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A9N5: Sauna salvadoregna

Evoluzione stupefacente

Giorgio Samorini studia i cambiamenti delle specie passando per le droghe.

Illustrazione di Ciro Fanelli.

Ho contattato Giorgio Samorini per parlare della ristampa del suo libro Animali che si drogano, un volume sulla drogologia interrato in una libreria sotto Piazza Duomo a Milano. Una volta terminato il libro, inviate domande e ricevute risposte da località estera e segreta, mi sono accorta però che il suo studio va ben oltre le capre fatte di khat.

Samorini infatti con la Scienza delle droghe sta cercando di creare le basi per una vera e propria rivoluzione scientifica. Co-fondatore ex-presidente della Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza, mira a ripetere quanto è successo tra il Cinquecento e il Seicento, quando un filosofo o uno scienziato che avevano un’illuminazione poi finivano per illuminare anche i loro compaesani dal centro della pubblica piazza. Cambio di paradigma. Un sistema funziona finché le eccezioni alla regola si possono classificare come tali, ma nel modello evoluzionista le eccezioni sono troppo numerose. Che potrebbe voler dire, non sono eccezioni.

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La Fenomenologia delle droghe non appartiene al pensiero occidentale, che le ha sempre considerate solo un problema socio-sanitario; “Le motivazioni sono complesse,” dice Samorini, e girano intorno alla risposta che la società ha dato alla domanda “Perché ci droghiamo?” A rappresentare tale risposta è chiamato Tolstoj, “La causa dell’universale diffusione dell’hashish, dell’oppio, del vino, del tabacco, [è] solamente nel bisogno di nascondere a se stessi le indicazioni dateci dalla coscienza.” Sì sì fa Pasolini nelle sue Lettere Luterane: la droga è un problema di degenerazione sociale. In realtà è il nostro modo di pensare e assumere la droga a essere degenerato, perché invece, ribatte Samorini, “storicamente, il motivo fondante dell’uso delle droghe risiede nell’intenzione di conseguire una maggiore comprensione della realtà, non di fuggirla.” Tanto è vero che oltre a noi, e meglio di noi, si drogano gli animali, gli antichi e le società tribali.

Il precursore della Scienza delle droghe è stato Paolo Mantegazza, che sul finire dell’Ottocento ha fondato la Scienza degli alimenti nervosi per studiare con un’apposita disciplina multisfaccettata “l’aspetto fenomenologico delle droghe distinto dagli aspetti patologici associati al loro uso improprio.” Ma dai tempi di Mantegazza non abbiamo fatto grandi passi avanti. “Non esiste al mondo alcun Dipartimento universitario che si dedichi specificatamente alle droghe, e il personale medico-assistenziale che si occupa di tossicodipendenze non ha alcuna formazione specifica.” Tuttavia, un’equipe di chimici, biologi, antropologi, etnobotanici persevera, tra cui Samorini stesso: “Mi considero appartenere alla terza generazione di questo tipo di studiosi, i ‘drogologi’—come un po’ ironicamente amiamo definirci.”

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Giorgio Samorini. (Foto per gentile concessione di Giorgio Samorini)

Gli animali dunque si drogano, “si curano, hanno attività sessuali prive di finalità procreative inclusa l’omosessualità, e sono dotati di una qualche forma di coscienza e di pensiero.” Gli etologi, però, mettono la testa nella sabbia, riluttanti a uscire dagli schemi sui quali si sono formati.

Infatti, chi aveva già osservato il fenomeno junkies tra gli animali ne aveva tentate interpretazioni accomodanti. Una, il behaviorismo, negava qualsiasi intenzionalità all’animale, e ne spiegava i comportamenti curativi come tentativo di ricomporre il proprio equilibrio omeostatico. Samorini illustra le pecche di questo pensiero, che “si trova in difficoltà nello spiegare perché un gorilla, dopo aver mangiato le radici eccitanti della pianta dell’iboga che utilizza come droga da combattimento, attenda sino a due ore che gli salgano gli effetti della droga prima di cimentarsi nel combattimento. Gli animali non ‘saprebbero’ che quella determinata foglia li fa guarire dai loro vermi intestinali, bensì ‘saprebbero’ che la foglia li fa sentire meglio. Il problema è il riconoscimento o meno di una qualche forma di coscienza, e quindi di intenzionalità, animale. Del resto, pur negando agli animali degli stati psicologici, ‘mentali’, la ricerca sugli psicofarmaci è da decenni basata su esperimenti sugli animali impiegati come modelli degli stati psicologici umani. È evidente che c’è qualcosa che non torna.”

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La seconda ipotesi che è stata avanzata è l’evolutionary hangover, o “risacca evolutiva”. Secondo questa teoria nel corso della storia gli animali frugivori, tra cui io e voi, si sarebbero adattati alle basse quantità di alcol della frutta matura o in marcescenza: come il moscerino della frutta si riproduce solo in un ambiente alcolico, per l’uomo un moderato consumo di alcol è salutare. Secondo la teoria del post-sbronza evolutivo, l’uomo non avrebbe avuto invece il tempo di adattarsi al consumo di forti alcolici artificiali; da qui il problema dell’alcolismo cronico. Pars destruens Samorinis: “Gli animali, quando si drogano, si drogano molto, dove questo ‘molto’ dovrebbe essere forse sostituito con ‘in maniera sufficiente alle loro esigenze, o forse alle loro preferenze.’ Gli animali, come gli uomini, preferiscono drogarsi ‘molto.’ Sono gli stessi animali a insegnarci che il limite fra moderazione ed eccesso non può essere posto come base valutativa o interpretativa del rapporto degli esseri viventi con le droghe.” Per esempio, dovreste fuggire i pettirossi americani come un’orda di ultras, “ubriachi fradici, questi uccelli a migliaia invadono le vie delle città californiane, si scagliano contro i gatti, sbattono contro i vetri i di case e automobili, si rotolano nel fango delle pozzanghere.”

Samorini a queste teorie oppone le ipotesi della funzione adattiva e della funzione biologica primaria a livello della specie, che vedono nell’assunzione di droga un meccanismo responsivo a certe condizioni—le cui variabili e finalità “restano da chiarire.” In sintesi, la giraffa funzionale alla specie potrebbe non essere quella con il collo più lungo, che va bene finché per sopravvivere è necessario brucare le foglie più grasse e quindi più in alto, ma la giraffa che masticando le radici psicotrope ha creato una diversa soluzione a un diverso problema—che magari momentaneamente neanche si pone. “Se l’assunzione di droghe svolge in natura una qualche funzione, e verificato che quasi sempre è solo una parte dei membri di una specie a drogarsi, questa parte svolgerebbe questo ‘compito’, piacevole o gravoso che sia, per tutta la specie. Puntualizziamo comunque che mi sto riferendo all’utilizzo naturale delle droghe, e non agli usi impropri così diffusi fra la popolazione umana.”

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Il compito delle giraffe drogate, nello specifico, sarebbe quello di farsi portatrici del fattore PO [così chiamato estrapolando una sillaba da “poesia”, “ipotesi”, “supposizione” e “possibile”, tutte parole che suggeriscono il movimento associativo e l’intraprendenza del pensiero laterale], inizialmente studiato negli anni Sessanta dall’americano Edward De Bono come funzione anti-linguaggio. Se il linguaggio è una riproposizione e un consolidamento di schemi già noti, PO facilita la “fuga da questi modelli,” e nel campo strettamente linguistico è legato a humor e guizzo dell’intuizione. In campo biologico, invece, sarebbe lo strumento de-schematizzante il cui compito è liberare da idee rigide e categorizzanti, e spingere ad accettare idee incoerenti con le necessità immediate, ponendo così la prima pietra di accidentate nuove vie. È proprio PO, che potremmo chiamare un fattore illogico in quanto contrapposto agli strumenti cristallizzati della logica della conservazione della specie, che “aumenta il grado di incertezza e quindi le possibilità di trovare nuovi percorsi nella mente. Anche gli effetti dell’LSD e delle sostanze psichedeliche in generale sono potenzialmente de-schematizzanti, e in ciò sta la loro analogia con il fattore PO.” Provo a buttare nel discorso Timothy Leary, ma Samorini non ha “nessuna simpatia per Leary.” Oh :(

Cerchiamo ora di capire come si inseriscono gli psicoviaggi all’interno di un’ottica di specie, ovvero come le scoperte delle giraffe tossicodipendenti sopravvivono e servono nell’avvicendarsi delle generazioni.

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I più recenti studi evidenziano la possibilità che la conoscenza non si muova da singoli individui ma nella specie. Cioè, che quello che so io lo sai anche tu, secondo un modello di pensiero che deve molto all’olismo di Kuhn, Capra, Wiener. “Nel mio libro,” spiega Samorini, “utilizzo il concetto olistico, ancor prima che come ‘il tutto che è superiore alle parti,’ nel senso della ‘parte che contiene il tutto’; un meccanismo la cui esistenza è stata confermata dalla Non-località quantistica. A livello sub-atomico, quantistico, una particella—che non è più una particella bensì un’onda—non si trova in luoghi specifici dello spazio-tempo, bensì si trova ‘ovunque’; in questo senso in ogni ‘luogo’ materiale v’è il tutto. In ogni mente umana v’è ‘tutto il resto’. Sempre a livello quantistico della materia, quando due ‘particelle’ sono accoppiate fra di loro (in entanglement), l’informazione di una modifica di qualità che si verifica in una di queste raggiunge istantaneamente l’altra, indipendentemente da quanto distanti siano fra di loro.”

La copertina di Animali che si drogano.

Ed eccoci per diretto entanglement alla teoria del Genoma fluido, un’eresia “su cui mi soffermo con simpatia e dubbio al contempo”: quello che un individuo esperisce nel corso della sua vita, incluse eventuali esperienze psicotrope, può modificare direttamente i suoi geni, evitandogli la lunga trafila della selezione naturale. Non è una teoria isolata, ma anzi è oggetto di numerose varianti, tra cui Samorini evidenzia quella di Kull, l’“evoluzione auto-genica”: stando a Kull, l’organismo sarebbe un sistema auto-organizzantesi, e potrebbe dirigere il corso della propria evoluzione utilizzando il DNA non come struttura statica e limitante, ma come un mazzo di carte da cui pescare.

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Come da teoria della Non-località, questa modifica genica entra direttamente nel “DNA” della specie, fluttuando al di fuori dei contorni macro-fisici del singolo. “Verificato che tutta la materia, sia fisica che biologica, è costituita di atomi e di quanti, il fenomeno della non-località (e non-separabilità) quantistica investe tutta la materia, compreso l’uomo.” Stando alle ultime scoperte della fisica, la sede della comunicazione quantistica nell’essere umano sarebbero i microtuboli presenti nei neuroni.

L’introduzione del diretto collegamento tra il singolo e la specie serve anche a non farsi fuorviare dalla tendenza a considerare una vita meglio riuscita quando di lunga durata. La vita del singolo individuo assume infatti importanza per l’intera specie proprio perché è votata ad azioni, il consumo di droghe, che la rendono breve.

Il futuro della scienza sarà, pertanto, l’illogicità—che in tal caso forse a torto chiameremmo “illogicità”? “Il mondo biologico ha bisogno anche dell’illogicità per evolversi, e la sua funzione risiede nell’esistere. Se esiste significa che deve esistere, far parte del grande gioco biologico.” Laddove la biologia tradizionale e il darwinismo ritenevano che le linee evolutive si determinassero in condizioni di scarsità di risorse, Samorini sostiene, in accordo con la teoria dell’Esuberanza Biologica (diretto correlativo biologico della fisica Teoria del Caos), che ”l’estremo e l’eccesso sono funzioni comportamentali, anzi, sono fattori evolutivi importanti quanto la moderazione e il principio di conservazione.”

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Ovviamente, non si può chiedere al darwinismo ortodosso di accettare l’illogicità come fattore evolutivo, perché, pur non essendo in grado di spiegare una serie di fenomeni—dalla convergenza delle forme inorganiche e organiche, alla non corrispondenza dei tempi evolutivi, alla somiglianza tra specie che vivono in aree geografiche lontane—dichiarare che il razionalismo non può rispondere ad alcune domande significherebbe lasciare aperti molti spazi all’incursione del “Dio delle lacune”. Eppure le convergenze tra Creazionismo e Darwinismo sono talvolta lampanti: basti pensare alla considerazione di uso di droghe e omosessualità come fenomeni patologici. Ma anche i ghiacci darwinisti stanno iniziando a scricchiolare, e alcune delle teorie di cui abbiamo parlato—per esempio il genoma fluido—sono frutto proprio del figlio degenere del darwinismo, il Post-darwinismo.

Se l’evoluzione ci richiede, come sembra stia facendo in questi ultimi decenni, “un maggiore fatturato esperienziale”, non significa che siamo giustificati nel fare uso “improprio” di droghe. Significa che dovremmo rieducarci a considerare le cose da un punto di vista diverso: l’abuso di sostanze è un fattore naturale, e si realizza all’interno di una società umana come in qualsiasi altro ecosistema, perché la società “partecipa anch’essa al ‘gioco’ della natura.”

E per rieducarci, da un lato dovremmo renderci conto della superficialità dei limiti che abbiamo tracciato—un po’ troppo netti e arbitrari come quelli dello Utah—tra alimenti, medicine e droghe: il discrimine in natura è vago, basti pensare che le foglie di coca per le popolazioni del Sudamerica svolgono tutte le funzioni del farmacòn greco, veleno e medicamento. D’altra parte “consideriamo tutte le volte in cui il cibo viene assunto ‘come fosse una droga’—è il caso ad esempio, del ‘nutellismo’, una patologia che affetta specificatamente gli italiani,” fa notare Samorini.

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Anche la comunità scientifica, la punta più avanzata della “specie”, non è ancora pronta al cambiamento, che investe sì la nostra relazione con le sostanze, ma anche tutto il nostro pensiero: “Come diceva il fisico Heisenberg, affinché un nuovo paradigma scientifico possa essere accettato e quindi studiato, si deve attendere il ricambio generazionale dei ricercatori.”

Ci troviamo in quel momento storico in cui gli “scienziati PO” propongono strade nuove che la società, macinando la sua lotta per l’auto-conservazione, cercherà di ignorare almeno finché basterà allungare il collo per brucare le foglie più grasse.

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