'artista che aveva preso il comando del teatrino mi ha manovrato fino al "nord" della stanza perché ogni tanto mi lasciavo andare a esclamazioni scozzesi. Devo ammettere che il mio contributo alla situazione è stato pari a zero, e uno alla volta ci hanno chiesto da dove venivamo. Il dibattito Belfast-Halifax ha portato a nuove vette negative il rapporto Irlanda-Inghilterra nel momento in cui si è stabilito che Belfast era prossima al Circolo Polare Artico. Quando è stato il mio turno ho detto che ero nato a Londra, e questo ha scompaginato il sistema. L'artista mi ha trapassato con lo sguardo, perché fino a quel momento non avevo pronunciato una parola. Il silenzio che è seguito ha riempito i cubicoli. C'erano dei cubicoli, sì.

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Tutto quello che dovevamo fare diventava motivo di condivisione di opinioni costruttive. Era un caos in cui tutti cercavano di imporre la loro personalità urlandosi addosso e rispondendo in modo contorto a domande molto semplici. L'unico barlume di vera personalità veniva da quelli che rimanevano in silenzio e davano risposte logiche a domande a cui gli altri non sapevano rispondere. Se il responsabile se ne sia reso conto non lo so. Magari poi questi ragazzi venivano considerati incapaci di "lavorare in squadra". Non hanno "l'X factor". Io ero piuttosto certo che nessuno sarebbe stato in grado di guidare degli studenti americani in giro per Madame Tussauds o per qualche città europea––non se non era in grado di formulare un discorso logico.

Il momento successivo era quello del problem-solving. Dovevamo decidere cosa fare nel caso un cui uno studente americano avesse perso il passaporto e l'aereo stesse per decollare. Ci hanno diviso in piccoli gruppi. Ovvero, in pratica, un'ulteriore possibilità per urlare uno sopra l'altro e proporre soluzioni insensate. Il comico si è messo in luce aggiungendo i propri arguti e non necessari commenti. Battuta dopo battuta si scavava la fossa parlando dell'obesità in America e della pigrizia degli italiani. Se era quella la sua capacità da comico, non mi stupiva fosse lì. Non è nemmeno stato tanto breve. A un certo punto si è messo a discutere con l'artista sulla politica estera americana.

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Non sono un fan del tè caldo, ma almeno è riuscito a calmare gli spiriti per un po'. Durante la pausa, persone che si erano quasi insultate fino al momento prima erano riappacificate e parlavano amabilmente.

Ma poi è ricominciata la lotta. Divisi per mettere alla prova le nostre abilità linguistiche, la modella continuava a ripetere con grande imbarazzo che non parlava francese. E ora doveva pagare il prezzo più alto, mentre fissava attonita e muta il responsabile che le faceva una raffica di domande in francese. Si è fermato un attimo prima che si mettesse a piangere. Un'altra ragazza parlava un italiano davvero buono, e dopo un breve esame incrociato è venuto fuori che aveva vissuto cinque anni a Roma—il che per qualche motivo che non capisco la metteva fuori gioco. Era quasi riuscita a non farsi scoprire, ma ha fallito proprio all'ultimo, quando le è stato chiesto dove vivesse. "A Roma," ha risposto istintivamente. Proprio come in quel pezzo de La grande fuga in cui Gordon Jackson risponde istintivamente in inglese alla Gestapo. Sulla domanda aveva scritto che viveva a Milton Keynes. C'era andata così vicino.

L'intera faccenda è finita con la descrizione del lavoro e una garanzia su due cose. La prima, che se fossimo stati selezionati, noi fortunati avremmo avuto diritto a un weekend di formazione all'albergo dell'aeroporto. E come se non bastasse, la parte migliore—avevamo dieci giorni di lavoro all'anno garantiti, alla cifra di 30 euro al giorno. Gli altri non sembravano scoraggiati.

Dopo tre ore siamo stati rilasciati con la prospettiva di due settimane di sfiancante incertezza. Questo risparmia ai datori di lavoro il problema di rifiutare le persone sul momento, per non fare i conti con lacrime o minacce di rivalsa.

E così ce ne siamo andati, salutandoci a malapena. Due settimane dopo mi hanno detto che il lavoro era mio. Lo accettavo? Be', sì.