FYI.

This story is over 5 years old.

Stuff

Antonio Moresco vuole scomparire

In occasione dell'uscita del suo nuovo libro, che conclude una trilogia iniziata 30 anni fa, abbiamo parlato con Antonio Moresco della morte, della vita e di come siamo tutti "circondati dal buio."
Antonio Moresco con le prime copie de Gli increati. Foto via Flickr

Per me, e per molti altri, Antonio Moresco è il più grande scrittore italiano vivente. Di certo, è uno dei pochi a narrare secondo un progetto preciso—quasi una missione, che l'ha tenuto impegnato per gli ultimi 30 anni.

Ha iniziato a scrivere alla fine degli anni Settanta, quando si è ritrovato a Milano senza un lavoro e senza un titolo di studio dopo una vita errabonda e dedita all'impegno politico. Scriveva a mano, di notte, seduto sulla tazza del cesso del monolocale in cui viveva con la moglie e la figlia piccola, attento a non svegliarle.

Pubblicità

Dopo un lento apprendistato fatto di rifiuti da parte degli editori, il primo gennaio 1984 Moresco ha scritto l'incipit de Gli esordi—il primo capitolo della monumentale Trilogia dell'Increato, la sua opera più importante. Nel 2009 ne era stato pubblicato il secondo atto, Canti del caos; quest'anno è infine uscito Gli increati, che conclude quella stessa trilogia e, nelle intenzioni dell'autore, la sua stessa carriera di scrittore.

Se quando ha iniziato veniva tenuto in scarsa considerazione dall'ambiente letterario italiano, col tempo Moresco ha saputo guadagnarsene l'adulazione. Oggi viene invitato in televisione, e sono molti i nomi noti che hanno espresso la loro ammirazione nei suoi confronti. L'ho incontrato nella sua casa di Milano—un sottotetto spoglio, le pareti occupate di librerie—in occasione dell'uscita del suo nuovo libro, per parlare con lui della letteratura, della morte, della vita e di come siamo tutti "circondati dal buio."

Antonio Moresco nel 2013. Foto via Flickr

VICE: I tuoi ultimi due libri iniziano entrambi con la morte del narratore, perciò mi sembra giusto partire da qui. Al di là di com'è raccontata nei libri, come vedi tu questa questione?
Antonio Moresco: Tutta la nostra cultura, la nostra forma mentis, la nostra cività si basa su un'antinomia—la vita da una parte, la morte dall'altra. Allo stesso modo si parla di luce e buio, di bene e male—si tratta sempre di antinomie, antinomie che si allagano sempre più. Queste sono le fondamenta su cui poggia l'edificio della nostra cultura, dove tutto si raffredda sempre più perché c'è un allentamento dei corpi, anche di quelli mentali. Io faccio il percorso inverso. Il mio percorso va verso la contrazione, la fusione, il calore bianco. Quello che c'è nella radice della fiamma—che è così calda che non brucia, è pura luce.

Pubblicità

È difficile spiegare tutto questo al di fuori del libro, ma io ci credo in questa cosa qui, e chiedo al lettore il coraggio di confrontarsi con un qualcosa che è fuori dalla nostra concezione. Come ci spiegano i fisici, noi della nostra vita e della materia conosciamo solo una parte piccolissima, forse il cinque percento. E le nostre visioni della vita sono esattamente dentro questo cinque percento. Bisogna cercare di oltrepassare queste colonne d'Ercole, ed è questo quello che io cerco di fare.

E immagino che questa tua visione non si limiti alla letteratura ma riguardi la vita in generale.
Assolutamente sì. Per me la letteratura non è uno spazietto separato e autoreferenziale dove niente può entrare e niente può uscire—che è la visione che ha preso piede nella seconda metà del Novecento. Hanno messo la letteratura su un altarino, ma allo stesso tempo l'hanno depotenziata, l'hanno resa inerte, un parco giochi per bambini grandi… I bambini piccoli hanno lo scivolo, quelli più grandi hanno la letteratura. Ma non è mai stata così la letteratura, in passato.

Oggi, sembra che se non ti limiti a fare il compitino, se sei attraversato da cose che vengono da fuori, da tutto quell'infinito di cose che non siamo e non sappiamo, non sei un bravo scrittore. Ma non è mai stato così: nei secoli passati gli scrittori avevano delle passioni incredibili, da Cervantes agli autori russi dell'Ottocento… Non erano degli abatini che curavano solo il loro orticello. E questo non ne faceva dei cattivi scrittori o degli scrittori inferiori agli altri. Ecco, per me c'è questo intreccio profondo.

Pubblicità

Che ne pensi della tendenza biografica e autobiografica che ultimamente sembra andare molto in letteratura? Quell'idea secondo cui debba esserci una forte connessione tra le esperienze di vita di chi scrive e quello che viene scritto.
Trovo che sia assurdo. C'è una grande paura. Da una parte, c'è chi sostiene che non si possa più esperire, che l'esperienza sia inattingibile, impossibile… Ma chi l'ha detto? Intorno a noi ci sono persone che fanno una vita pazzesca, c'è gente che arriva sui barconi e crepa in mare e a questi tu ci vai a dire che oggi non è più possibile esperire? Ma non solo; anche se uno è ricco e passa la sua vita a bordo piscina, con il drink in mano, anche in quel caso sta facendo un'esperienza. Quindi non si capisce dov'è questa paura, questa sorta di difesa dalla vita, dal caos del mondo. Dall'altra parte invece, in un realismo parodistico che ha preso piede in questi anni, si dice che quello che uno scrive può essere solo un duplicato—non della realtà, ma di ciò che di essa appare. E questa è la morte, non solo della letteratura ma di tutto.

Perché non è mai stato così. È vero: tra gli scrittori c'è sempre stata gente che ha fatto esperienze pazzesche—prendi Melville, che probabilmente se non fosse andato da ragazzo su una baleniera non avrebbe scritto Moby Dick; anche se è pur vero che c'è un sacco di gente che è stata sulle baleniere e non ha scritto Moby Dick. Ma c'è anche stata gente come Emily Dickinson o Kafka, che hanno fatto una vita ritirata—eppure hanno fatto fruttare in maniera pazzesca quel poco che la vita gli ha dato.

Pubblicità

Penso anche a Kavafis, che faceva l'impiegato statale e nel tempo libero scriveva poesie. Secondo te questa cosa si è persa? Intendo la capacità di vedere oltre quello che si sta facendo in questo preciso momento.
Se all'interno della letteratura ci sono stati dei passaggi, è stato possibile proprio perché si è sfruttata questa possibilità. A chi dice che bisogna fare esperienza per parlare in modo veridico delle cose, io rispondo: Ma scusa, ma Kafka non ha avuto bisogno di essere un insetto per scrivere La metamorfosi. Collodi non ha avuto bisogno di essere un burattino per entrare nella sua mente.

Si nega l'aspetto precognitivo e prefigurativo che si può scatenare dentro la vita e che a volte può anche venire espresso in letteratura. Ma questo vuol dire che la letteratura non può nulla, non serve a nulla, può essere solo un intrattenimento tra persone in attesa della loro morte. E allora cosa me ne frega, a me, della letteratura.

Questa cosa dell'intrattenimento l'hai detta anche in diverse altre interviste.
Parlavo della letteratura che sta prendendo piede sempre di più in questi anni, una letteratura che si basa su schemi fissi riciclati mille volte, che creano immediato riconoscimento nel lettore e lo tranquillizzano. Voglio dire, non è normale che in una certa epoca storica il 90 percento dei libri parli di serial killer… Certo, ci sono cose belle e brutte anche lì, però non è normale. Crea assuefazione su uno schema mentale. La letteratura non può essere l'equivalente della camomilla, così facendo si toglie alla vita la sua capacità di inventarsi.

Pubblicità

La cosa più importante è che riesca a trasmettere qualcosa.
Che entri dentro una dimensione di rischio, di avventura, di scoperta, di esplorazione. Dobbiamo aprirci un varco nel buio, siamo circondati dal buio. Anche a livello fisico, biologico: abbiamo il sole, ci illumina, c'è una piccola superficie illuminata… Ma è brevissima! In pochissimo tempo, a piedi, si potrebbe arrivare fino alla fine, agli ultimi strati dell'atmosfera. Poi ci sarebbe il buio più assoluto. E anche dentro di noi è così, anche le nostre conoscenze: quel poco che abbiamo è tutto dentro il buio.

E allora quando tu scrivi un libro—soprattutto oggi, in un momento in cui siamo a un certo livello di conoscenze scientifiche—non puoi fare finta di niente: devi avventurarti. La letteratura è rischio, è esplorazione; gli scrittori sono degli esploratori che strappano dei territori al buio.

A proposito di esplorazione: mi viene in mente che spesso si dice che se in passato si poteva esplorare la terra e in futuro si potranno esplorare le galassie, ora come ora l'unica esplorazione possibile è quella dell'interiorità umana.
Questa roba qui per me non si riduce all'esplorazione della psiche, io non ho un approccio di tipo introspettivo o psicanalitico. Anzi, penso—a torto o a ragione—che quella roba lì possa essere la peste per la letteratura. Perché ti dà l'illusione di avvicinarti sempre di più a qualcosa, ma in realtà il prezzo è che ti allontana da qualcosa d'altro e di infinitamente più vasto. Per cui non ho questo approccio qui, anche se a volte scendo nelle viscere del male, o del buio—chiamalo come vuoi. Quindi non ho quest'idea dell'esplorazione.

Pubblicità

Io voglio aprire a un'altra cosa, qualcosa che misura tutte le cose all'interno di questa bilancia della vita e della morte e legge in questa maniera l'economia, la politica, la società, la rivoluzione, la pubblicità, le teorie scientifiche dell'evoluzione. È lì che sono andato a parare. Io nei miei libri continuo a tentare questo confine; in questo libro proprio lo varco, e tutto acquista un aspetto completamente diverso. Io chiedo al lettore di provare a vedere le cose in questo modo, per fargli vedere come tutto diventa completamente diverso.

Poi non lo so, sarò perché mi guardo intorno e vedo com'è fatta l'Italia, con tutti i suoi limiti anche nel mondo culturale… E allora certe volte mi sembra quasi che un libro come Gli increati possa venir preso sul serio più da uno scienziato, da un fisico, che non da un letterato italiano.

A me il mondo intellettuale italiano sembra profondamente inautentico.
È così, purtroppo. Mi spiace dirlo, ma ci sono persone che più leggono e più diventano inerti. Però c'è da portare il terremoto lì dentro, perché ci possa essere una scintilla di abrasione reale con quello che uno fa. Se no viene preso tutto all'interno di una sorta di vuoto gioco mentale che si perpetua sempre più. Io non è che leggo per aumentare astrattamente la massa di informazioni in cui già è soffocata la mia mente. Io leggo perché cerco dei varchi, perché cerco dei varchi nel buio.

Io leggo per capire cosa sto cercando. Quando dico "inautentico" è perché mi sembra che si sia perso questo aspetto.
L'idea di letteratura di oggi ha cancellato in molti lettori addirittura la memoria del fatto che possa esistere qualcosa d'altro rispetto a questa roba qui. La letteratura dovrebbe essere una cosa incontrollabile, qualcosa che ti sposta, che mette fuori asse le cose così come le hai previste. È questo che viene cancellato: si ha paura dell'incontrollabilità che si scatena dentro la vita. Ma è di questo che abbiamo bisogno. Cos'è la nostra vita se le togli questa possibilità, questa potenzialità?

In molte interviste hai detto che mentre scrivevi le tue opere ti sentivi come un asino che porta un carretto di cui non conosce il contenuto. Come una sorta di messaggero di qualcosa d'altro.
Io ho avuto l'impressione, scrivendo questi libri, di essere un tramite. Non era tutto deciso da me, non sceglievo io tutte le cosine per imbastire il mio teatrino letterario. C'è qualcosa al di fuori di questa roba qua, e se uno scrittore non riesce a entrare in contatto con questa cosa è meglio che cambi mestiere. E credo che questa cosa qui, questo sonnambulismo, sia una cosa che hanno conosciuto gli scrittori—che nel momento in cui entrano dentro questa zona fluida riescono a sopravanzare se stessi, a dire cose che sono al di là e al di sopra delle loro possibilità. Non devo dire questo? Allora la letteratura è solo un residuo secco della vita. Per me non è così.

Hai detto che una volta finito di scrivere quest'opera avresti voluto sparire. È come dire che questa missione non ti apparteneva ma ti ha soltanto utilizzato?
L'uno e l'altro. Alla fine di questo libro io non sono più quello che l'aveva cominciato. Perciò non posso—e non voglio—scrivere libretti così, tanto per fare, dopo questo. Ho bisogno di ritornare il più possibile sotto terra, ricongiungermi con il luogo da dove sono venuto. Perché lì c'è la mia forza. Io devo tornare lì, da dove si è liberata questa concentrazione—in quel lunghissimo periodo della mia vita in cui ero inerme, sotto terra, sconosciuto ma infinitamente vicino a me stesso.

In più, mi riesce sempre più penoso il rapporto con il grosso del mondo della cultura italiana, che fa spavento. Funziona come la criminalità organizzata, non ci sono differenze. Io non ho scritto per quello, non mi interessa scendere a patti con quel mondo. Oltre a tutto questo, io ho 67 anni. Il tempo della mia attività pubblica come scrittore è di poco più di 20 anni. Alla fine, se guardi tutto assieme, è un pezzo minoritario della mia vita. Io voglio tirarmi fuori, perché non ce la faccio più a sostenere la falsità, quella che tu chiamavi inautenticità, che regola i rapporti tra gli uomini. Non riesco più a sopportare il rapporto ravvicinato con questa continua diminuzione della vita e di se stessi, perché mi sento diminuito anche io. Diminuisce tutto il mondo. E io non riesco a sopportarlo più.

Segui Mattia su Twitter