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I film della Berlinale che non sono Cinquanta sfumature di grigio

Orientarsi nel programma della Berlinale è impresa più ardua che piacevole. Ci ho provato, e questo è un resoconto appassionato dei film visti, disprezzati e amati in questi giorni di festival.

Da Ned Rifle di Hal Hartley.

Arrivo dieci minuti in ritardo e non mi fanno entrare alla proiezione delle 9:30. Alla mia richiesta di fare un'eccezione—dopotutto sono solo dieci minuti—la maschera mi rifiuta l'ingresso con tipico piglio germanico. "Empatizzo con la tua situazione, ma abbiamo direttive precise. Non posso farti entrare."

"Empatia, ma no." Un crudele sunto della mia vita?

Tant'è. Quello che bisogna innanzitutto dire della 65esima Berlinale, e di ogni Berlinale, è che orientarsi nel programma è impresa più ardua che piacevole. I primi anni mi facevo dei file Excel, tanto per rendere conto della sfiga; quest'anno ci ho messo 12 ore a costruire un programma su misura per le mie esigenze, salvo poi non riuscire a rispettarlo causa la mia fallimentare predilezione per l'arrivare in ritardo.

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Ma insomma, questo per dire che, nonostante un po' di pezzi persi lungo il cammino, quello che segue vuole essere un resoconto appassionato dei film visti, disprezzati e amati in questi giorni di festival che si concluderà domenica. La Berlinale è nota per promuovere cinema altrove trascurato, come i film a tematica LGBT o produzioni dell'Europa orientale. Ma in realtà i filoni rintracciabili sono dei più vari e credo rispecchino lo spirito di quest'edizione più che le varie sezioni del Festival.

I vecchi
In un'edizione in cui i nomi in concorso non colpiscono per eccezionalità, spiccano quattro nomi che solo a leggerli diresti che potrebbero sorreggere un intero festival: Herzog, Greenaway, Malick e Wenders, quest'ultimo fuori concorso. Se di Malick, che io "aborro", è stato detto bene (aka struttura narrativa tradizionale, no allucinazioni vegetali) al punto da spingermi a recuperarlo domani, gli altri tre ragazzoni mi hanno reso la vita assai difficile. Partiamo da colui che ha fatto bene: Greenaway propone una para-biografia, o meglio, rappresenta un episodio cruciale della biografia di Sergei Eisenstein.

Eisenstein in Guanajuato racconta la permanenza dello storico regista in Messico, supportata per più di un anno dal mecenatismo di Upton Sinclair. Lontano dalla madre Russia Sergei può sperimentare in tutti i sensi, ed è qui che finalmente aprirà natiche e cuore al suo amore omosessuale e perderà la verginità alla veneranda età di 33 anni, in concomitanza con l'anniversario della Rivoluzione d'Ottobre. A infilare il viril proposito è la guida che gli è stata assegnata, un ometto messicano tutto nervi e verga (grande e rigidissima!) che risponde al nome di Alberto Canedo. Il film è strano; a tratti irregolare nei suoi salti temporali, onirico quasi al limite del sopportabile, fin troppo energico nella scrittura e nella recitazione… però assai divertente e, soprattutto, chiaramente molto sentito. Quasi solo nel nome della simpatia, accettiamo la devozione di Greenaway per Eisenstein e decidiamo di amarlo per interposta persona: ci godiamo le sue declamazioni, le vergogne nascoste e poi esposte, il corpo mobile e inanellato alle meravigliose (davvero) illustrazioni che, insieme ad alcuni estratti filmici, forniscono il contrappunto visivo indispensabile per celebrare l'inventore del montage.

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Gli altri vecchiardi, Herzog e Wenders, mi hanno invece gettato nello sconforto.

Ma cosa dico. Nell'indignazione.

I due sono tipo i capisaldi della mia residenza germanica nonché esempio di una carriera perlopiù coerente e d'eccellenza.

Werner Herzog propone una Nicole Kidman vergine ventenne ma assetata di conoscenza che nell'arco di vent'anni diventa l'esperta numero uno del deserto egizio e dei suoi abitanti beduini. La materia grezza è storia vera, come è grezza l'interpretazione di James Franco (il devoto innamorato) che come sempre recita nel ruolo di se stesso colto in flagrante per aver intasato il water. Per fortuna crepa subito. Quindi: deserto, beduini, Kidman, colonna sonora con lamenti arabeggianti. Ah, c'è anche Robert Pattinson che fa Lawrence d'Arabia. Dopo due terzi del film sono uscita: Queen of the desert è pretenzioso (non ambizioso) al punto da diventare ridicolo, scritto e interpretato pessimamente ed esteticamente convenzionale, poverissimo, offensivo.

Il compito di tirarci su spettava un paio di giorni dopo a Wim Wenders, con Every Thing Will Be Fine. James Franco è qui protagonista (e ogni volta che James Franco fa un film drammatico la nostra galassia accelera verso il buco nero più vicino), investe un bambino per sbaglio e passa il resto del film a fare finta che va tutto bene. Il tutto in 3D. Tanto il 3D aveva senso in Pina quanto qui eleva il film da boiata semplice a boiata pazzesca. All'inizio lo troviamo scrittore tormentato, egoista ed impenetrabile (= sopracciglia aggrottate di Franco™), che si dimena tra il senso di colpa, donne che gli chiedono "Trema con me!" e case canadesi dagli interni borghesissimi. Passano gli anni e, mentre la Gainsbourg (madre del bambino ucciso) cresce l'altro figlio facendo, tipo, l'illustratrice botanica, James Franco diventa autore di grande successo, e tutto grazie al male che lo abita. Lo salutiamo che tutto finisce bene (= gengive ritratte di Franco™).

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Se era una risata che ci doveva seppellire, qui ci interra lo sbadiglio dell'eternità. Quand'è successo che due registi così cruciali per l'evoluzione della storia del cinema sono diventati così borghesi? Cosa dico, la borghesia ha certo anche il suo fascino; qui è il conformismo che fa male.

Il bunga
La mia amica Alessandra ha ridotto all'osso una posizione cinematografica molto legittima: "Se non c'è neanche un bunga, io mi annoio." In questa Berlinale, forse per congiunture astrali stranamente favorevoli, mi sono persa i film a tematica sessuale. Se l'anno scorso avevamo le mutande croccanti per Nymphomaniac, quest'anno l'offerta è per palati (a-ehm) meno sofisticati. Programmato per il famigerato weekend di S. Valentino, Potsdamer Platz è stata invasa da poster di Cinquanta sfumature di grigio. Ogni volta che ne vedo uno, le parole "capezzoli," "spazzola" e "anacardo" si materializzano nella mia mente e vengo presa da un'urgente necessità di correre in bagno. In pratica un servizio digestivo con la faccia di Jamie Dornan.

Altro film che ho ignorato, in concorso, è il misterioso Angelica, film di Lichtenstein figlio, ambientato nella Londra di fine Ottocento e con Jena Malone nel ruolo di una giovane moglie costretta a praticare l'astinenza dopo il parto. Da quello che ho sentito, le sue fantasie erotiche iniziano a manifestarsi nelle fattezze di fantasmi a forma di pene. La mia fonte è piuttosto affidabile dato che ha riassunto il film così: "Casper raccontato da Melissa P."

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Un film che invece mi spiace perdere è l'adattamento cinematografico di una pièce teatrale di Lukas Bärfuss. Dora oder Die sexuellen Neurosen unserer Eltern (Dora, o le nevrosi sessuali dei nostri genitori) racconta la vicenda di una ragazza con handicap mentali che—interrotta l'assunzione di alcune medicine—scopre il proprio "appetito" sessuale e lo soddisfa come si deve, salvo poi rimanere incinta. Anche se fa un po' Tempesta d'amore e un po' Squadra Speciale Cobra 11, la tematica mi incuriosisce e penso che meriti una visione, per lo meno per testare le nostre reazioni all'argomento.

Gli italiani
Pochi i nostri compatrioti alla Berlinale, ma un paio non trascurabili. Oltre alla commemorazione dedicate a Francesco Rosi e a due esordienti (Lamberto Sanfelice con Cloro e Duccio Chiarini con Short Skin, a detta della mia fidata metà: "Menzione speciale per ambientazione in Versilia / Forte dei marmi. No solita toscana e nemmeno scugnizzi terroni che uccidono polpi sbattendogli la crapa su scogli—anche se qui, il polpo ha in effetti un ruolo interessante, SPOILER"), in concorso spicca Vergine Giurata di Laura Bispuri. La cosa, nonostante la presenza di Alba a-ehm Rottweiler deve farci piacere perché è un debutto nel lungometraggio. Ne so pochissimo, ma dovrei riuscire a vederlo se riesco a finire questo articolo in tempo: quello che più mi attira è l'ambientazione balcanica e le questioni di genere, poiché la Alba decide di seguire un'antica tradizione albanese e condurre parte della sua esistenza da uomo.

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Altra produzione proprio italicissima è 1992, la nuova serie di Sky Cinema creata da Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi (squadra Gomorra) e Stefano Sardo. 1992 significa scoppio di Tangentopoli, televisori in pompa magna e preparazione alla discesa in campo di Berlusconi. Ma anche, l'infanzia di molti di noi. È un periodo che conosco bene ma non ricordo e devo dire che i primi due episodi sembrano riuscire piuttosto bene, con un paio di scene fantastiche e una ricreazione piuttosto fedele dell'epoca. Se mi manca l'elemento "esotico" che avevo tanto amato in Gomorra e vedo Milano come l'antitesi del cinematografico, 1992 sembra ovviare abbastanza bene a questo problema, nonostante recitazione e cast più convenzionali rispetto a quelli napoletani. Ci sarebbe da chiedersi perché l'Italia al cinema (o in TV) fa godere solo quando è presa per la collottola storico-sociale, ma è un quesito che non dobbiamo per forza porci adesso.

I gay
La Berlinale promuove moltissimi film a tematica omosessuale, incoraggia autori omosessuali ed è stato uno dei primi festival ad instaurare un premio indipendente per questa categoria, il Teddy award (che esiste da 25 anni). Fin qui, gioia e paradiso dell'uguaglianza.

Eppure, in tutte le edizioni del festival che ho frequentato, ho notato spesso un manierismo noiosissimo rispetto al genere, una grande abbondanza di figure macchiettistiche nonché trattamenti iper convenzionali. È vero che, come il cinema non LGBT è legittimato a fare film brutti, così il cinema LGBT ha tutto il diritto di fare film orrendi. Però non mi va neanche bene soprassedere a film pigri, che rinforzano stereotipi triti e ritriti e che però si fanno belli alla luce delle pari opportunità.

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Ma le sale sono piene di garrule coppie gay che sembrano farsi bastare l'abbondanza dell'offerta, piuttosto che preoccuparsi della sua qualità. E allora mi preoccupo e ho paura di porre le domande sbagliate e di desiderare qualcosa di inopportuno: film dove la "cifra gay" è una caratteristica volendo anche cruciale del personaggio, ma non l'unica. Stranamente questo è l'insegnamento parziale della biopic di Justin Kelly su Michael Glatze, attivista gay diventato etero nonché pastore cristiano, con James Franco e Zachary Quinto. Kelly aveva fatto un mezzo buon lavoro con Milk!, ma I am Michael, nonostante sollevi domande interessanti (tipo il fatto che cristianità e omosessualità possano convivere), appartiene a quella categoria di film LGBT brutti perché rappresentano caricature e non persone. Che palle.

La sospirata ventata di freschezza l'ho ricevuta invece da Nasty Baby, del cileno Sebastiàn Silva, che gioca abilmente su generi cinematografici e sessuali. Kristen Wiig (brava, lei!) vuole un figlio dal migliore amico Freddy che però ha spermatozoi radi e addormentati. Chiedono allora al fidanzato di lui, il bellissimo Tunde Adebimpe (sì, quello dei TV on the Radio) che invece ha uno sperma molto più ricco. I tre stanno a Brooklyn, fanno lavori creativi e vivono in case meravigliose (io subito fan di gay interiors). Conducono una vita relativamente spensierata, sono così privilegiati da poter discutere il problema dell'inseminazione artificiale nel contesto di una famiglia mista il cui terzo elemento è una donna single. Yuppì!, diranno gli spiriti progressisti e liberali. Ma quando un barbone inizia a disturbare il sonno idilliaco della coppia, viene fornito il contrappunto necessario per criticare il loro mondo e la commedia si trasforma in thriller etico. Per concludere, altro elemento a mio avviso problematico di questa celebrazione LGBT, è la netta preponderanza di figure maschili. Perché così sempre e solo di maschio si parla.

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Quest'anno la catena l'ha spezzata Je suis Annemaire Schwarzenbach, sull'omonima intellettuale svizzera. La sua storia non è raccontata esclusivamente in nome della sua omosessualità, sebbene la regista abbia deciso di metterla in scena con quattro attrici e un attore che potessero identificarsi nella sua storia sessuale. Il risultato è a tratti senza chiare direzioni, ma interessa laddove mescola la vicenda di Annemarie con quella degli attori, creando una curiosa sovrapposizione di finzione e documentario da dietro le quinte.

Le donne
Una sezione speciale dovrebbe essere dedicata quest'anno alle donne, e soprattutto alla rappresentazione di donne sull'orlo di una crisi di nervi. Sorvolando sulla Kidman del mostruoso Herzog, e la Binoche di Nadie quiere la noche di Isabel Coixet, in questa Berlinale ci sono state tre figure femminili piuttosto interessanti.

La prima è la magnifica Charlotte Rampling dell'altrettanto magnifico 45 years, per il momento l'unico vero papabile Orso d'oro. Andrew Haigh è un regista che ama indagare le dinamiche sentimentali nel tempo, come aveva già fatto in Weekend, e ripropone il tema nella storia di una coppia che si appresta a celebrare i 45 anni di matrimonio. Una settimana prima della festa il marito riceve la notizia che è stato ritrovato il corpo dell'ex fidanzata—morta tragicamente durante una passeggiata tra i ghiacciai svizzeri, oltre cinquant'anni prima. Mentre gli ovvi segreti del passato cominciano a riaffiorare, il personaggio della Rampling si trova a costretta a fare i conti con l'infame idea di amore e del rapporto di coppia. Quando emerge la possibilità che il suo matrimonio sia stato frutto di un caso e non di una decisione volutissima, la Rampling gestisce la turbolenza interiore nella più femminile e coraggiosa delle reazioni: inserendo il dramma nella vita quotidiana, affrontandolo se serve ma mantenendo intatta la sua persona e la sua versione dei fatti. 45 years non è necessariamente un film sull'amore anziano, anzi. È soprattutto un film sull'amore nel tempo, sulle sue forme e le sue variabili, e chiunque creda all'amore fino alla fine dei tempi è chiamato a guardare. Se Haigh mette in scena la perdita di stabilità femminile con il tatto del realismo migliore, altri due registi lo fanno in modi più tradizionali anche se non per forza negativi, Superwelt e Queen of Earth.

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Il primo, dell'austriaco Karl Markovics, è un "dramma sdrammatizzato", il cui elemento tragico è costituito dal paesaggio austriaco, insieme campagnolo e urbanizzato. La vita monotona della protagonista e i suoi elettrodomestici parlanti forniscono l'occasione per dare di matto, ma è un impazzire del tutto innocuo e lecito; eppure se la prospettiva femminile viene sostenuta per tutto il film, questo si conclude con una soluzione piuttosto maschile e la fine appare l'unico aspetto scadente.

Altro "dramma umoristico" è quello del giovane Alex Ross Perry, già autore dell'acclamato Listen Up Philip. Girato in 16 mm, con una direzione della fotografia da urlo, Queen of Earth non sa se farci piangere o ghignare e funziona un po' da monito per ricordarci che l'umanità fa abbastanza schifo, quando hai bisogno di stare da solo.

La pedofilia
Nuovo tema interessantissimo di cui bisognerebbe parlare molto di più al cinema e possibilmente senza i toni colpevoli alla Suore di menare. Il primo film che lo affronta è in concorso ed è Il Club del magico Pablo Larraìn. Il regista cileno ci mostra una casetta che accoglie ex-preti, tutti più o meno colpevoli di orrendi malefatte: allontanati dalla comunità ecclesiastica sono però dotati di un rifugio dove fare pentimento. Oltre all'umorismo tipico di Larraìn e una struttura narrativa impeccabile, quello che piace molto qui è che la pedofilia viene per una volta presa in considerazione anche dal punto di vista del malfattore—con cui però simpatizziamo anche parecchio. Gestire il tema della pedofilia è così problematico perché l'immedesimazione è fuori discussione.

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Esistono però molte sfumature. É quello che indaga il documentario Daniel's World, della ceca Veronika Lišková. Daniel è uno studente di letteratura ed è innamorato di un bambino. Il suo sessuologo gli ha diagnosticato una preferenza per i bambini in età pre-puberale. La sua condizione è tragica: non potrà mai avere una famiglia né concretizzare il proprio sentimento in una forma socialmente accettabile e, soprattutto, realizzabile senza fare del male all'oggetto del suo desiderio. Senza menzionare che una volta cresciuto, l'oggetto del suo desiderio smetterà di essere tale. Moltissime persone affette da questa condizione si trovano di fronte ad un'impasse morale ed esistenziale totalizzante. Quando decidono di accettare se stesse e "performare" la propria pedofilia solo a livello platonico (ovvero neanche facendo uso della pedopornografia), quale posto riserva loro la società? Bisogna cominciare a pensarci.

Tre film belli che sfuggono alle sezioni di cui sopra (in ordine crescente di bellezza)

Il primo, 600 Millas, del messicano Gabriel Ripstein e con uno dei migliori Tim Roth di sempre. Agente dell'ATF sgama due ragazzi che trafficano armi al confine tra Messico e Usa, per conto di parenti mafiosi. Per un atto di sfiga massima, l'agente americano si trova ostaggio di uno dei due, il messicano Kristyan Ferrer. Prima avversari, poi uniti per sfuggire agli stessi criminali di frontiera, 600 Millas si conclude con una scena che vale tutto il film: dovrete chiedere agli amici di richiudervi la mandibola spalancata in due.

Il secondo è il mio sogno bagnato al cinema: il nuovo film di Hal Hartley. Disprezzato a volte (anche ragione), Hal Hartley è uno storico della filmografia indipendente americana e mi ha salvato la vita all'ultimo anno della triennale, come Twin Peaks me l'aveva salvata all'ultimo del liceo. Quest'anno ha presentato Ned Rifle, terzo episodio della saga Henry Fool/Fay Grim, praticamente un sunto di tutta la sua carriera. Oltre a riunire il cast storico in una reunion dopo quasi 30 dal primo film, ripropone tutto ciò che è tipico del suo cinema: storie nonsense, con intrecci familiari del tipo soap opera; protagonisti integerrimi circondati da personaggi instabili e pericolosissimi, tutti un po' innamorati tra di loro; monologhi pretenziosetti ma pronunciati in modo talmente orgoglioso da diventare intriganti; recitazione iper-teatrale e quasi fuori tono; un'estetica stranissima, figlia del low-budget ma felicemente trasformata in firma stilistica originalissima. Confesso che ho pianto (o forse era solo il freddo vento siberiano).

L'ultimo è il documentario migliore visto al festival e si chiama Flotel Europa. Unico documentario che propone storia e materiale visivo veramente nuovo—al contrario di una carrellata di documentari che hanno reso questa Berlinale un'edizione piuttosto noiosa per il genere—ed è stato ricevuto da una standing ovation anche se presentato presso la sezione sperimentale Forum. Il regista Vladimir Tomic racconta la propria esperienza di richiedente asilo in Danimarca, dopo lo scoppio della guerra jugoslava. A differenza dei normali "campi profughi", viene ospitato insieme a madre e fratello su un enorme container galleggiante insieme ad altre centinaia di famiglie bosniache. Due altri ospiti della nave comprano una videocamera per documentare la vita all'interno della nave Flotel Europa ed ecco un collage che sovrappone il racconto di formazione del giovane Vladimir (all'epoca adolescente scatenato) con la vicenda storica della guerra dei Balcani, vissuta sulle sulle salve acque scandinave ma non per questo meno sentita, in un lavoro che sfrutta montaggio e narrazione come armi potentissime di umanità e meraviglia.

Segui Clara su Twitter: @cmirffig