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George Lois

Intervista a uno dei principali artefici della Rivoluzione Creativa che ha cambiato il volto della pubblicità nell’America degli anni Sessanta.

Ritratti di Timur Civan

George Lois è stato uno dei principali artefici della Rivoluzione Creativa che ha cambiato il volto della pubblicità nell’America degli anni Sessanta—esatto, esatto, proprio come in Mad Men. È stato uno dei personaggi di maggior rilievo nella prima agenzia creativa al mondo nonché uno dei fondatori della seconda. Parliamo di tempi in cui il termine “creativo” era un modo per descrivere qualcuno che aveva idee originali e non, usando le parole dell’Oxford American Thesaurus, un “neologismo pubblicitario alla moda… che significa semplicemente nuovo o diverso.”

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Lois ha creato, da solo o in collaborazione, alcune delle più eccezionali e memorabili pubblicità della storia. A prescindere dal fatto che sia una cosa buona o meno, giganti del consumismo come Tommy Hilfiger, Jiffy Lube, ESPN, MTV e molti altri sono entrati a far parte dell’immaginario culturale americano per merito delle sue indimenticabili campagne. Le caratteristiche che distinguono l’opera di Lois dall’odierno andazzo del settore pubblicitario sono: a) i suoi lavori erano sempre diretti e trasparenti sul fatto che fossero stati ideati per vendere prodotti, e b) usava le idee per far comprare prodotti, e non il contrario.

Considerando l’ampiezza e la qualità del suo lavoro come pubblicitario, è ancora più sorprendente che Lois sia conosciuto soprattutto per il suo lavoro da Esquire, dove ha creato ben 92 delle più rappresentative e riconoscibili copertine mai pubblicate su una rivista con una tale distribuzione. Erano delle specie di arieti in immagine, dei catalizzatori di discussioni su argomenti di cui la gente non parlava apertamente. Con il pieno supporto del direttore Harold Hayes, Lois aveva completo controllo creativo. A volte Hayes non aveva neanche una vaga idea di cosa gli sarebbe arrivato sulla scrivania, finché la copertina non era del tutto pronta. Era quel tipo di relazione che sarebbe impossibile avere nella servile e flaccida industria dei media di oggi. Alcuni hanno criticato Lois, accusandolo di esagerazioni riguardo alla portata della sua influenza e di essersi appropriato di idee altrui. Nonostante questi particolari, è innegabile che il suo lavoro abbia avuto una forte e duratura influenza sul mondo dei media, influenza che continuerà ancora per molto tempo.

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Gran parte dei giornalisti e dei produttori televisivi che intervistano Lois si concentrano sul processo creativo o gli chiedono come abbia fatto a uscirsene con così tante idee indimenticabili. Ma io avevo in mente un programma diverso. Sono andato a trovarlo nel suo appartamento sulla 12esima West, a Manhattan, per chiedergli come mai il settore della pubblicità—anzi, a dire il vero l’apparato dei media nel suo complesso—stia precipitando in una spirale di mediocrità da almeno vent’anni.

VICE: Ti dà fastidio il fatto che gran parte della gente ignori del tutto il tuo lavoro come pubblicitario e conosca solo le tue copertine di Esquire?
George Lois: Io sono un vero amante delle riviste. Le riviste sono una cosa fantastica. Amo l’idea di prenderle, sfogliarle e guardare le pubblicità al loro interno. A volte ti colpiscono, altre volte dici, “Questa è robaccia,” e le lasci perdere. Quando ne trovi una buona e te la metti sulle gambe per leggerla, è un po’ come una lap dance. Ho provato a leggerle con l’iPad ed è come mettere a confronto il porno con il fare sesso. Comunque sì, a volte i giornalisti o i registi o chiunque altro si scordano qual era la mia occupazione principale. Non fanno neanche un accenno alla pubblicità e continuano a chiamarmi “il direttore artistico di Esquire negli anni Sessanta.” Altri ancora invece sbagliano proprio del tutto… hai mai visto quel film, Art & Copy?

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Sì, il documentario della PBS sulle agenzie creative.
Non mi è sembrato particolarmente bello, però è girato davvero parecchio. Voglio dire, era ok, ma è stato fatto da qualcuno che non comprende a fondo quel mondo. Una brava persona, sia chiaro. Un buon regista di documentari, ma non aveva davvero capito la Rivoluzione Creativa della pubblicità—cosa è successo negli anni Sessanta e come tutto è cominciato. Alla fine del primo montaggio, il tipo mi ha detto, “Ci sono 40 minuti in cui ci sei solo tu. Non va bene. Dobbiamo tagliare.” Alla fine l’intero film è sconnesso, ma lo trasmettono in continuazione. Ogni dannato giorno ricevo chiamate da gente che ha visto quel film. Ho ricevuto centinaia di e-mail di ragazzi che non sapevano neanche che avessi mai fatto pubblicità. Mi conoscevano come il tipo delle copertine di Esquire. E io non ho neanche mai fatto parte della redazione di Esquire! Ero solo un pubblicitario che ha fatto per loro qualche copertina. Te lo giuro, è una storia che va avanti da secoli.

E pensi che per loro sia una delusione scoprire che gran parte del tuo lavoro è stato fatto per la malefica industria della pubblicità?
Quattro o cinque anni fa sono stato alla cerimonia di commemorazione di un grande graphic designer, Saul Bass. Era presso la Cooper Union, nella Great Hall dove Lincoln fece il suo discorso. Saul ha realizzato delle fantastiche sequenze per i titoli di testa di alcuni film, tra i quali Psycho e L’uomo dal braccio d’oro. Ad ogni modo, io ho fatto un discorso su di lui e dopo di me Martin Scorsese ha tenuto una lezione di 30 minuti sull’importanza dell’opera di Saul. Finita la cerimonia qualcuno mi ha chiesto, “George, hai mai conosciuto Martin?” e io gli ho risposto che no, non l’avevo mai conosciuto. Quindi il tipo mi ha portato dall’altra parte della stanza, dove c’erano qualcosa come 200 pubblicitari tutti intorno a Scorsese. Ci siamo fatti strada tra la folla e mi ha presentato. Scorsese è totalmente impazzito, roba tipo, “Mio Dio! Non sapevo che esistessi davvero!” Ha cominciato a parlare delle copertine di Esquire e di quanto gli piacessero. Dopo dieci minuti così, mi ha fatto, “Be’, ma poi che è successo? Perché non hai continuato a farle?” e io, “Che vuoi dire? Mi sono fermato perché guadagnavo di meno che con… Io sono sempre stato un pubblicitario. Quelle copertine le facevo nei week-end per aiutare Harold Hayes.” Scorsese a quel punto ha fatto, “Oh.” Era come se il palloncino fosse stato bucato e l’aria avesse cominciato a uscire—psssshhh. Come se fossi diventato all’improvviso un fottuto venduto o qualcosa del genere. È strano il modo in cui la gente percepisce la mia figura.

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Avevi un’idea, pur vaga, di come si svolgeva il processo di selezione della copertina di Esquire prima che cominciassi a lavorare per loro? Funzionava come una specie di assemblea?
Io la chiamo “ammucchiata generale.”

È un nome perfetto. Come sei riuscito a superare il loro sistema, queste specie di orgia di idee banali?
Hayes mi ha chiamato un giorno—probabilmente aveva letto di me su qualche giornale o rivista, dato che ai tempi la nostra agenzia riceveva molte attenzioni dalla stampa. Mi ha chiamato presentandosi come l’editor di Esquire e io gli ho detto, “Cosa cazzo vuoi da me?” Non poteva trattarsi di pubblicità, perché gli editor non chiamano in giro supplicando la gente per avere pubblicità. Loro fanno il lavoro vero. Qualche giorno dopo siamo andati a pranzo al Four Seasons—al tempo mi occupavo della grafica per le loro pubblicità. Mi ha descritto come sceglievano le copertine: “Allora, riunisco quelli della grafica e altri editor…” Mi ha fatto i nomi di qualcosa come 12 persone. “Una volta al mese ci riuniamo e discutiamo per un’ora del nuovo numero—su cosa sarà, i vari argomenti, eccetera. Poi, due giorni dopo, ognuno propone la sua idea per la copertina. Ne parliamo, spesso litigando, e alla fine ne vengono scelte quattro o cinque per le prove di stampa.” Io gli ho detto, “Porca puttana. È una cazzo di ammucchiata! È ovvio che non c’è nessuno lì in mezzo in grado di farlo, altrimenti quel qualcuno interromperebbe la riunione e direbbe, ‘Eccola qui, questa è la copertina, brutti stronzi!’ E voi gli rispondereste, ‘Wow, hai ragione.’ Dovete trovare qualcuno all’esterno della redazione.”

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Alcune delle memorabili copertine di Lois per Esquire.

E lui cosa ha detto?
Era confuso. “Come può qualcuno che non sta in redazione fare le copertine per i miei numeri, per una cosa creata da noi?” mi ha detto. E io gli ho risposto: “Ehi tranquillo! Io faccio pubblicità per i prodotti. Non faccio i prodotti. La gente viene da me, e gli do qualcosa per dimostrargli che ne so più io di loro su quel dato prodotto, perché so come venderlo.” Poi ho cominciato a dire, “Dunque, forse conosco qualcuno che farebbe al caso vostro.” Lui mi ha interrotto e mi ha detto, “Aspetta un attimo, amico. Devi farmi un favore. Prova tu a farmi una copertina, una sola.”

Che poi sarebbe quella in cui hai predetto la vittoria di Sonny Liston su Floyd Patterson, mettendo Liston in copertina e sfidando l’opinione di tutti gli esperti, che non avevano dubbi sulla vittoria di Patterson. 
L’incontro era alle porte, e io sapevo che i giornalisti sportivi dicevano un sacco di cazzate. Stessa cosa per i bookmaker di Las Vegas, che davano la vittoria di Liston 10 a 1. Ma io conoscevo bene Liston e sapevo che l’avrebbe letteralmente massacrato. Ne ero certo. Da giovane ero l’unico ragazzino bianco che poteva giocare a basket a Bed-Stuy. Ogni tanto, quando ero lì, andavo a vedere Floyd che si allenava a un paio d’isolati di distanza. Sapevo che le avrebbe prese. Cosa c’è di meglio, per una rivista per uomini, del predire il risultato di un incontro sportivo contro l’opinione della massa?

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Quello che mi interessa sapere è quale fosse il ruolo di Hayes in tutto ciò. Ora come ora non ci sono editor che hanno le palle per prendere rischi del genere. Moltissimi publisher di oggi sono così impiccioni e paranoici che un’idea del genere non verrebbe presa in considerazione neanche per un attimo. 
Quando l’ho fatta vedere a Hayes lui mi ha detto che gli piaceva molto, ma era visibilmente nervoso, mi ha detto: “Tu stai andando contro ogni previsione, sei pazzo.” E io gli ho risposto, “No, sei tu il pazzo, dato che userai questa come copertina. Guarda alla cosa in questo modo: c’è una probabilità del 50 percento che io abbia ragione. E se avrò ragione, tu sarai considerato un genio. La gente ti guarderà e dirà ‘Wow, questo sì che è un editor!’” Anni dopo ho scoperto che tutti quanti—inclusi i publisher—pensavano che Hayes fosse completamente pazzo a volerlo fare e che non ci sarebbe stato modo di pubblicare quella copertina. Ma lui minacciò di lasciare la redazione se non l’avessero fatto. Tra l’altro Hayes non mi ha fatto mai sapere nulla di queste lotte all’interno della rivista. Era lui contro il resto del mondo, anzi, era più che altro lui contro la gente della pubblicità. A volte capitava che, dopo una certa cover, la rivista perdesse dieci inserzionisti in due giorni, ma i numeri della distribuzione continuavano a salire. Hayes in quei casi mi diceva, “Sì, fanculo, non ti preoccupare,” e il mese dopo arrivavano dai dieci ai venti nuovi inserzionisti. Era davvero un personaggio incredibile.

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E tu avevi assoluta libertà di scelta? Ci sarà pure stato un momento in cui discutevate le idee per la copertina.
Hayes mi descriveva in linee generali il contenuto del nuovo numero. A volte non aveva neanche metà degli articoli pronti, ma sapeva sempre quanto bastava. Io non prendevo neanche appunti. Mi raccontava qualcosa su una certa storia e io dicevo, “Ok, quella sarà la copertina. Voglio metterci quello.” Altre volte mi diceva, “Ci sono un sacco di articoli sul cinema. È come una religione per i ragazzi di oggi. La copertina dev’essere su quello.” Quindi sì, a volte era ovvio che dovevo farle su un certo argomento. Ma il punto è che lui non sapeva mai cosa avrei scelto in concreto.

Quali sono i principi per realizzare una buona copertina? 
Hai letto il libro di Annie Leibovitz che è uscito qualche tempo fa? Si chiama Leibovitz at Work o qualcosa di simile. Non è esattamente un gran libro, ma è interessante. C’è un breve capitolo sulle “copertine-idea.” Dice qualcosa come “George Lois è il maestro delle copertine-idea. Ha fatto questo e questo e quest’altro ancora. E anche io ho fatto cose simili.” Poi dice, “Ma poi ho smesso di farle, perché Jann Wenner [co-fondatore e publisher di Rolling Stone] voleva tutte copertine molto simili tra di loro, fatte sempre con lo stesso stile.” Ed è proprio questo il problema, quest’idea del Non fare copertine che facciano pensare troppo. Sono tutti matti. Voglio dire, a cosa servono le riviste? A un certo punto negli anni Settanta qualcuno ha deciso che i magazine dovevano tutti avere la faccia del mese in copertina, la fottuta star-del-futuro di turno. Se vai in edicola ci sono trenta o quaranta riviste che sono praticamente uguali. E c’è gente che difende questo genere di approccio. Tina Brown [ex-editor di Vanity Fair e del New Yorker] una volta mi ha detto, “Sai George, non puoi fare quel genere di copertine al giorno d’oggi. Ci sono troppe riviste.” E io le ho detto, “Cosa vuoi dire? Tina, se mettessi una delle mie copertine nel mezzo di una qualsiasi edicola ti farebbe uscire gli occhi dalle orbite! Il resto è tutto uguale!”

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Quindi i più potenti editor del mondo ti stanno a sentire ma poi in realtà non seguono i tuoi consigli, nonostante sia ormai provato che funzionino. È davvero confortante come cosa. 
La American Society of Magazine Editors tiene una conferenza annuale in cui tutti gli editor si riuniscono e in pratica si fanno le pippe a vicenda parlando dello stato dell’editoria e della cultura in generale. Qualche anno fa mi hanno invitato per parlare delle copertine di Esquire e per dire a tutti di smetterla di fare copertine terribili, o qualcosa di simile. Ho cominciato così, “Quindi volete che venga qui a parlare male di voi eh? Ok.” Tutti gli editor di ogni rivista americana erano presenti, e io gli ho fatto uscire gli occhi di fuori. Ogni rivista, a parte forse Vanity Fair e il New Yorker, era in qualche modo complice della guerra in Iraq. Ho attaccato a parlare delle armi di distruzione di massa e ho detto, “Ognuno di voi figli di puttana è complice di cosa sta accadendo ora in Iraq.” Si è alzato un coro di “Oooohhhh.” Dieci minuti dopo ho continuato a parlare dell’argomento [fa il gesto con le mani per indicare che il pubblico applaudiva], e poi mezz’ora dopo ci sono proprio andato giù pesante sulla guerra e a quel punto ho ricevuto una standing ovation. Tutto ciò mentre parlo del perché non riescono a tirar fuori delle buone copertine, e mostro quelle che io ho realizzato in passato.

E alla fine?
Dopo il discorso c’era una fila di circa 200 persone che volevano parlare con me. Gente che mi chiedeva addirittura di autografare cose, ma sono tutte stronzate! Continuano a fare le stesse identiche scelte. Non ci provano neanche a fare qualcosa di diverso. È una cosa di un’ignoranza totale. Voglio dire, per quale motivo dovresti volere fare una rivista completamente uguale alle altre? Perché non vogliono fare delle copertine che quando le vedi ti tolgono il respiro?

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Non è solo triste, ma è anche assurdo, che gran parte delle pubblicazioni sprechi così tante energie a rovinare le cover. Una quantità di soldi spropositata viene usata per rendere il più commerciabili possibile le scritte in copertina, soldi che invece potrebbero essere usati per finanziare la realizzazione di storie valide o molte altre cose più utili. 
C’è una grande ricerca dietro i titoletti in copertina. Sono tutti testati: “Ti piace di più questa frase o quest’altra?” Se le vendite della tua rivista dipendono dalle frasette in copertina, allora vuol dire che quella non è una rivista, ma un pezzo di merda! Non si crea una rivista per il pubblico; la si crea in primo luogo per se stessi. Ho avuto questa discussione di recente con editor come Graydon Carter; lui potrebbe fare delle copertine fantastiche per Vanity Fair. Graydon mi ha detto, “I nostri lettori sono persone molto intelligenti.” E io gli ho fatto, “Certo che lo sono, e voi li insultate ogni mese con le vostre copertine!” Lo scorso mese c’era Lady Gaga! La copertina è uno dei modi migliori per far dire alla gente, “Wow, guarda che rivista!”, ma non ci provano neanche a osare.

Pensi che parte del problema sia la paura di perdere inserzionisti e lettori, se non si scelgono cover che risultino attraenti per il maggior numero possibile di persone?
Non penso che si riuniscano e dicano, “Cazzo, se facciamo una bella copertina perderemo inserzionisti.” Non credo che ragionino in questo modo. Perché mai si dovrebbero perdere inserzionisti facendo una bella copertina?

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Quante copertine di tuo gradimento hai visto negli ultimi anni?
È raro, ma ogni tanto mi capita di vederne, ed è sempre una cosa che mi fa venire i brividi. Il New Yorker ha fatto un paio di cover molto belle negli ultimi due, tre anni, che mettevano davvero in evidenza quanto stava succedendo in quel momento. Quello stupendo disegno di Obama e Hillary Clinton insieme a letto, che rispondono al telefono, quella era geniale cazzo. David Remnick tra l’altro è un mio fan. Una volta abbiamo pranzato insieme e lui mi ha chiesto, “Pensi che dovrei fare anche delle cover fotografiche?” E io gli ho detto, “Ma che cazzo dici, sei matto? La vostra è l’unica rivista che spicca o che almeno ha l’opportunità di farlo. Non la riempite di frasi ad effetto; usate i disegni, che spesso sono molto più espressivi e bizzarri delle foto. È tutto fantastico, l’unica cosa è che dovreste fare le copertine su fatti accaduti pochi giorni prima. Giovedì succede qualcosa, venerdì qualcuno se ne esce con un’idea per la cover e il lunedì successivo esce la rivista. Così fissi quello che è successo!” Dopo questa conversazione, David se n’è uscito con tre o quattro copertine del genere, e io mi sono detto, “Buon Dio, finalmente qualcuno che mi ha ascoltato!” Ma quella è stata l’unica volta.

In un certo senso, mi sembra che nel mondo della pubblicità stiano accadendo le stesse cose. Secondo me le agenzie creative—con le dovute eccezioni, soprattutto al di fuori degli Stati Uniti—mancano di convinzione e sono pigre. Vanno sempre sul sicuro e cercano di massimizzare i profitti facendo apposta lavori mediocri, perché tanto sanno che c’è un coglione del marketing dall’altra parte con un certo budget da spendere in pubblicità. Nessuno ha le palle di mandare messaggi un minimo provocatori. Cosa c’era di diverso negli anni Sessanta?
Io ho fondato la seconda agenzia creativa d'America. La prima è stata la Doyle Dane Bernbach, nella quale ho cominciato la mia carriera. Bill Bernbach è stato il primo ad avere l’idea di prendere bravi grafici da una parte, scrittori svegli dall’altra e unire le loro forze per creare delle grandi pubblicità. Quella è stata la sua epifania. Prima della DDB, gli art director si sedevano in una stanza e aspettavano comodi che arrivassero i copywriter con qualche idea e qualche frase tra cui poter scegliere. Io sono andato alla DDB e ho fatto un sacco di figate, ho spaccato il culo lavorando per loro. Quando me ne sono andato, per cominciare la mia agenzia con un paio d’altre persone—Papert, Koenig, Lois—pensavano tutti che fosse una mossa davvero folle. E in realtà lo era, perché si trattava di lasciare il miglior lavoro del mondo, nell’agenzia in cui tutti volevano entrare, per diventare un loro concorrente. La nostra agenzia è partita all’inizio del 1960, e ogni settimana che passava raggiungevamo nuovi traguardi. Ad ogni nuova campagna seguivano lunghi articoli di giornali e riviste che ne parlavano.

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Ok, ma pensi che all’epoca la gente fosse meno cagasotto e più desiderosa di provare cose nuove? Oppure il punto è che gran parte delle buone idee ormai sono già state usate, e siamo entrati in un’epoca di mediocrità dilagante?
Gli anni Sessanta sono stati un’epoca eroica. Dico sul serio. Un periodo coraggioso. Quando ho fondato la mia agenzia tutti hanno detto, “Porca puttana! Allora c’è spazio per più di un’agenzia creativa.” Dopo la mia ne sono nate altre tre nel giro di tre anni, poi sono diventate cinque, e così via; abbastanza per dare vita a una sorta di rivoluzione. Era un periodo florido per la creatività, e poi non so cosa sia successo. Ci siamo scontrati con il muro di qualche burocrate—gente che ha cominciato a fare compravendita di agenzie. Oggi ci sono tre agenzie enormi che controllano praticamente tutto il mercato. Un paio di mesi fa ho letto un articolo sull’industria della pubblicità, in cui si parlava di questo tipo francese che controlla una delle agenzie più potenti del mondo. Non mi ricordo neanche il suo nome. Dodici pagine di articolo e la parola creatività non era menzionata neanche una volta, né si parlava mai dei prodotti che stavano alla base delle loro campagne.

Quindi non c’è nessuno al giorno d’oggi che lavora nel modo giusto?
No. Oggi ci sono otto persone sedute in una stanza, che selezionano insieme le cose. Ma che cazzo credono di fare? La gente pensa che per essere un dirigente di successo bisogna solo circondarsi di gente sveglia, ascoltare quello che dicono e scegliere le idee migliori. Non lo capisco. So che è un’opinione contro corrente, ma di sicuro non è il genere di creatività nella quale sono coinvolto. Ad alcuni suonerà come una bestemmia, ma secondo me tutte le cose migliori al mondo sono fatte da singoli individui, al massimo due persone insieme. Il mio consiglio è di evitare la paralisi dell’analisi di gruppo. È una specie di truffa.

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Ma alcune pubblicità sono proprio basate su un processo collaborativo, giusto? Ci vogliono ben più di tre persone per girare uno spot televisivo. 
C’è ovviamente bisogno di una squadra per la produzione, ma anche per la creazione di idee? Col cazzo! Impossibile. È così, fidati. La gente dice, “Be’, ma se riunisci, non so, venti persone…” Io dico che maggiore il talento di ognuno di loro, maggiori saranno i problemi quando li andrai a riunire. Se c’è solo una persona talentuosa tra le venti, ed è una persona con delle convinzioni, allora darà filo da torcere a tutti gli altri. Ma se tutte le persone del gruppo sono valide, allora è un bel problema. È impossibile!

Sembra che al giorno d’oggi le agenzie creative tendano a mettere la loro presunta creatività al di sopra dei meriti del prodotto che stanno aiutando a vendere. E il risultato sono pubblicità che si risolvono o in scene comiche in due parti, oppure in un contenuto brandizzato mascherato da qualcos’altro. Cos’è successo a quelle pubblicità che spiegavano perché un certo deodorante non mi farà puzzare le ascelle, o come mai una certa macchina è costruita meglio di altre? La cosa peggiore è che per fare queste cagate vengono spese montagne di soldi. 
Negli anni Sessanta guardavano tutti le pubblicità della DDB e della mia agenzia. Una campagna a livello nazionale costava circa 200.000 dollari per un anno, e tutto il Paese non avrebbe smesso di parlarne per quel periodo. Oggi ci sono più di cinquanta compagnie in America che spendono almeno 150 milioni di dollari in pubblicità, e se guardi le loro campagne non riesci neanche a capire quale prodotto stanno pubblicizzando. Le guardi e dici, “Ma che cazzo era?” Per qualche ragione i giovani—o forse tutti quelli che stanno oggi nel business—hanno paura di far vedere che stanno cercando di vendere qualcosa. Sembra che provino a fare entertainment. Non colgono qual è il punto.

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Di chi è la colpa secondo te?
Tempo fa ho tenuto una lezione presso la School of Visual Arts e metà degli studenti erano cinesi e coreani, che difficilmente capiscono a fondo la nostra cultura. Avrei voluto dirgli, “Ma che cazzo ci fate qui? Ci vogliono trent’anni per capire veramente quello che succede in un Paese che non è il tuo.” Imparare la lingua non è abbastanza per comprendere una cultura. Io non potrei mai essere un art director in Inghilterra. Durante la lezione un ragazzo si alza e descrive questa pubblicità uscita quattro o cinque anni fa. Un uomo e una donna sono al bar e bevono una birra. Un’altra donna comincia a camminare verso di loro. La donna sembra arrabbiata, lui si accorge che lei sta arrivando, e scambia la sua birra con quella della donna con cui è seduto. La donna finalmente li raggiunge, prende la birra dell’uomo, gliela versa in testa e se ne va. Tutti gli studenti a dire, “Oh wow, geniale!” Io allora gli ho chiesto, “Che birra stavano pubblicizzando?” A quel punto sono stati cinque minuti a discutere sul nome del brand. Non se lo ricordavano.

Quindi qual è il segreto per fare una buona pubblicità?
Fare le cose semplici. Una campagna come si deve ha due mezzi mnemonici: quello visuale—qualcuno che fa qualcosa—e quello verbale. L’idea alla base dev’essere supportata da questa sinergia.

L’epitome di questo schema concettuale—almeno secondo me—è quella tua campagna “I Want My MTV.” È un perfetto esempio di come la pubblicità possa cambiare il corso della cultura popolare. MTV ai tempi era un millesimo di quello che è oggi. Non avevano un grande seguito, le case discografiche pensavano che i video avrebbero danneggiato il loro business, e tutti quelli che suonavano e ascoltavano rock pensavano fosse uno scherzo. Poi è uscita quella campagna ed è cambiato tutto. Mi sono sempre chiesto come avete fatto a convincere le rock star a partecipare. Li avete semplicemente riempiti di soldi?
Quando ho cominciato a lavorare con MTV tutti quelli che stavano lì avevano 25 o 26 anni. Erano dei giovani cazzoni. Dissi loro che in sostanza volevo usare degli spezzoni di spot che loro non avevano più utilizzato—avevano parecchie cose pronte, ma mai andate in onda—e poi verso la fine inserire una voce leggermente frenetica che diceva, “Se vuoi avere MTV a casa tua, prendi il telefono, chiama l’operatore, e digli—e a questo punto entra in scena qualcuno tipo Mick Jagger che dice ‘I want my MTV.’” E loro mi dissero, “OK, e dopo che succede?” E io, “Dopo succederà che milioni di ragazzi chiameranno l’operatore per avere MTV a casa.” Loro mi dissero che sarebbe stato impossibile avere una rock star di alto calibro, perché tutte le stelle della musica all’epoca odiavano MTV. Gli dissi che avrei procurato io qualcuno. E avevo solo una settimana per farlo.

Come hai fatto quindi?
La prima cosa è stata chiamare Bill Graham, uno dei promoter più iconici di tutti i tempi. “Mi serve una rock star,” gli ho detto. E lui mi ha risposto, “Ma George, MTV? Non convincerai mai nessuno a fare uno spot per loro. Il loro canale distruggerà la musica.” Gli ho detto che stava dicendo fesserie e che volevo usare Mick Jagger per lo spot. E Bill mi ha risposto, “Bene, posso darti il numero di casa sua a Londra, ma non puoi dirgli che sono stato io a dartelo.” Quindi ho chiamato Mick e gli ho proposto la cosa. E lui mi ha detto, “OK, sarò a New York questo lunedì. Sarò sull’aereo domenica notte. A che ora vuoi girarlo?” Gli ho detto, “Verso le 9 di mattina ti va bene? In che hotel alloggi? Ti faccio venire a prendere.” E lui mi ha fatto, “No, vengo io da voi.”

Quindi l’hai convinto così?
Poi ho chiamato Bob Pittman, il fondatore di MTV, colui che mi aveva ingaggiato. Gli ho detto, “Abbiamo Mick Jagger, credo” Lui mi ha risposto, “Cosa intendi con credo?” Gli ho detto, “Mi ha detto che sarebbe venuto in studio lunedì. Gli ho dato l’indirizzo e ora si spera che venga veramente.” E lui mi ha fatto, “Si spera? Io non voglio sborsare soldi per un si spera.” “Allora li sborserò io”, gli ho risposto. Lunedì mattina tutta la crew era lì. Si sono fatte le 9. Poi le 9:15, le 9:30. Alle 10 meno cinque Jagger finalmente arriva e fa, “Ehi, George, ho portato un paio d’amici con me: Pete Townshend e Pat Benatar. Forse vuoi usare anche loro per lo spot?” Gli ho detto, “Sì, forse c’è spazio anche per loro.”

All’epoca vedevi MTV regolarmente?
Mi piaceva molto. Non ero un grande fan del rock, ma lo sono diventato guardando MTV. Non potevi non guardartela. C’erano un sacco di bei video musicali, e quello era un periodo entusiasmante per la cultura pop. Poi sono cominciate le varie boiate dei reality, la cosa più infima mai creata. È stato davvero degradante per l’America. Ho imparato a ignorare le varie Gaga e i vari Jersey Shore. La gente dice, “Be’, ti stai perdendo la cultura popolare di oggi.” Ma non è così. La cultura popolare non dev’essere il tipo di cultura che io trovo ripugnante. Quella roba è invisibile ai miei occhi.

Facendo un po’ di ricerca per l’intervista ho scoperto che hai anche vinto il premio per l’MTV Best Music Video of the Year del 1983, per la regia di “Jokerman” di Bob Dylan. È l’unico video che hai mai fatto. Come sei finito a realizzarlo? È stato Dylan a cercarti?
È stato Bill Graham a chiamarmi nel 1982. Avevo appena fatto “I Want My MTV”, avevo salvato il culo a USA Today e a breve avrei reso famoso Tommy Hilfiger con una singola campagna. Bob mi ha detto, “Sto provando a far fare a Dylan un video decente, ma lo sai com’è fatto, non gli piacciono i video. Quindi gli ho detto, ‘Se lo faccio fare a George Lois sei disposto a farlo?’ Lui ha esitato e poi mi ha risposto, ‘Probabilmente.’”

E così sei stato ingaggiato tu. 
Graham ha suggerito il mio nome per il video perché avevo già conosciuto Dylan. Nel ’76 sono andato a un suo concerto e, con l’aiuto di uno scrittore amico di entrambi, Larry Sloman, sono riuscito a rimediare una specie di incontro privato con lui. Volevo parlargli per chiedere il suo sostegno a una causa di cui mi stavo occupando ai tempi, quella del pugile Hurricane Carter. Ho parlato con Dylan, spiegandogli la storia e cercando di coinvolgerlo. La settimana dopo siamo andati in prigione, abbiamo incontrato Carter, e sono riuscito a convincere Dylan che Hurricane era innocente. Gli ho detto, “Scriveresti una canzone per lui?” E Dylan mi ha detto, “Sicuro!” e quindi ha scritto “Hurricane”. Dopo gli ho chiesto, “Che ne dici di un concerto?” e lui ha fatto un concerto di beneficenza al Madison Square Garden.

Quindi eravamo già in contatto per via di questa storia. La prima volta che ho sentito “Jokerman” ho pensato, “Gesù Cristo, questa canzone è piena di strofe epiche.” Ogni strofa mi faceva venire in mente un pezzo di storia dell’arte. Ho messo su uno storyboard nel corso di un paio di giorni. Avevo i vari pannelli dello storyboard appesi in una camera oscura, quando Bobby è venuto a farmi visita. Gli ho spiegato che il video avrebbe percorso 5.000 anni di storia dell’arte. Gli ho letto le varie strofe della canzone, spiegando quali opere d’arte avrei abbinato ad ognuna. Dopo averne viste un po’ Bob mi ha detto, “Mi ero immaginato praticamente la stessa cosa mentre scrivevo la canzone.” Graham era anche lui nella stanza, mezzo nascosto in un angolo buio. Se ne stava lì rintanato, quando all’improvviso emerge dal buio alla Orson Welles e comincia a fare così [fa con le mani il gesto di masturbarsi]. E poi è tornato a sedersi nella parte buia della stanza. Che scena!

Parlando di TV, quali serie ti piacciono al momento? Scommetto che sei un grande fan di Mad Men.
[mi dà un’occhiata esasperata] Hai letto il pezzo che ho scritto per Playboy?

Sì, hai completamente smerdato lo show. Stavo scherzando, infatti. 
La cosa divertente è che in copertina dice una cosa come “George Lois su Mad Men,” e sotto la scritta “Un omaggio di otto pagine alle segretarie nude, ai Martini con ghiaccio, bla bla bla.” Un sacco di gente che mi conosce dall’epoca ha visto la copertina e ha pensato, “Mio Dio. George Lois che rende omaggio a Mad Men!” Tutti loro odiano a morte Mad Men perché sanno veramente come andavano le cose ai tempi! È una cosa che mi fa imbestialire. I personaggi della serie pensano solo a scopare, farsi le segretarie e alcolizzarsi tutto il giorno. Non si parla mai di gente che ha un minimo di talento e delle idee geniali. Probabilmente il mio atteggiamento verso Mad Men è lo stesso che hanno i mafiosi veri quando guardano I Soprano. I mafiosi si faranno grosse risate, pensando, “Non è così che stanno le cose.” Io sono qui a dirti, “Mad Men è una gran cazzata,” e so anche di avere ragione. [ride]