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Il caso Aldrovandi non è mai finito

Siamo stati alla manifestazione "Via la divisa", organizzata dalla famiglia e gli amici di Aldrovandi per chiedere il licenziamento degli agenti condannati, l’introduzione dei numeri identificativi per i poliziotti e l’approvazione del reato di tortura...
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Foto di Filippo Massellani.

C’è una scena della vicenda di Federico Aldrovandi che mi è sempre rimasta particolarmente impressa. È il 26 giugno del 2008, e dopo 1.013 giorni di silenzio dalla morte di Federico, avvenuta a Ferrara all’alba del 25 settembre 2005, i quattro agenti accusati dell’omicidio vengono finalmente interrogati nel processo di primo grado.

Il capopattuglia Enzo Pontani descrive Federico, un tranquillo ragazzo di 18 anni, come un demone di centinaia di chili che “ringhiava” e pareva posseduto da forze maligne. “Faceva dei salti su se stesso, aveva gli occhi fuori dalla testa,” dichiara Pontani. “Inizialmente sembrava un extracomunitario. Quello che mi ha sconvolto in quel momento era il collo: aveva un collo taurino con delle vene che gli uscivano. Io non so, non avevo mai visto una cosa del genere. […] Sembrava che volesse mangiarmi la testa.”

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Le telecamere staccano sul volto di Lino Aldrovandi, il papà di Federico, e registrano un’espressione che è al contempo incredula, esasperata e sdegnata. È l’espressione di un padre che non solo deve sopportare il dolore di aver perso un figlio, ma che è costretto ad assistere all’intima violazione della sua memoria. È sicuramente uno dei momenti più bassi dell’intero caso—e purtroppo non è stato (e non sarà) l’ultimo.

Dopo la sentenza definitiva di condanna per “eccesso colposo in omicidio colposo” del 21 giugno 2012, l'agente Paolo Forlani aveva insultato Patrizia Moretti (madre di Aldrovandi) su Facebook, definendola una “faccia di culo” e una “falsa e ipocrita.” Il 27 marzo 2013 il sindacato di polizia Coisp aveva organizzato un sit-in di solidarietà per i colleghi condannati nel centro di Ferrara. Gli agenti non si erano radunati in un luogo qualunque, ma proprio sotto l’ufficio di Patrizia Moretti. La madre aveva risposto alla provocazione scendendo in piazza in lacrime ed esibendo la foto del corpo massacrato del figlio.

L’ultimo episodio in ordine cronologico è stato il reintegro in servizio dei quattro poliziotti, seppure in ruoli “di carattere amministrativo”. Il 13 febbraio 2014 il Ministero dell’Interno, rispondendo a un’interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle, ha confermato che, “in considerazione della natura non dolosa della condotta, è stata ritenuta congrua la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio, rispetto a quella più grave della destituzione.” Gli Aldrovandi e gli amici di Federico hanno così deciso di indire una manifestazione il 15 febbraio 2014 per chiedere il licenziamento degli agenti condannati, l’introduzione dei numeri identificativi per i poliziotti e l’approvazione del reato di tortura nel codice penale.

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Il punto di partenza della mobilitazione è via Ippodromo, a Ferrara. È in questa strada che gli agenti Enzo Pontani, Paolo Forlani, Luca Pollastri e Monica Segatto hanno “bastonato di brutto” Federico, con “condotte incaute e drammaticamente lesive” che hanno causato la morte violenta del ragazzo. Ed è sempre qui che il cadavere è stato lasciato all’aria aperta per ore e ore, senza che nessuno abbia avuto la decenza di coprirlo con un telo.

Prima dell’inizio parlo con alcuni amici di Aldrovandi. “L’infame pestaggio” di Federico, come lo definisce uno di loro, li ha segnati tutti in maniera indelebile. Nulla è stato più come prima: da normali ragazzi di provincia, gli amici di Federico sono diventati i protagonisti di una durissima lotta tra un sistema di potere impegnato a coprire un abuso e una famiglia decisa a ristabilire la verità.

Matteo Parmeggiani, che quella sera guidava la macchina in cui c’era anche Aldrovandi, ricorda di essere stato catapultato in “un clima irreale, da film. Non pensi che nella realtà certe cose possano succedere.” "Noi amici siamo stati accusati sin dall’inizio," aggiunge Lorenzo Micheli, "ed è stata dura far ricordare Federico com’era realmente e non come lo volevano loro.”

Le prime ricostruzioni ufficiali parlavano infatti di un individuo violento sulla trentina d’anni, “vestito da centro sociali,” tossico, tatuato e autolesionista, morto per un malore non meglio precisato o addirittura per overdose. Paolo Burini, un altro amico di Federico, ha citato durante il processo le testuali parole con cui un poliziotto l’aveva informato della morte di Aldrovandi: “Il tuo amico è morto perché era un drogato. Anche tu sei un drogato. Lo sappiamo che siete tutti drogati. Dimmi da chi prendete la droga.”

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“La prassi che seguono è quella di mettere gli amici dalla parte del torto,” afferma Andrea Boldrini, un amico di Federico nonché uno degli organizzatori della manifestazione. “Quando succedono questi casi di violenza da parte delle forze dell’ordine, viene sempre fatto un processo alle intenzioni e alla vita della vittima. Riescono a insabbiare tutto seguendo questa prassi.”

Grazie soprattutto alle denunce e al coraggio della famiglia Aldrovandi, Andrea spiega che “abbiamo fatto un sacco di passi avanti in questa storia, abbiamo dato un precedente che prima non c’era.” Da un certo punto di vista, come mi dice Matteo, sentono di “aver fatto un po’ da apripista, perché comunque siamo gli unici a essere riusciti ad ottenere una condanna.” Sebbene siano arrivate le condanne, per Andrea la conclusione di questa storia rimane comunque tragica: “Io ho perso un amico, Patrizia ha perso un figlio e in tutto questo non c’è niente di positivo.”

Il corteo, formato da circa 5.000 persone, comincia a muoversi verso le tre di pomeriggio. A reggere lo striscione d’apertura non ci sono solo gli Aldrovandi, ma anche parenti e familiari delle troppe vittime di polizia di questi ultimi anni.

Per le strade di Ferrara sfilano anche alcuni sopravvissuti ai pestaggi. Paolo Scaroni, ad esempio, è un tifoso del Brescia che il 24 settembre 2005 (il giorno prima della morte di Federico Aldrovandi) fu spedito in coma dalle manganellate dei celerini nel corso di una violentissima carica alla stazione di Verona. Scaroni è sopravvissuto per miracolo, ma è rimasto invalido al 100 percento. Nel gennaio del 2013 il Tribunale di Verona ha assolto gli otto poliziotti accusati del pestaggio. “Determinante nella decisione del giudice,” si legge in un articolo, “è stato il taglio e la manipolazione del filmato girato dalla stessa Polizia, che riprese i momenti delle violenze.”

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Accanto allo striscione che recita “#vialadivisa” c’è anche Arnaldo Cestaro, pensionato reduce della “macelleria messicana” della Diaz che non si è mai perso una singola manifestazione organizzata dalla famiglia Aldrovandi.

Arnaldo Cestaro mentre regge in mano la foto ricordo del suo G8 di Genova: un braccio, una gamba e dieci costole fratturate.

Il fatto che i familiari delle vittime degli abusi della polizia manifestino insieme è altamente simbolico. Secondo l’avvocato Fabio Anselmo—il legale che ha seguito il caso Aldrovandi e molte altre vicende analoghe—le problematiche di questi casi “sono sempre le stesse, così come lo sono le strategie di disinformazione e le strategie processuali, sia nei contenuti che nei metodi. Quello che vediamo in Ferrulli l’abbiamo visto in Cucchi, in Aldrovandi e via dicendo. Le tecniche di difesa e di offesa nei confronti della vittima del reato e dei familiari della vittima purtroppo sono sempre uguali.”

L’avvocato Fabio Anselmo.

La coda del corteo è formata principalmente dagli ultras, che scandiscono cori e slogan: “Son solo quattro assassini;” “giustizia per Federico;” e così via. La manifestazione, nel frattempo, raggiunge lentamente il centro di Ferrara.

All’altezza del Castello Lino Aldrovandi sale sul camion per parlare. Dopo aver ringraziato i presenti, il padre di Federico si esprime piuttosto duramente sul reintegro degli agenti dietro una scrivania: “Quasi la vedo come una sorta di premio. Molti poliziotti vorrebbero andare in ufficio al posto loro, per tanti motivi. E non hanno ucciso.”

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“La vita e il sangue di un figlio non ha prezzo,” continua Aldrovandi. “Oggi siamo a chiedere con ancora più forza e determinazione, senza odio né astio, che quelle persone vengano licenziate. Perché, attraverso le parole dei giudici, hanno disonorato, discreditato e disatteso il loro giuramento, violando quanto di più prezioso esista nell’essenza del concetto di Polizia: proteggere la vita.”

Verso le cinque di pomeriggio i manifestanti arrivano davanti alla prefettura. È a questo punto che Patrizia Moretti, che il 15 febbraio compiva gli anni, tra l’altro, prende la parola per fare un breve discorso: “Adesso siamo vicino alla Questura e lo dico a voi e a loro: sappiate che ci saranno sempre le famiglie. Ci saranno sorelle, figli, madri, mogli… E io, come mamma, lo grido forte: non staremo zitte, non lasceremo correre, non ci stancheremo di chiedere giustizia finché non l’avremo ottenuta.”

Subito dopo la fine del discorso una delegazione composta dalla stessa Moretti, da Lino Aldrovandi e dagli amici entra in prefettura per incontrare il Prefetto e presentargli una serie di richieste. Al ritorno, Andrea Boldrini afferra il microfono e legge un testo scritto da Paolo Burini, che non è potuto essere fisicamente presente alla manifestazione.

“Che cosa avevo imparato dalla morte del mio amico?”, si domanda Burini. “Credo di aver imparato che la gente ha paura delle cose sbagliate. […] Tutti abbiamo paura dell’uomo nero, dello sbandato, tossico, che ci aggredirà e deruberà in un vicolo freddo e buio quando meno ce lo aspettiamo.”

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Il messaggio prosegue così: “Nessuno invece fa mai incubi ambientati in uffici in cui alte cariche dello Stato, sedute su comode poltrone, discutono quale sia la strategia migliore per insabbiare l’ennesimo brutale atto di repressione realizzato dalle cosiddette forze dell’ordine. […] Eppure è proprio questo genere di crimini ad avere un impatto devastante sulla nostra società democratica.”

L’abbraccio tra Paolo Scaroni e Lucia Uva, sorella di Giuseppe Uva.

Le reazioni alla manifestazione di Ferrara non si sono fatte attendere. Il giorno seguente, domenica 16 febbraio, il presidente del sindacato di polizia Sap Gianni Tonelli ha denunciato l’“accanimento contro gli operatori delle forze di polizia” e la “pelosa macchina del fango che mistifica la realtà dei fatti trasformando, spesso, i violenti in eroi e i poliziotti in delinquenti.” Tonelli ha anche dichiarato di voler lanciare la campagna “#vialamenzogna” per difendere “le vere vittime” degli abusi di polizia, ossia i poliziotti stessi. Sul serio: per Tonelli, le “vere vittime” del caso Aldrovandi non sono Federico e la famiglia; sono “i nostri colleghi.”

Al netto di simili provocazioni, che continuano nonostante una sentenza definitiva, il caso Aldrovandi è sicuramente stato uno spartiacque nella storia recente dell’Italia. Un punto di rottura in cui, come dichiara l’avvocato Fabio Anselmo, “un ragazzo di 18 anni, non in un contesto di manifestazione o ‘violento’, da solo, incensurato, che non aveva mai fatto del male a nessuno, è morto durante un fermo. È chiaro che Aldrovandi ha fatto aprire gli occhi a tanta gente.”

Quella mattina di nove anni fa non è stato semplicemente ucciso un ragazzo. È stato ucciso uno dei pilastri che regola il patto sociale tra istituzioni e cittadini. È questa, come sottolinea Matteo Parmeggiani, la chiave di volta che permette di capire la vita e la morte di Federico. Il 25 settembre 2005 Aldrovandi poteva essere il “figlio di chiunque, poteva essere chiunque.”

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