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Country roads take me home

Dove "Home" sta per Voghera, provincia di Pavia, sito del centesimo Rodeo & Wild West Show.

A dieci minuti di macchina dal centro di Voghera, cittadina dell’Oltrepò Pavese conosciuta principalmente per la produzione e il consumo di Barbera, è già tutta campagna coperta di nebbia. Ed è lì, in mezzo alla nebbia, che siamo diretti: alla ricerca del Cowboy Guest Ranch, sito del centesimo Rodeo & Wild West Show, una gara in cui si stabilisce il Campione Europeo in tre categorie: Saddle Bronc Riding (restare in groppa a un cavallo sellato per più di otto secondi); Bareback Riding, (restare in groppa a un cavallo non sellato per più di 8 secondi); Bull Riding, (restare in groppa a un toro non sellato per almeno otto secondi). Il resto delle circa due ore di spettacolo è dedicato a varie performance, come la presa al lazo dei vitelli, o attività che coinvolgono il pubblico come “la consegna della posta” (a settimane di distanza non ho ancora capito di cosa si trattasse), la marchiatura dei vitelli con vernice atossica (di un furbissimo color bianco, il colore tipico dei vitelli), e la caccia alla capretta, in cui circa 200 bambini rincorrono due minuscole caprette per prenderle e traumatizzarle a vita. Tommaso Labranca direbbe che il Rodeo & Wild West Show è una situazione cialtrona: l’elemento culturale “cowboy” viene presentato in maniera talmente stereotipata che diventava impossibile confutarlo. Tutto questo avviene sotto l’occhio vigile e giudicante di Charly Beyssie, fondatore, direttore creativo, arbitro, semi-divinità del Rodeo vogherese. Charly è un signorino di circa 60 anni, nato in Francia, che 35 anni fa è stato il primo europeo della Professional Rodeo Cowboys Association. Tutto questo potere gli permette di farci arrivare in anticipo di un’ora dall’inizio delle attività della giornata per un’intervista negata all’ultimo minuto, poi apparire durante le interviste ad altri cowboy con lo sguardo sospettoso e sparire appena cerco di intercettarlo. Jack, uno degli organizzatori del rodeo, impiegato di giorno e cowboy nei weekend, ci dice che Charly è una persona un po’ particolare, ed è teso per la riuscita del rodeo perché è tutta responsabilità sua. Due fratelli di 19 e 20 anni che non vogliono dire i loro nomi e che, per la quantità di saliva che sputano a terra ininterrottamente, anche mentre parlano, saranno soprannominati i fratelli Lama, dicono, “È uno stronzo, bisogna pagare per partecipare ai suoi rodei e mai che faccia vincere dei soldi.” Appena scoprono che vorrei fargli qualche domanda, aggiungono: “Basta che gli fai due moine e gli dici che gliela darai, e vai tranquilla che si fa intervistare.” Charly è l’uomo che regge la bandiera americana durante l’inno nazionale all’inizio del rodeo (ogni rodeo, ovunque nel mondo, inizia con l’inno nazionale americano. Qui seguiva quello italiano, a cui il pubblico ha risposto con patriottismo e un sottile imbarazzo). È anche il protagonista del momento epico del rodeo: quando si avvicina il tramonto, e la luce passa attraverso i vetri del PalaTexas carica della terra alzata dalle attività precedenti, dieci cavalli senza briglie né sella entrano correndo nell’arena, alzando altra terra, e in una leggera nebbia entra lui, in groppa a un cavallo beige. Mentre gli altri cavalli corrono in tondo, lui resta al centro, e lo speaker comincia a inanellare frasi su cosa voglia dire essere un cowboy di quelli veri, il solitario mandriano, arrivando a descrivere il rapporto tra la persona e il gregge che deve portare in giro come “l’osmosi tra l’uomo e l’animale.” Intanto Charly inizia ad accostarsi a ogni cavallo e ad accompagnarlo gentilmente all’uscita del PalaTexas, come farebbe un vero mandriano. Un mandriano osservato da 1500 spettatori paganti. Al rodeo è facile distinguere le ragazze: quelle vestite molto e in modo appariscente sono le cavallerizze, quelle vestite poco sono le cheerleader. Fabio è un uomo uscito da un film di Sergio Leone. Occhi azzurri sempre stretti, capelli castani ingrigiti, camicia a quadri, gilet, jeans slavati e stivaletto d’ordinanza. Mi viene indicato come persona informata su tutti i fatti del rodeo, dato che è cowboy da 20 anni, anche se a breve lascerà la carriera: “Con l’età, inizio a sentire il peso di tutti gli incidenti che ho avuto, per questo è qualche anno che faccio il pick-up man (ovvero colui che affianca il cowboy quando deve scendere dal bronco). Comunque sto per lasciare anche questa attività. Continuerò a seguire i rodei, ma sto per appendere il cappello al chiodo.” Dopo avergli fatto una domanda sul lavoro del pick-up man, lui guarda a terra, inizia a rispondere in inglese, poi si ferma, scuote la testa e dice “Scusa.” Fabio è di Alessandria. Ma non sono tutti mitomani quelli che hanno a che fare col rodeo. Parlo con Mirko, trentaquattrenne impiegato di Genova che non indossa né la camicia a quadri né il cappello, non è perennemente in posa, eppure è l’ex presidente dell’Italian Rodeo Cowboys Association. Mi spiega cosa ci vuole per essere un cowboy. “Nel rodeo non ci vuole forza fisica, ci vogliono elasticità, testa e tecnica. L’anno scorso ho avuto un incidente e per adesso sono ancora fermo: mi è tornata l’elasticità e la tecnica è rimasta, solo che non ho testa.” Mirko dice che la sua passione nasce dai film western, con i cowboy e gli indiani, e altri rodeisti gli fanno eco. Ma il cinema, recentemente, si è ritorto contro la categoria: Mirko al solo sentir nominare I segreti di Brokeback Mountain abbassa lo sguardo e taglia corto con i commenti, “Non sono riuscito a restare fino alla fine. Me ne sono andato.” Luca, pompiere nei giorni feriali, speaker e ballerino di country dance nei festivi, racconta così il giorno in cui andò a vederlo: “Sono andato al cinema con tutti i miei amici, vestiti di tutto punto, cappelli in testa. All’uscita dalle sale cercavamo in ogni modo di nasconderci, con i cappelli piegati sotto il braccio.” Non è così strano scoprire che in un mondo costruito sulla virilità ci sia dell’omofobia. Nonostante esista una federazione di cowboy gay in America, nel giro italiano gli omosessuali non sono graditi. Jack, con il suo mullet di boccoletti biondi, lo conferma accompagnandosi con incontrovertibili gesti delle mani: “Se ci sono dei gay portateli qui da me. Io sono anti-gay.” Quello che mi ha (stupidamente, forse) stupito è il maschilismo che ammanta le attività del rodeo e la testa di chi partecipa. Il mondo dei cowboy sembra fermo alla ragazze dei bordelli e alle mogli remissive; le poche a destreggiarsi sui cavalli con la medesima bravura dei corrispettivi maschili non possono partecipare alla gara vera e propria, e sono viste un po’ come dei bambini vestiti da chirurgo: pseudo-uomini molto buffi e carini che cercano di fare una cosa che non è il loro mestiere. Le altre donne partecipanti sono cheerleader pudicamente ammiccanti e scosciate, e una cavallerizza rappresentante della categoria “indiani” (appaiono anche loro, per circa cinque minuti, fanno una serie di acrobazie su cavalli in corsa mentre cercano di recuperare dei finti scalpi lanciati sulla la pista del PalaTexas—si ricorda che LORO sono i cattivi, gli strambi indiani con le piume e gli scalpi.) Parlando delle groupie che tormentano i partecipanti al rodeo (sono loro stessi a dirlo), il più giovane dei fratelli Lama mi lancia una massima che è una presa di posizione nell’eterna lotta della donna con la facilità con cui diventa sineddoche: “Le vere puttane non sono quelle che te la danno la prima sera. Sono quelle che ti tengono a parlare tutta la sera fino alle cinque del mattino e poi si fanno accompagnare a casa e se provi a baciarle fanno pure le scazzate. Quelle sono le puttane.” Durante questo discorso, si contorna i piedi di sputi. Stupisce che non lo accompagni nessuna puttana, né di quelle che intende lui, né di quelle che intende la lingua italiana. Il cowboy deve restare sul cavallo almeno 8 secondi, altrimenti gli vengono dati 0 punti. In pochi riescono a restare in groppa per il tempo stabilito. È molto più semplice gareggiare con i tori, animali decisamente più stabili, a causa della loro stazza. L’unica donna protagonista di questo 100° rodeo lo è suo malgrado: verso la fine dello spettacolo, entra in pista una carovana, da cui scende un ragazzo. Lo speaker inizia a chiamare una certa Lara su richiesta di Cristian. Lara scende titubante dagli spalti e quello che abbiamo capito essere il suo fidanzato prende il microfono e con la mano tremante dice queste parole (sono le uniche percepibili): “… la passione comune per i cavalli… Ti amo… Davanti ai nostri amici e parenti…” A questo punto si mette in ginocchio e uno tsunami di AWW sovrasta tutto, anche l’odore di sterco di cavallo: “Mi vuoi sposare?” I miei vicini sugli spalti iniziano a sussurrare “Pensa se gli dice ‘no’, che figura di merda.” Invece lei dice “Sì,” e applaudiamo urlando come non avessimo mai visto quanto può essere stucchevole l’amore. Gli chiedo di raccontarmi della loro storia: “Stiamo insieme da otto anni e avevamo già deciso di sposarci, abbiamo già la data, ma non le avevo fatto la dichiarazione in ginocchio. Mi sembrava bello farla davanti ai nostri amici e parenti, e visto che siamo venuti altre volte al rodeo ho scelto di farla qui.” La futura sposa è felice, ma non apprezza molto tutta questa attenzione: “Volevo la dichiarazione in ginocchio, ma andava bene anche senza un pubblico di mille persone.” A fine giornata sono appesantita da troppo cibo tex-mex e un po’ alienata dalla continua musica country, suonata dal vivo per un totale di circa cinque ore dal violinista virtuosista Anchise Bolchi—di cui ogni performance iniziava con un aneddoto come “Ero in South Dakota, un indiano mi ha cantato questa melodia,” oppure, “Alle gare di violino in South Carolina si suona per ore. Si dice che a un bravo suonatore non si fermano le mosche sulle dita.” L’effetto ipnotico delle line dance spontanee che si formano e sciolgono alla fine di ogni brano mi ha stordita parecchio, e presa da un momento di dolcezza lascio che Mimmo, un altro cowboy, mi parli per un’ora con il cuore in mano della sua passione. Mimmo è forse uno degli uomini più belli che abbia mai visto: se Charlton Heston e Paul Newman avessero avuto figli fra loro, sarebbero così. Ha l’aria di chi sta sempre per tirare una lunga boccata di sigaretta guardando l’orizzonte. Mimmo mi racconta che oltre al lavoro impiegatizio, cura i suoi cavalli: “Mi alzo tutte le mattine alle cinque per vedere come stanno, e a mezzanotte faccio l’ultimo controllo prima di andare a dormire.” Gli chiedo se non teme che la gente pensi di loro che siano qui solo per “fare gli americani”. “Non sono qui perché voglio fare l’americano. Alcuni sono qui perché si divertono a mettersi il cappello, la camicia, a comprarsi il pick-up anche se non devono portare in giro nessuna bestia. A me piace sellare il mio cavallo e andarci in giro quando albeggia. Mi piace andare nel sud degli Stati Uniti dai veri cowboy: sveglia alle cinque del mattino per portare le mandrie al pascolo, stare sempre vicino ai propri animali. È un modo come un altro di vivere la natura, tutto qui.” Quello che capita al PalaTexas quando c’è un rodeo è solo una rappresentazione più buffa di una qualsiasi ibridazione culturale, o di una qualunque conseguenza del Piano Marshall, per cui le persone si avvicinano più o meno superficialmente a un’attività che non ha nulla a che fare con le loro vite abituali—è lo stesso discorso che si può fare tra chi segue abitualmente il football americano perché l’ha sempre fatto e chi organizza cene a tarda notte con gli amici per seguire il Super Bowl senza sapere chi sia il tight end. Citando ancora Labranca, “L’aspetto positivo del cialtronismo è che spesso si cade nel ridicolo, quello negativo è che il cialtrone conscio del proprio cialtronismo prende in giro il prossimo.” In definitiva, siamo tutti stronzi. Solo che questi stronzi hanno una struttura organizzata apposta per loro, in un paesino circondato dalla nebbia con un nome molto buffo.