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A9N6: Il settimo annuale di narrativa

Incidenti automobilistici nel Golfo

Un racconto di Sophia Al-Maria dal nostro annuale di narrativa.

Illustrazioni di James Roper.

Mio nonno Amer Jaber Al-Tawil Al-Dafira è morto tra le fiamme che avevano avvolto la cabina del pick-up Nissan. Il prozio Hadi e i suoi due ultimi figli sono stati agganciati da un camion nel traffico dell’autostrada tra il Qatar e l’Arabia Saudita, morendo sul colpo. Il più piccolo, di quattro anni, era seduto al posto del guidatore in braccio al padre. I miei cugini Matar e Hamad sono rimasti intrappolati in una 4x4 durante una tempesta di sabbia; mentre dormivano la duna si era spostata seppellendoli. Li hanno ritrovati dopo mesi. La piccola Afrah Ali stava giocando nella sabbia dietro le gomme del furgone di suo nonno, che facendo marcia indietro l’ha investita. Khaled, Ali e Dheeb sono stati travolti da una macchina durante una gara tra due auto a Riyad. Zia Moza, al settimo mese di gravidanza, è stata spinta fuori da una Mercedes in corsa da suo marito Saeed. Il tredicesimo figlio di mio zio Musa era scomparso; l’hanno cercato per più di mezza giornata, per poi ritrovarlo sul sedile posteriore della macchina rovente, soffocato.

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Inutile dire che la relazione della mia famiglia con le auto è un tantino problematica.

Nell’estate del 1982, ovvero non molto prima che nascessi, la Scirocco color oro di mia madre con gli adesivi di piccole coccarde e un Pegaso sul portellone posteriore aveva subito diverse ammaccature per via di una pioggia di proiettili. A ogni richiesta di spiegazioni, mia madre rispondeva, “È stato un ubriaco.” Ovviamente non le ho mai creduto. Ma anni dopo, quando la macchina fu mandata in pensione, senza ruote, sverniciata e sistemata su una rampa nel cortile di un vicino di casa, chiesi di una Polaroid rimasta così a lungo sul frigorifero da aver perso un po’ di colore in alcune sue parti.

Nell’immagine mio padre indossava occhiali da aviatore e un berretto con la visiera e la scritta OPEC sul davanti. Il suo braccio circondava una bionda in giacca di pelle, mia madre. La Polaroid incornicia mio padre, con un ampio sorriso sormontato da baffi a manubrio, e mia madre, faccia da stronzetta e una sigaretta che le pende dal labbro, davanti alla Scirocco. Nella foto non c’è traccia di proiettili.

“Ma allora i buchi, quando li hanno fatti?” domandai quella volta a mia madre, immersa nella sua lezione audio di Oracle per il corso serale di programmazione. Si voltò per poi accendersi una sigaretta.

“Tuo padre aveva lo sguardo vivace e i baffi folti, quando nel 1978 è arrivato nello Stato di Washington. Sognava di diventare un autotrasportatore. Penso fosse appena uscito Convoy. Andava pazzo per Willie Nelson.”

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Venne fuori che nella sua ricerca di strade da percorrere, mio padre, ancora nuovo negli Stati Uniti, era rapidamente passato attraverso una serie di macchine: una Silica a San Diego, a Portland un pick-up Chevrolet rosso, a Tacoma una Grand Prix, e una Subaru a Helena. È proprio lì, durante una gara di monster truck nel Montana, che aveva conosciuto mia madre, la figlia di un coltivatore di more della Puyallup Valley. Mio padre aveva appena venduto la sua Subaru BRAT a un campagnolo che si era sbarazzato dei finestrini per farla concorrere al demolition derby, e tutto il suo stipendio saudita era finito nella cauzione per tirare fuori di prigione un amico ubriacone e riottoso. Per la prima volta era costretto all’immobilità, una condizione difficile per un beduino. Poi arrivò mia madre, nel suo bomber nero e la Scirocco color oro, e partirono insieme, con le mani intrecciate sul cambio attraverso l’Idaho e le Scabland, sul fiume Snake e i pendii delle Montagne Rocciose. I misteriosi fori nella Scirocco sono un ricordo del loro primo idillio.

Secondo la versione della mamma, un ubriaco a bordo di un’Oldsmobile aveva imboccato il passo del Chinook e procedeva sbandando lungo il ciglio di un dirupo, quando papà suonò il clacson. L’ubriaco aveva risposto con una serie di imprecazioni. Lei aveva controbattuto col suo caratteristico fascino e diversi gestacci. Poi lo specchietto retrovisore era stato colpito da due luci abbaglianti. I miei avevano avvertito i proiettili cozzare contro la macchina e, solo dopo, sentito il rumore della pistola, il tutto in rapida successione.

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La velocità e le esperienze a un passo dalla morte tendono a cambiare il tempo all’interno di un veicolo in movimento. In pochi secondi, la calma estiva della loro storia d’amore americana fu contaminata dal fumo di polvere da sparo e l’odore della similpelle bruciata.

Passarono dieci anni e mio padre, ancora senza un suo autoarticolato, decise di tornare nel Golfo per fare sue le fortune che avevano inondato il paese d’origine dopo il boom dei combustibili fossili. Disse a mia madre che aveva nostalgia dell’adhan della moschea alla radio e partì. Trovò lavoro su un impianto di trivellazione nel mare degli Emirati, e di due mesi in due mesi rimaneva bloccato lì sopra. Ha rinunciato da tempo all’idea di potersi permettere un 18 ruote, ma ancora oggi nel vano portaoggetti dell’auto tiene la sua cassetta consumata di “On the Road again”, mischiata ai nastri del Corano.

La nostra tribù era lontana da qualsiasi città o centro abitato quando la prima automobile arrivò nella Penisola. Dicono che la Rover otto cavalli con motore monocilindrico fosse un dono della Regina d’Inghilterra all’Emiro. Il miracoloso veicolo arrivò a Palazzo con tre militari inglesi. I muri dell’edificio erano alti e corredati di spunzoni in legno, e per l’occasione i tre uomini si erano impomatati i baffi. I maestosi cancelli furono aperti e l’auto in ghingheri fece il suo ingresso. Il largo sorriso argenteo e le branchie della cosa apparivano minacciose ai presenti, e il comitato di accoglienza indietreggiò quando gli inglesi percorsero il giardino accomodati nel corpo della belva luccicante.

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L’Emiro era compiaciuto.

Fece alcuni giri del giardino e poi invitò gli uomini rossi in viso a raggiungerlo nel majlis per un tè. Gli uomini risero con gusto mentre un mare di fraintendimenti iniziava a gorgogliare tra loro. La Rover rimase pazientemente ad aspettare fuori. Pare che l’Emiro non fu abbastanza lungimirante da considerarla un presagio di grandi ricchezze. Gli Al-Thani, per quanto famiglia reale, non furono mai considerati grandi visionari. Ne ordinò una per il principe ereditario e passò a interessarsi alle corse di cavalli. La sera, quando furono preparati i cammelli per riportare i tre uomini al loro quartier generale, ritrovarono carne d’agnello arrostita e una bacinella d’acqua di fronte alla calandra dell’auto, ancora intatte.

La prima macchina di mio nonno Amer Al-Dafira fu una specie di risarcimento alla “40 acri e un mulo” offerto dal governo ai beduini dislocati. Era un pick- up senza marca o loghi. Il cruscotto era vuoto, e le parti interne della forma più elementare. Era superato ancora prima che la nostra famiglia lo ricevesse per essere stata estromessa dai giacimenti petroliferi nel 1970. Mio nonno conosceva molto bene la conformazione della zona, ma dovette prendere lezioni di guida dal figlio adolescente.

Zio Ali aveva imparato a guidare a 12 anni grazie a un autista di cisterne. Aveva aspettato a lungo nei pressi dell’unica strada che collegava i giacimenti alla via principale perché doveva andare in città a procurare le medicine per il problema di “zuccheri” della madre, che aveva iniziato a manifestarsi in concomitanza con l’avvento dei cibi pronti in scatola come pesche e fagioli. Al tramonto fece cenno a un camion che trainava una grande cisterna. L’autista lo portò in città e gli insegnò a guidare quel mezzo da 25 tonnellate: mio zio dodicenne manovrava il volante e le marce in grembo al camionista, che a sua volta gestiva i pedali.

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Il nuovo pick-up di famiglia aveva un cassone profondo e grandi ruote. La tenda di pelle di cammello fu sistemata sul retro. Chi non riusciva a strizzarsi nella cabina si sistemava lì, sotto il tetto della casa mobile improvvisata. Il posto migliore in cui sedersi era a ridosso del cassone, al riparo dalla corrente di aria calda che soffiava attraverso il tessuto. Le tende di cammello erano pensate per qualsiasi cosa, tranne per il retro di un furgoncino lanciato a 110 km/h su un banco di sabbia. Quando mio nonno smise di spostarsi a piedi (i suoi o quelli di un animale) e optò per le ruote fu una gran perdita per la polizia saudita.

Mio nonno era stato la loro principale risorsa nelle operazioni di ricerche. Era in grado di capire se una donna era incinta solo osservando la sua impronta, o di indovinare il colore di un animale dai suoi escrementi. Ma dopo aver ricevuto il pick-up bianco non cercò mai più un’altra persona scomparsa o ladro o donna incinta, senza fermarsi quando non era necessario. Ci volle un po’ di tempo per imparare a manovrare lo sterzo, ma per gli Al-Dafira la direzione divenne presto meno importante della velocità.

Questo grande esodo dal deserto verso le città continuò per tutti gli anni Settanta, e nessuno usava la cintura di sicurezza. In effetti, così tanti membri della mia famiglia erano morti in terribili incidenti o rimasti gravemente menomati che tornata a vivere nel Golfo mi convinsi avrei conosciuto la mia fine schizzando fuori dal parabrezza di una berlina o rimanendo sotto le ruote di un mezzo d’opera. Ma alla fine, l’avversione per la prospettiva di starmene chiusa in casa ebbe la meglio sul timore di dover essere rimossa dall’asfalto rovente.

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***

I miei primi ricordi del Golfo sono un mix inebriante di pozzanghere di petrolio perlato, sfoghi cutanei da cintura di sicurezza e vomito. Mi capitava spesso di non sentirmi bene, e soffrivo la macchina. A fine anni Ottanta le strade di Abu Dhabi e Doha erano irregolari o semplicemente incomplete, e il passaggio dal caldo all’aria gelida e secca delle auto a noleggio mi faceva impallidire all’istante. Un’infanzia trascorsa sul retro di auto a noleggio superate o rinchiusa sui sedili di pelle dello Scirocco appariva indubbiamente sfarzosa se paragonata alla strategia della montagna umana a cui ricorrevano i miei parenti in Arabia Saudita per spostarsi. Per loro non ero il fiore da serra che va legato e assicurato a un seggiolino con un caschetto in coordinato. Durante la mia prima visita provai un po’ di paura nel ritrovarmi ammassata col resto dei 23 o più cugini miei coetanei nel retro di una grossa Suburban verde pisello (o “Al-Superman”, come la chiamavano in famiglia) e poi scaricata nel bel mezzo del deserto per giocare a guardie e ladri e urlarci contro fino a tarda notte. La libertà di dimenarmi, arrampicarmi e urlare per tutta la durata del viaggio si era rivelata rischiosa e catartica, tanto che non volli mai più salire a bordo della Scirocco.

La vita sulle strade saudite era divertente ed emozionante, con una serie infinita e mutevole di compagni di giochi. Mangiavamo patatine Sindbad e cantavamo canzoni come “Salamatek”, un motivetto sull’uso di cinture di sicurezza. Bevevamo siero del latte e ci scottavamo la pelle sotto al sole. Ma al sopraggiungere della pubertà attività come le scampagnate o il semplice occupare il sedile anteriore di un’auto si fecero meno semplici. La realtà della situazione aveva iniziato a gettare lunghe ombre su tutti i miei passatempi dell’infanzia.

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Non mi era più permesso lottare coi cugini maschi o andare a trovare gli zii nel salotto degli uomini. Correre, saltare, arrampicarmi e, ancor peggio, nuotare divennero tabù. Invece dei top di cotone sportivi a fiori, il mio armadio fu invaso da “abaya sportive” nere, senza maniche. Iniziai a comprendere mia madre, che dal nostro arrivo nel Paese aveva vissuto senza macchina e senza lavoro. Lottava per la possibilità di spostarsi, e nei suoi frequenti picchi di ribellione caricava me e mia sorella su un taxi diretto alla spiaggia o nel deserto. Lì, la mamma diceva all’autista di fermarsi accanto a un molo o una duna per permetterci di correre e scatenarci fuori dalla sua visuale.

Continua nella pagina successiva.

Il coraggio e il temperato atteggiamento di sfida che la accompagnavano furono ciò che mi permise di sopravvivere quando, da adulta, tornai da sola nel Golfo. Negli anni a Puyallup, nello Stato di Washington, avevo raggiunto l’età per la patente, lontano dal Qatar (dove all’epoca non potevo guidare senza prima essermi sposata) o dall’Arabia Saudita (dove non potevo e tuttora non posso guidare per nessuna ragione). Sulle strade rugiadose e collinari della zona ero al sicuro dalle brutali tragedie delle vie del deserto. Tutto quello che dovevo fare, sulla principale arteria della città, era mantenere una guida sulla difensiva. La mia prima macchina fu una Chevrolet El Camino. Era marrone e bellissima, metà auto metà furgoncino, nata nel mio stesso anno. Col suo motore V8 e il design pratico era più potente e agile di ogni altra macchina del circondario. I giovani coreani avevano le loro Honda con alettoni inclusi, e i montanari gli scassoni Ford modificati, ma nessuno poteva competere con la “El”.

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Alla fine ebbi anche la mia patente qatariota, consegnatami dall’Alto Consiglio per il Traffico dell’Emiro. Le regole sono cambiate, e alle giovani donne (dai 24 in su) è permesso prendere la patente per sgommare, consumare l’asfalto e infuriare in 4x4 sulla spiaggia. In una manifestazione di suffragio spontaneo, mio padre decise che era giunto il momento di unirmi agli altri sventurati guidatori del mio clan. In realtà aveva semplicemente bisogno di qualcuno che lo aiutasse a scarrozzare i miei sette fratelli e sorelle avanti e indietro da scuola.

L’Alto Consiglio per il Traffico di Doha è un edificio degno degli incubi di Kafka. È concepito per apparire come una struttura fascista del futuro così come se lo sarebbe immaginato un architetto cieco nel 1986. Tutte le porte sono presidiate da guardie a riposo e gli angoli di ogni stanza raccolgono piccole dune di polvere. Dopo aver raccolto una decina di timbri da vari funzionari, tutti innaturali nelle loro uniformi a vita alta e in posa per una foto accanto a me, scontrosa e col velo ben stretto, mi ritrovai sfinita e completamente impreparata all’esame della vista.

Un funzionario dal passo dondolante mi accompagnò all’entrata delle signore, sopra la quale era stato scarabocchiato un solo occhio inquisitorio. La mia guida si diede una grattata alle parti intime strizzate nei pantaloni e mi disse di entrare. Aprii la porta ciclopica per ritrovarmi bloccata in uno stanzino che odorava di stantio, malamente illuminato e completo di una cassettiera da ufficio ormai inservibile. Facendomi spazio tra una parete e l’altra trovai una seconda porta e la aprii, e finii dritta nella visuale di un indiano dall’aria sconfitta che si teneva un cerchietto di tessuto rosso sull’occhio destro e faticava terribilmente a identificare le varie E di cui ero diventata lo sfondo. Tornai nello stanzino e aspettai che mi chiamassero, approfittando dell’attesa per abituare i miei occhi al buio e prepararli al test. Alla fine misi un piede su una ragnatela o quello che era un principio di cataratta. Nonostante la prova che fossi prossima alla cecità e alla paranoia, passai miracolosamente l’esame. L’incaricata mi fece leggere una riga di numeri grandi, chiese se abitualmente indossavo le lenti a contatto o il velo facciale, timbrò i miei documenti e mi rimandò da dove ero venuta.

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Questo piccolo trionfo fu immediatamente ridimensionato dalla rivelazione per cui ogni anno almeno 300 persone perdono la vita in terribili tamponamenti, cappottamenti e frontali dato che nessuno si disturba a imparare a guidare. Avevo il golfo sotto le mie ruote e la mente sgombra se non per la prospettiva di rovesciarmi, sbandare, essere agganciata a tutta velocità da un Hummer, finire contro un lampione o andare a fuoco. Diventai la prima donna della famiglia a prendere la patente, anche se a Doha le non-beduine guidavano già da tempo. L’immobilità delle donne della nostra tribù ha un che di ironico, se si considera che percorrevano in lungo e in largo il Rub’ al-khali saudita molto prima che quelle di città potessero mettere piede fuori dalle loro capanne. E ogni volta che mia prozia Berkah racconta di quando a 14 anni era scappata per evitare la notte di nozze, sapere che la mia patente mi permette di costeggiare la corniche con tutti i suoi lampioni e usare i parcheggi custoditi ha il sapore di una vittoria inconsistente.

Le mie paure non furono per nulla placate dagli speronamenti dei ragazzi vicino casa, ad “Al-Maarri City”, il quartiere di Doha che prende il nome dalla nostra tribù. Nei dintorni ci sono diverse gang “in lotta” tra loro, composte da teppistelli coi capelli lunghi e un vocabolario pieno di improperi che passano il tempo tra gare di macchine, rispondendo agli appellativi di “poliziotti”, “terroristi” e, il mio preferito, “mafia”. Mi sono sempre interrogata sul perché i loro nomi fossero sparsi per tutto il quartiere sotto forma di graffiti in inglese.

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Queste gang sono l’ossessione dei miei due fratelli più piccoli. Passano ore nel salotto degli uomini, a fingere di memorizzare il Corano mentre in realtà disegnano elaboratissime scene ricche di pick-up Nissan abilmente resi, con tanto di teschi e bandierine a scacchi e le varie scritte Mafia o Terroristi in caratteri spessi. Tutte queste fazioni appartengono alla tribù degli Al-Dafira, ma sono divise in gruppi più piccoli a seconda del clan. I Terroristi, per esempio, rappresentano il nostro clan. Mio padre ha impedito ai miei fratelli di assistere, anche se i due fanno comunque parte di un gruppetto clandestino di ragazzi che si scambiano via Bluetooth video di Land Cruiser in impennata.

La strada appena asfaltata dietro casa è diventata uno dei punti di ritrovo preferiti dei frequentatori delle corse notturne. La stanza dei miei tre fratelli e quella che condivido con le mie due sorelle dà sulla strada, che non è ancora stata provvista di un sistema di illuminazione funzionante.

In mancanza del collegamento alla rete elettrica, i lampioni sistemati mesi fa si stagliano nel buio. A notte fonda in lontananza si può tranquillamente avvertire il vocio della folla che si raccoglie sul limite ghiaioso della strada, dove finisce l’asfalto. A ovest, verso l’Arabia Saudita, portano su di giri i motori, e la corsa inizia. Toyota nera contro Nissan Bianca o Land Cruiser contro Land Rover. Il clou della gara è la rotonda vicino a casa nostra.

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È la parte più pericolosa del percorso.

A qualche rotonda di distanza dalla nostra c’è una pista di autoscontri. L’impianto è arrugginito e apparirebbe piuttosto minaccioso se non fosse per le decorazioni poste sul cordone di gomma. La copertura è formata da una rete metallica e il pavimento è scivoloso per via della sabbia. È in quello spiazzo altrimenti deserto da almeno tre anni, e a fare la guardia la sera c’è un filippino. I ragazzi della zona affollano la struttura traballante e per un riyal hanno diritto a cinque minuti di gioco pesante. Tempo fa ci ho accompagnato i miei fratelli. Avevano finito gli esami del quadrimestre invernale e mi hanno pregato di andare, forti degli spiccioli avanzati dalla paghetta per il pranzo. Era il tipo di situazione ipotizzata da mio padre per impiegare la mia patente. Il più piccolo, Jaber, ha preso posto per primo, su una macchinina giallo canarino con l’asta leggermente ricurva al centro. Khaled ha trovato una macchina nera, lucente, col numero sette sul fianco. Nel mettere in funzione l’impianto, il filippino stava strappando via una banconota da cinque riyal dalla mano di uno dei ragazzini più grandi. I miei fratelli hanno iniziato a percorrere la pista cercandosi a vicenda, mentre si lanciavano minacce e si scontravano con tutta la potenza a loro disposizione. La fine della corsa si stava avvicinando, e proprio allora l’asta ricurva della macchina di Jaber ha emesso uno stridio e si è rotta a metà. Dalla rete metallica è scesa una pioggia di scintille, mentre l’asticella, ormai priva di elettricità, si è rotta in due pezzi per poi cadere a terra. Dopo alcuni attimi di silenzio i ragazzini hanno ripreso a girare. Jaber era visibilmente spaventato; aveva segni di bruciature sulla testa e le spalle. Siamo tornati a casa con le cinture di sicurezza allacciate, nel silenzio più completo. Lungo il tragitto abbiamo superato la carcassa di un pick-up sul ciglio della strada, a pancia in su e con il logo “Poliziotti” su un lato. Non c’erano ambulanze, solo veri poliziotti che disquisivano dell’incidente. Più tardi ho sentito Jaber piangere nel morbido abbraccio di sua madre. Lo stava calmando e facendogli la sua solita promessa: avrebbe potuto avere qualsiasi macchina desiderasse, una volta grande.

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Poi, a inverno inoltrato, poco dopo l’incidente all’autoscontro, mio cugino Abdallah è stato promesso in matrimonio a un’altra cugina della tribù. Al fine di evitare di avere figli con deformità tipo 12 dita o nanismo si sono sottoposti agli esami del sangue, in modo da assicurarsi che l’incesto non avrebbe dato frutti marci.

Abdallah, quale stella tra i suoi molti fratelli, era considerato un ottimo partito, anche se in passato era già stato promesso e i risultati delle analisi si erano sempre rivelati negativi. Era la prima volta che il suo sangue veniva giudicato compatibile con quello di un’altra persona. Qualche settimana prima del matrimonio è andato in Arabia Saudita per comprare pizzi e lustrini per il corredo della fidanzata. A detta di tutti non era mai apparso così felice, prossimo alle gioie e alle possibilità di questo amore a lungo atteso.

All’epoca Ligaa, la sorella maggiore di Abdallah, aveva praticamente superato il nono mese di gravidanza. Il suo bambino se ne stava ostinatamente ancorato all’oscurità del suo ventre, passando il tempo nella placenta cullata dal liquido amniotico. Ma il pacifico silenzio nel corpo di Ligaa non era destinato a durare. Le acque si sono rotte non appena ha saputo della tragica notizia.

Trasportato su una piccola barella sull’autostrada tra il Qatar e l’Arabia Saudita Abdallah aveva un’emorragia interna e diverse ossa rotte. Il suo corpo non presentava ferite, al di là della spaccatura su cranio e fronte provocatagli dall’atterraggio a 100 metri dal suo furgoncino semidistrutto. Quelli che l’hanno visto dicono avesse un aspetto pacifico mentre moriva nel suo letto all’Hamad General Hospital, a un piano di distanza dalla stanza in cui la sorella Ligaa stava dando alla luce quel pigro del suo bambino.

Una mattina, prima che il nuovo nato o il nuovo morto lasciassero l’ospedale, Bakhita, madre in lutto e nonna emozionata, ha fatto notare la strana voglia violacea che dallo scalpo si allungava sulla fronte rugosa del bambino. Tutti rimasero stupefatti per il miracolo:

SubhanAllah.”

Ovviamente l’hanno chiamato Abdallah.

***

Nel frattempo, le corse di macchina vicino casa non si sono fermate, e i miei fratelli continuano ad aspettare svegli nel buio sporgendosi dalle finestre.

Rannicchiati sui davanzali salutano silenziosamente e reprimono i cori di sostegno mentre i Mafia si avvicinano alla rotonda. Sembra che Jaber stia superando lo spavento dell’autoscontro, e ha addirittura proposto di tornarci prima della fine delle vacanze per controllare se la macchina è di nuovo in pista. Ogni notte, il rombo degli acceleratori e lo stridio alimentano sempre di più la sua voglia di mettersi alla guida. Poliziotti e Terroristi girano intorno alla rotonda e ruzzolano in direzione dell’Arabia Saudita. Sentiamo un colpo di clacson e in lontananza vediamo le luci rosse, ma non sappiamo mai chi si sia aggiudicato la gara.

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