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"Non sei preparato a cose così": cosa vede uno studente di psicologia nel tirocinio

Per uno studente di psicologia, il tirocinio è il primo momento in cui passi dallo studio della malattia mentale alla realtà. Cinque laureati italiani raccontano cosa hanno fatto durante il loro tirocinio.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Illustrazione di Drue Langlois

Intraprendere la facoltà di psicologia significa passare parte delle proprie ore ad assimilare le teorie di qualche medico cocainomane formatosi durante il periodo dell'Austria puritana e condividere lo spazio vitale con individui che indossano abiti di iuta, frequentano focus group e sono convinti che gli attacchi di panico adolescenziali li abbiano temprati a sufficienza per poter aiutare qualche altro essere umano.

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Chiunque abbia mai frequentato questa facoltà per un lasso sufficiente di tempo sa benissimo quanto poco quello che si studia sembra avere in comune con la realtà della malattia mentale: tutto è teorico e freddo, spesso astruso. Chi invece ha avuto la perseveranza di continuare gli studi sa che questa sorta di limbo si interrompe nel momento in cui cominciano i tirocini per l'avviamento professionale.

Il tirocinio si svolge in strutture convenzionate con la facoltà, e i compiti variano a seconda del livello a cui lo si intraprende. I neolaureati per esempio si limitano nella maggior parte dei casi a sottoporre ai pazienti che aspettano di incontrare il terapeuta una serie di test diagnostici per poi analizzare le risposte, partecipano alle riunioni dell'équipe della struttura, e agli incontri terapeutici di gruppo. Raramente a quelli individuali. Per gli studenti che stanno frequentando una scuola di specializzazione, invece, sono previsti anche questi ultimi.

Per riuscire a far comprendere a tutti coloro che, come me, hanno mollato miseramente psicologia prima di capire effettivamente cosa avrebbero potuto aspettarsi dalla vita professionale, ma soprattutto com'è effettivamente passare dallo studio della malattia mentale alla realtà, ho deciso di farmi raccontare da cinque laureati cosa hanno visto o fatto durante il tirocinio. Dopo averne ascoltati un po', ho selezionato quelli con le esperienze più singolari—rispetto al limitarsi a fare le fotocopie per il proprio tutor o stare in silenzio a compilare moduli—fra episodi scatologici, pestaggi scampati, e competizione.

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MATTEO, 27 anni

Il primo spezzone di tirocinio, sotto raccomandazione del professore di Psicologia Clinica, l'ho fatto in un padiglione di uno di quei complessi comunali pieni di strutture "sociali" della città in cui studiavo: c'era un centro di recupero per tossicodipendenti, un centro anziani e un struttura di supporto per la malattia mentale. Ho passato svariate ore ad assistere alle riunioni di équipe, ai colloqui di gruppo o più raramente a quelli individuali—frequentati soprattutto da pazienti con disturbi della personalità, schizofrenia o disturbi legati alla sfera bipolare.

È difficile spiegare in modo non banale quanto sia forte l'impatto con la malattia mentale e con la sua realtà quotidiana, quando passi da studiare un disturbo schizofrenico sui libri allo stare seduto in un angolo mentre una donna di mezza età cerca di raccontare come suo fratello uccida tutti i vicini di casa che parlano male di lei e poi di notte nasconda i cadaveri nei bidoni della raccolta differenziata del palazzo in cui vive.

Uno dei primi giorni, quando ancora facevo avanti e indietro per accumulare le scartoffie che mi servivano, ho visto uno dei pazienti in piedi sulla ghiaia del parcheggio di fronte al centro fissare intensamente il vuoto. Di colpo, dopo essersi guardato rapidamente intorno e aver visto solo me, si è calato i pantaloni della tuta e accovacciandosi ha lasciato andare uno stronzo gigante sul terreno. Poi allarmato si è si rivestito e camminando velocemente si è avviato verso l'entrata laterale, sotto gli occhi sconsolati di una custode che lo stava osservando dal portone. Dal suo sguardo ho capito che non era la prima volta. Dieci minuti dopo, quando sono uscito con i documenti che mi servivano, lo stronzo non c'era più.

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Dopo pochi giorni di tirocinio mi sono reso conto di quanto questi centri siano luoghi isolati rispetto al resto della società, e di come parte del lavoro quotidiano di un terapeuta che si occupa di casi clinici del genere sia quello di mediare continuamente il rapporto fra il mondo circostante e la realtà di chi ha pensieri talmente frastagliati da far fatica anche solo ad articolare una frase di senso compiuto. Ed è un lavoro costante,per cui serve una forte predisposizione. Che non è esattamente quello che viene fuori, nella sua brutalità, da un manuale di Psicologia Clinica.

BENEDETTA, 29 anni

Durante il mio tirocinio perlopiù ho passato il tempo a somministrare test diagnostici ai pazienti prima dei colloqui e poi a relazionare i risultati, ma comunque anche così hai l'opportunità di parlare per diverso tempo con loro. Il confronto con il lavoro vero e proprio, in questo caso, dipende quasi interamente dalla disponibilità del tutor durante il tirocinio: se capiti nel posto sbagliato, passi il tempo a fare tutt'altro.

Al di là della routine di un reparto, la cosa che mi ha colpito di più durante i primi tempi è stata l'ossessione religiosa di molti pazienti. Diverse storie erano talmente simili fra loro da far quasi impressione: persone che provenivano da famiglie molto chiuse, con legami fortissimi fra loro e pochissimi sbocchi sociali verso l'esterno, e un rapporto morboso con le funzioni religiose. Era come se la religione fosse un appiglio solido per tutti i ricordi irreali e le voci che alcuni di loro sentivano.

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"È quasi impossibile convincere del tutto un paziente del genere che il suo rapporto con la realtà non sia in realtà mediato da un fattore esterno," mi disse il mio tutor quando gli feci presente questa mia curiosità. "I farmaci aiutano, e con la terapia, i lavori di gruppo e il sostegno si può arrivare a fare vivere a questi pazienti una vita soddisfacente e ancorata il più possibile alla quotidianità. Ma convincerli del tutto che le voci che hanno sentito durante i periodi di crisi della malattia non fossero quelle di angeli o esseri malefici, o che non fossero posseduti, è veramente difficile."

MASSIMILIANO, 28 anni

La prima volta che ho fatto una specie di tirocinio è stata durante il primo anno di magistrale, per iniziativa di un professore che ci aveva dato l'opportunità di passare qualche ora nel reparto di psichiatria dell'ospedale della nostra città. Nei reparti di day-hospital di psichiatria solitamente ci sono esclusivamente pazienti con patologie serie, che vengono quotidianamente a prendere i farmaci, e si rifiutano quasi categoricamente, e giustamente, di far assistere qualcuno. La situazione era diventata grottesca, tanto che tartassavamo i vari "tutor" cercando di elemosinare qualche colloquio a cui poter assistere di straforo come se stessimo cercando un allibratore a cui piazzare delle scommesse—talvolta mentre stazionavamo nel corridoio insieme a una paziente che si era urinata addosso e aveva passato il pomeriggio a parlare da sola.

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Era diventata una cosa simil-competitiva alla "ehi che culo Giacomo, ha beccato un depresso clinico con tendenze suicide che lo ha fatto entrare al colloquio!" Questo non è un dialogo realmente accaduto, ma rende bene l'idea. È stata una delle esperienze più stranianti della mia vita. Fortunatamente poi il tirocinio vero e proprio, per quanto spesso noioso, si è rivelato serio.

LAURA, 33 anni

Quando fu il momento di svolgere il tirocinio scelsi una comunità terapeutica per il recupero di persone tossicodipendenti. In base a quello che che era stato il mio percorso, e dietro suggerimento di uno dei miei professori, sembrava la struttura più giusta per quello che mi interessava trattare. In realtà mi sono trovata a fronteggiare una situazione che non ero neanche lontanamente preparata a gestire, anche se perlopiù i miei spazi di interazione si limitavano alle sedute di lavoro collettivo. Una percentuale molto alta dei pazienti di questo genere di centri si trova lì per accesso coatto, obbligata dalla legge—oppure si sono autocostretti dopo che hanno fallito ripetuti tentativi presso strutture diverse, come i Sert—e i rapporti umani sono piuttosto complicati. Visto che la diffidenza è altissima, la questione della fiducia acquista un ruolo ancor più vitale.

Fin dall'inizio vieni messa costantemente alla prova da alcuni pazienti attraverso provocazioni o manifestazioni di freddezza, che vanno dal fissarti con un misto di rabbia e ribrezzo all'urlarti contro durante accessi di rabbia incontrollabile. Ci sono pazienti che si rifiutano totalmente di accettarti all'interno del gruppo, anche se sei stata inserita da un tutor. In queste situazioni o sai acquistare controllo, oppure capisci che non potrai mai ottenere rispetto—è qualcosa che non ha tanto a che fare con la comunicazione diretta.

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La mia presenza non era ben vista da nessuno dei pazienti—alcuni dei quali avevano invece tutto sommato un approccio aperto verso altri tirocinanti—e sembrava infastidire particolarmente una delle pazienti, con cui mio malgrado avevo sviluppato un rapporto strano: non ci eravamo mai parlate direttamente, ma sentivo che mi detestava e che la schifavo. Un giorno, durante una lite particolarmente accesa con un altro paziente, aveva dato in escandescenza e cominciato a mettere la mani addosso a tutti. La dovevano tenere in due. Quando mi ha visto lì attonita che la guardavo impaurita si è accanita contro di me lasciando perdere gli altri e ha cominciato ad urlarmi di tutto: che mi avrebbe strappato la faccia a unghiate, che "non mi avrebbe mai scopato nessuno" e ha tentato di togliersi una scarpa per lanciarmela, senza riuscirci.

Dopo quel giorno ho capito che quel genere di centro non faceva per me, e che ci sono ambiti del lavoro terapeutico per cui bisogna avere un senso dell'autorevolezza che non ha solo a che fare con l'empatia e la capacità di stabilire un contatto con la sofferenza.

SARA, 27 anni

Quando è stato il momento di scegliere il tirocinio mi sono rivolta a un centro per lo studio dei disturbi alimentari che non ospitava pazienti, ma che svolgendo attività di prevenzione effettuava colloqui quotidiani con persone, quasi esclusivamente donne, che soffrivano di anoressia o bulimia.

Nonostante anche io avessi avuto problemi con il cibo da adolescente, e credessi di conoscere quel tipo di disturbo, mi sono presto resa conto che quello che avevo provato non era nemmeno lontanamente paragonabile alla situazione vissuta da alcune delle ragazze che si rivolgevano al centro. Erano soprattutto pazienti giovanissime che si confrontavano con la prima volta con il proprio disturbo, ma nonostante questo alcuni casi erano già al limite della gravità. C'erano ragazze di 15-16 anni che cominciavano ad avere i denti rovinati e ragazze poco più grandi che arrivavano al centro dopo aver passato mesi e mesi riempiendosi di lassativi e diuretici prima che i loro familiari cominciassero a chiedersi qualcosa.

Il caso che mi colpì di più, però, fu quello di una ragazza che nutriva una vera e propria fobia per il cibo: non mangiava perché temeva di soffocare ingoiando del cibo solido. Sembrava che anche solo menzionare il cibo le provocasse uno stato di ansia generale, e si era completamente isolata dal mondo, smettendo di frequentare il liceo e di uscire di casa. Anche la mia tutor mi disse che era il primo vero caso di anginofobia che avesse mai visto.

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