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A8N10: Il numero sulla Siria

La guida di VICE alla Siria

Come districarsi nel labirinto del conflitto senza perdere completamente la testa.

Illustrazioni di Mike Taylor.

Abbiamo compilato questa guida nel tentativo di condensare le informazioni pescate da migliaia di pagine tra libri, biografie, testi sacri, testimonianze, reportage e altri documenti che vanno a comporre questo numero. Avremmo potuto inserire decine di voci in più, ma secondo il nostro parere, i temi trattati sono i più importanti per chi voglia cercare di comprendere la complessità del conflitto. 

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HAFEZ AL-ASSAD

Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente siriano Bashar al-Assad, è la figura più importante nella breve storia del Paese post-indipendenza. Quasi ogni aspetto della Siria moderna è stato plasmato da Hafez, ma la cosa non deve affatto sorprendere, considerato che con il suo pugno di ferro ha governato il Paese per decenni—dal 1970 fino alla scomparsa, nel 2000.

Hafez apparteneva a un lungo lignaggio di uomini di potere. Il nonno Sulayman era rispettato dai suoi compaesani per le sue doti di forza, coraggio e abilità di tiro. Lo avevano soprannominato al-Wahhish (“furia selvaggia”), termine apparentemente così calzante che Sulayman finì per farne il proprio cognome. Il figlio Ali ereditò molte delle sue feroci caratteristiche, rinsaldando la reputazione di famiglia tra le tribù alawite insediate sulle montagne. Nel 1927, su consiglio di alcuni anziani del villaggio, il cognome venne cambiato in un più raffinato al-Assad, dal termine arabo per “leone”.

Secondo l’eccellente biografia di Patrick Seale, Il leone di Damasco. Viaggio nel “Pianeta Siria” attraverso la biografia del presidente Hafez al-Assad, Hafez nacque a Qardaha, quando il villaggio “consisteva di un centinaio di baracche di fango o di pietra grezza raggruppate alla fine di un sentiero polveroso. Non c’erano moschee o chiese, niente negozi, bar, strade lastricate.” All’epoca il tasso di alfabetizzazione della regione era molto basso, ma Hafez ebbe fortuna e strappò un posto nella vicina scuola coloniale francese. A 16 anni si unì al partito panarabista di stampo secolare Baath, per il quale divenne un’importante risorsa distribuendo letteratura baathista, organizzando riunioni segrete nella sua casa e scontrandosi con gruppi rivali e forze di polizia.

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Nel 1963, Hafez giocò un ruolo di punta nell’ambito del colpo che portò il partito Baath al potere. Tre anni più tardi contribuì a organizzare una manovra ancora più sanguinaria, culminata nella sua nomina a ministro della Difesa. Quattro anni dopo, con un altro colpo di stato, si fece strada ai vertici e fino alla presidenza del Paese—incarico che avrebbe detenuto per il resto della sua vita.

Quale leader scaltro ma intransigente, Hafez riuscì a scampare al destino dei leader siriani che lo avevano preceduto indebolendo la concorrenza e brutalizzando l’opposizione. Centralizzò il sistema politico nazionale, cambiò la costituzione e si alleò con l’Unione Sovietica. Usando a proprio vantaggio la propaganda al fine di presentarsi come un uomo del popolo, diede impulso alla modernizzazione delle infrastrutture del Paese reprimendo al tempo stesso ogni forma di dissenso. Ampliò la portata delle forze di sicurezza e introdusse un culto della personalità di stile sovietico attraverso la diffusione di migliaia di statue, ritratti e manifesti in tutto il Paese. Nel 1982 ordinò il massacro di migliaia di insorti, principalmente sunniti, nella quarta città siriana, Hama, e un anno dopo respinse un tentativo di colpo di stato da parte del fratello Rifaat.

In un mondo giusto, Hafez sarebbe stato punito molto prima della morte. Al contrario, se ne andò in modo relativamente pacifico, nel 2000, in seguito a un attacco cardiaco.

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BASHAR AL-ASSAD

Bashar al-Assad è nato a Damasco nel 1965, cinque anni prima del culmine del percorso paterno ai vertici del partito Baath. Terzo di cinque fratelli, Bashar ha avuto un’infanzia “normale”, comprensiva di partitelle di calcio e sfide a ping-pong con il padre. Su di lui le aspettative non erano molte, principalmente perché tutti indicavano Basil, il fratello maggiore, come erede alla presidenza. Basil—carismatico, sicuro di sé e bravo negli sport—rappresentava la scelta naturale per la successione, mentre Bashar era timido e disinteressato al governo. Diplomatosi nel 1982, ha proseguito gli studi per diventare medico nell’esercito e si è iscritto a oftalmologia presso il Western Eye Hospital di Londra.

Nel 1994, la morte del fratello Basil in un incidente automobilistico ha irrimediabilmente cambiato la sua vita. Subito dopo il funerale,

Bashar è stato nominato erede in linea diretta e avviato alla preparazione per la presidenza tramite l’ingresso all’accademia militare. Hafez è morto il 10 giugno 2000, e Bashar ha assunto la presidenza alla tenera età di 34 anni, talmente giovane da richiedere un provvedimento del parlamento che abbassasse l’età minima così da permettergli di “correre” per l’incarico. In quell’occasione si sono tenute elezioni fasulle, replicate da quelle che nel 2007 hanno sancito la sua “rielezione”.

Se la storia del figlio minore che si impossessa inaspettatamente dell’impero vi suona familiare, è perché si tratta della trama de Il Padrino. Con la differenza che Bashar somiglia più a Fredo che a Michael. Persone interne al regime hanno dichiarato al Financial Times che Bashar è insicuro e soggetto a cambiamenti d’umore. Lo zio Rifaat, fuggito dal Paese dopo aver tentato un colpo militare nel 1983, ha spiegato alla CNN che Bashar “segue le decisioni che il regime assume a suo nome.” La sua carriera di dottore sarà anche risultata brillante, ma come dittatore è stato al contempo brutale ed esitante, una combinazione letale. “La mattina parli di un determinato argomento con lui, poi arriva un altro e gli fa cambiare idea,” ha affermato l’ex vice presidente Abd al-Halim Khaddam.

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Qualunque combinazione di cattive scelte e sfortuna l’abbia condotto a questo punto, Bashar si sta infilando da sé in un vicolo cieco, attorniato da una discreta quantità di sangue. Secondo alcuni rifiuta di ritirarsi per il timore che il suo clan alawita cada vittima di un massacro dei ribelli. “La Siria di Assad ha assunto lo stato di paria”, intitolava un pezzo del Washington Post la scorsa estate. Sembra un epitaffio appropriato, per un uomo che non ha chiesto a un regime né a una rivoluzione di cadergli addosso, ma non appare comunque disposto o capace di fare qualcosa.

Guardando al suo passato, sembra assurdo che un fessacchiotto nerd—che, tra l’altro, ha pronunciato il Giuramento di Ippocrate—sia potuto finire al fianco di Muammar Gheddafi, Saddam Hussein e Kim Jong- Il. Forse, di tanto in tanto si chiede: “Cosa diavolo sto facendo? Io volevo solo essere un oftalmologo e chiavarmi le inglesi.”

LIBERTÀ CIVILI E LEGGE DI EMERGENZA

Come avrete probabilmente capito, la Siria non è mai stata un bastione di libertà e diritti umani. In epoca coloniale, le autorità mandatarie francesi condannavano regolarmente a morte i cittadini, senza giusto processo ed esponendo i cadaveri dei “banditi” nella piazza centrale di Damasco. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Adib al-Shishakli, un comandante dell’esercito alla guida del Paese, dissolse la totalità dei partiti d’opposizione, proibì la stampa e perseguitò le minoranze etniche. Nel 1963, il partito Baath assunse il potere e dichiarò quello stato di emergenza che finì per consegnare ampi poteri alle forze di sicurezza; la “legge di emergenza” è stata revocata nell’aprile 2011, ironicamente proprio agli inizi della crisi.

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La legge di emergenza prevedeva che i cittadini potessero essere arrestati, incarcerati e condannati senza un processo o l’accesso a un avvocato. Questa situazione perdura tutt’oggi. Ci sono le elezioni, ma è pura formalità. La libertà di associazione è prevista dalla costituzione, ma il Ministro dell’Interno deve autorizzare qualunque tipo di riunione di più di cinque persone. Prima della rivoluzione le manifestazioni contro Israele venivano regolarmente approvate, mentre quelle pro-Islam, pro-curdi e anti-governo potevano essere sciolte in tempi brevissimi. Lo scorso anno, con la diffusione di proteste a macchia d’olio, le forze di sicurezza sono state autorizzate dal regime a disperdere i concentramenti con l’uso di armi da fuoco, lasciando le vittime a morire per strada.

LA PRIMAVERA DI DAMASCO

Non doveva andare così. Nel 2000, quando Bashar è salito al potere, i siriani speravano che il nuovo presidente di formazione occidentale avrebbe provveduto a smantellare lo stato di sicurezza. Alcuni cittadini si incontravano in abitazioni private per discutere di riforme all’interno del cosiddetto movimento della Primavera di Damasco. Gli intellettuali avevano firmato la “Dichiarazione dei 99”, un manifesto che richiedeva la fine della legge marziale e la liberazione di prigionieri politici, e Bashar sembrava addirittura aver dato loro una speranza chiudendo il carcere di Mezzeh, a lungo criticato per il terribile trattamento riservato ai detenuti. Ma la speranza non è sopravvissuta a lungo.

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Nell’agosto del 2001 il regime ha usato la mano pesante contro aspiranti riformatori, arrestando membri in vista dei gruppi di discussione fino ad allora tollerati e accusando i partecipanti di aver “tentato di cambiare la costituzione per vie illegali” e “incitato lo scontro religioso e razziale.”

La speranza dell’Occidente, ovviamente, è che una volta abbattuto il regime di Assad, i ribelli istituiranno una società libera e democratica e tutti vivranno felici e contenti; tuttavia, la presenza di jihadisti al fianco dei combattenti dell’Esercito Siriano Libero (ESL) indica che, se l’estremismo religioso non verrà controllato, il Paese potrebbe potenzialmente sostituire l’autoritarismo secolare con l’oppressione teocratica.

RUSSIA

La Russia rappresenta l’alleato siriano più potente e di lunga data, e il suo governo è uno degli ultimi ad appoggiare Assad al di fuori del suo dominio.

Ha bloccato ogni risoluzione ONU di condanna al regime e usato il veto (così come, occasionalmente, la Cina) di fronte a ogni tentativo di sanzionare un governo che ha ucciso e continua a uccidere i propri civili.

Nel frattempo, i russi non hanno smesso di vendere armi ad Assad. Una delle transazioni più consistenti risale a gennaio, quando il Cremlino ha concluso un accordo che prevedeva l’invio di 36 caccia al costo di 550 milioni di dollari. Le merci verranno consegnate tra anni, e con questa vendita, la Russia sembra supporre che l’attuale governo sarà in circolazione ancora per lungo tempo.

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Il legame tra Damasco e Mosca risale alla Guerra Fredda. Negli anni Cinquanta, all’interno della partita in corso sullo scacchiere arabo, il leader sovietico Nikita Krusciov inviò al Paese più di 200 milioni di dollari di aiuti. L’alleanza tra URSS e Siria si è mantenuta anche dopo il colpo di Hafez del 1970. I sovietici hanno inviato carichi e carichi di armamenti per contrastare l’influenza israeliana, e l’amore della Siria per armi, aerei e missili russi non si è minimamente affievolito. Nel 2011, la Russia ha venduto alla Siria armi per un valore di un miliardo di dollari, e a questo punto tutto è possibile.

A livello geopolitico, ancora più importante delle armi è però la base navale russa di Tartus. Il permesso per la sua costruzione fu accordato nel 1971 da Hafez, e da allora la struttura ha sempre rivestito un ruolo vitale. Inoltre, si tratta dell’unico porto militare russo tuttora operativo al di fuori dei territori ex URSS. Nell’ottica della realpolitik di Putin e compagnia, mantenere Bashar al potere è perfettamente sensato. È un prezioso acquirente di armamenti, e, soprattutto, offre loro un posto in cui rifornire i sottomarini nucleari.

LIBANO

La lunga e intricata storia col Libano ha inizio con la sua separazione dalla Siria nel 1920, quando le potenze europee dominavano ancora gran parte del Medio Oriente. Le truppe siriane sono state una presenza costante entro i confini del Paese dal 1976 sino alla “Rivoluzione dei Cedri” del 2005. Tuttora, però, le agenzie di intelligence siriane hanno una grande influenza, e nell’ultimo decennio sono state più volte additate come responsabili dell’uccisione di alti funzionari libanesi.

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Gli stretti legami politici, economici e culturali tra i due Paesi iniziano logorarsi sotto il peso del recente conflitto. In termini generali, il governo libanese si può dire diviso in due blocchi: la maggioranza, rappresentata dalla Coalizione 8 marzo, pro-regime, e l’opposizione, la Coalizione 14 marzo, a favore dei ribelli. Il gruppo militante sciita Hezbollah guida l’8 marzo ed è di gran lunga la più forte componente politica del Paese. Il regime siriano è uno dei principali sostenitori di Hezbollah in termini di denaro, armi e copertura politica. Questo legame ha minato la reputazione di Hezbollah nel mondo arabo, con l’accusa di invio di miliziani a sostegno del tracollo sociopatico di Assad.

Alcuni politici libanesi pro-regime appoggiano la creazione di una “Grande Siria” panaraba che vada a includere il Libano. Da parte sua, il governo siriano e i suoi molti sostenitori considerano il Libano più una provincia che un vicino sovrano. Allo stesso modo, il solo pensiero di un tutt’uno con la Siria fa rizzare la pelle a molti libanesi, che considerano i vicini un popolo di grado sociale inferiore.

Le tante discussioni sull’allargarsi del conflitto in Libano affondano le proprie radici nello stretto legame tra i due Paesi e popoli. Ancora oggi, occasionalmente, la guerra civile siriana si manifesta tra le strade di Tripoli, nel nord del Libano, dove i miliziani sunniti anti-regime si sono più volte scontrati con libanesi alawiti. Di recente, anche la capitale Beirut è diventata teatro di scontri mortali e attentati messi a punto da forze contro e a favore del regime—una prospettiva terrificante in un Paese che non si è ancora ripreso completamente dalla guerra civile, conclusasi soltanto pochi anni fa.

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Nel corso dei disordini a Tripoli, un comandante libanese a favore dei ribelli siriani, Abu Ibrahim, ci ha dichiarato, “È una cosa che va avanti da quando sono diventato adulto,” riferendosi alle milizie sostenute dalla Siria presenti in Libano. Ci ha mostrato delle ferite spiegando che risalivano agli scontri con le truppe siriane del 1983, e ha aggiunto che, almeno per ora, non permetterebbe ai propri figli di combattere. Sull’esercito regolare siriano e i suoi corrispettivi locali pende inoltre l’accusa di massacri condotti a Tripoli durante la guerra civile, un brutto capitolo che non abbandonerà mai la mente degli abitanti della città.

L’odio profondo e la diffidenza nei confronti della presenza siriana in Libano si sono inaspriti dalle incursioni che le forze armate del regime compiono praticamente ogni giorno in territorio libanese. Con una debole organizzazione militare e un apparato di sicurezza che rimane largamente fedele al regime siriano, i tentativi del Libano di reagire a questi cambiamenti non hanno finora sortito effetti significativi.

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CURDI

I curdi rappresentano la più grande minoranza etnica della Siria, raggiungendo circa i due milioni di individui, principalmente sunniti moderati, concentrati nelle province settentrionali del Paese sin dai tempi delle crociate.

Dopo essere stati privati dei loro passaporti negli anni Sessanta, negli ultimi anni i curdi hanno cercato di sopravvivere senza lo status di cittadini. La lingua e la cultura curde sono ignorate, se non proibite, e migliaia di attivisti curdi sono scomparsi o hanno subito torture nelle prigioni di Assad. La continua repressione ha condotto anche a una sollevazione, nel 1986, dopo che centinaia di curdi si erano radunati a Damasco per celebrare la festività del loro calendario che segna l’inizio del nuovo anno, Nawruz.

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Recentemente, i curdi hanno cercato di mettere fine alle guerre intestine per organizzarsi contro il regime. Il loro momento è arrivato lo scorso luglio, quando il governo ha ritirato l’esercito dalle province del nord per combattere contro l’ESL in altre zone del Paese. Approfittando dell’opportunità, la milizia dell’YPG (Unità di Protezione Popolare) è salita al controllo di una città curda dopo l’altra, con l’istituzione di posti di blocco e la messa agli arresti domiciliari di membri delle forze di sicurezza siriane. I curdi occupano una terza posizione all’interno del conflitto, e se da un lato provano avversione per Assad, dall’altro temono che l’ESL possa imporre uno stato islamico. Il fatto che la Turchia offra rifugio e rifornimenti bellici all’ESL li rende ancora più sospettosi, dal momento che tra curdi e turchi è corso tanto di quel sangue da richiedere una guida a sé. Il Primo Ministro turco ha anche lanciato un ultimatum al Presidente siriano: se quest’ultimo avesse permesso alle cellule del movimento d’indipendenza curdo o del PKK di operare nel Paese, la Turchia sarebbe passata all’attacco. Attualmente il movimento curdo è alle prese con il conflitto con la Turchia, la repressione in Siria e l’infiltrazione di estremisti nei loro territori autonomi. Ancora una volta, quindi, i curdi si trovano in mezzo al trambusto, a combattere per la sopravvivenza e l’indipendenza con un futuro dalle tinte fosche.

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EBREI

Nel 2005, il Dipartimento di Stato Americano stimava che gli ebrei residenti in Siria fossero 80. Gli ebrei hanno vissuto nel Paese per gli ultimi 2000 anni, nonostante imposizioni particolarmente ingiuste come il pagamento di una speciale imposta religiosa gravante esclusivamente sulle loro teste. Nel 1400, ondate di ebrei sefarditi erano sfuggite all’inquisizione spagnola e si erano stabilite in Siria, dove le condizioni non erano comunque delle più ospitali. Si sono fatte insostenibili con la creazione dello Stato di Israele nel 1948. Dopo la prima guerra arabo-israeliana, un amareggiato governo siriano implementò una serie di leggi che impedivano agli ebrei di possedere beni, patenti o telefoni. Nel 1967, con la vittoria israeliana nella guerra dei Sei Giorni, 57 ebrei sarebbero rimasti uccisi in un pogrom nella città di Qamishli.

Prevedendo un esodo, il governo di Hafez fece sì che lasciare il Paese diventasse praticamente impossibile per gli ebrei rimasti. Coloro che fossero intenzionati a partire dovevano fornire una cauzione dai 300 ai 1.000 dollari, e lasciare un membro della famiglia entro i confini a garanzia collaterale.

Dal 1972, l’attivista per i diritti umani Judy Feld Carr, nota ai suoi benefattori soltanto come la “Signora Judy”, fece uscire illegalmente dal Paese più di 3.000 ebrei passando per la versione siriana dell’Underground Railroad. Quelli che non ce la fecero vennero arrestati e sottoposti a torture. Nel 1977, sotto le pressioni di Jimmy Carter, Hafez permise ad alcuni ebrei di abbandonare liberamente la Siria.

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Nel 1994, il governo israeliano ha ammesso di aver condotto un’operazione sotto copertura della durata di due anni con la quale molti ebrei sarebbero stati trasferiti da Aleppo in Israele. Molti si recavano “in viaggio” a New York—sede della più grande comunità di ebrei siriani al mondo (75.000 al 2007)—e da lì in Israele, per non fare mai più ritorno a casa. In totale, Israele ha aiutato circa 4.000 ebrei a lasciare il Paese, e a termine dell’operazione erano soltanto 300 quelli rimasti in Siria, principalmente per ragioni di età. Oggi molti di loro sono morti. La sinagoga Ilfrange di Damasco è l’ultimo luogo di culto ebraico rimasto nel Paese. Judy Feld stima che oggi, in Siria, siano rimasti 16—ebbene sì, 16—ebrei.

JIHADISTI

Nessuno sa con certezza quale sia la percentuale di “jihadisti” e “miliziani stranieri” presenti tra le forze ribelli siriane. Anche se è vero che giovani di tendenze integraliste sono arrivati nel Paese da Libia e Stati del Golfo per combattere, i numeri effettivi e l’influenza vengono probabilmente esagerati tanto dalla stampa occidentale quanto da sostenitori di teorie cospirazioniste.

Tra i combattenti, i jihadisti—martiri devoti e dalle sane abitudini—si sono fatti una reputazione per l’atteggiamento fiero e senza compromessi osservato negli scontri, tanto da far sembrare i fumatori accaniti e più moderati militari dell’ESL una truppa assemblata alla bell’e meglio. Il recente slittamento dell’opposizione verso toni più religiosi è innegabile, ma anche prevedibile, quando le classi medie moderate fuggono dalle città nel bel mezzo di una guerra combattuta in un Paese estremamente diviso. La gente di campagna rimane spesso l’unica a risiedere ancora in quelle zone, e quando le famiglie vengono sterminate e i centri abitati rasi al suolo, tutto ciò che resta è Dio.

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Le paure dell’Occidente di un’appropriazione jihadista della rivoluzione sono diventate una profezia autoavverantesi. Ci siamo rifiutati di inviare armamenti all’opposizione moderata perché temevamo sarebbero finiti nelle mani degli estremisti, e così facendo quella stessa opposizione si è vista costretta a rivolgersi ai jihadisti. I gruppi salafiti dispongono di armi e denaro forniti da Arabia Saudita e Qatar, e il coinvolgimento di al-Qaeda nel conflitto pare essersi fatto più mirato a partire dalla metà di luglio. Alcuni nostri colleghi sul campo dichiarano di essersi imbattuti in pochi combattenti stranieri—qualche libico qua e là, ma non nelle quantità terrificanti paventate dai politici. L’opposizione moderata è ovviamente preoccupata all’idea che la rivoluzione finisca nelle mani degli estremisti. Ma per ora, l’ESL e i suoi alleati hanno bisogno di questi misteriosi uomini barbuti e dall’aria vagamente minacciosa, che non temono la vita in prima linea né la possibilità di dover morire per la causa.

MEDIA

La legge siriana impone restrizioni alla stampa quanto alla divulgazione di informazioni che “causino agitazioni pubbliche, disturbino le relazioni internazionali, violino la dignità dello stato o l’unità nazionale, intacchino il morale delle forze armate o provochino danni all’economia nazionale e alla sicurezza del sistema monetario.” I media sono sotto il completo controllo dello stato sin dagli anni Sessanta. Dal 2001 alcuni privati hanno ottenuto la possibilità di operare, ma il governo continua a disporre del potere di reprimere e censurare.

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Allo stesso modo, anche internet subisce restrizioni. La maggior parte degli ISP è di proprietà del governo, che non ci pensa due volte prima di bloccare qualsiasi contenuto sia percepito ostile al regime. Fino a febbraio 2011, i siti di social networking e video sharing erano proibiti. Ma anche dopo lo sblocco di Facebook e YouTube, gli osservatori dei diritti umani hanno continuato a riscontrare la censura di informazioni da parte del regime—in particolare quando si tratta di impedire che immagini di violenze sui manifestanti vengano diffuse al di fuori del Paese. Coloro che riescono ad aggirare la censura e pubblicare contenuti anti-regime posso andare incontro a prigionia e torture.

La tv siriana fa schifo da qualunque parte o canale la si guardi. Solo due emittenti non vengono trasmesse via satellite, e quasi tutte sono controllate dalla Syrian Arab Television and Radio Broadcasting Commission, legata al Ministero dell’Informazione. I pochi canali privati operanti in Siria vivono nella paura di infastidire le autorità che fanno loro da guardie. Questo significa che, per tutelare la carriera (e in alcuni casi addirittura la sopravvivenza), praticamente ogni “giornalista” siriano deve blandire Assad, senza che ciò impedisca loro di risultare aggressivi o attaccare e danneggiare pubblicamente chiunque non condivida le idee pro-regime.

Negli ultimi mesi la faccenda con le tv si è fatta piuttosto seria. A giugno, l’emittente privata pro-Assad al-Ikhbariya è stata attaccata dall’ESL, e nell’aggressione sette dipendenti sono stati uccisi. A settembre, il corrispondente di un’emittente iraniana, Maya Nasser, è stato ucciso da un cecchino, e non si esclude che in futuro gli attacchi di questo tipo diventino più frequenti.

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I Ministri degli Esteri della Lega Araba hanno richiesto ai provider satellitari della regione di bloccare le trasmissioni dalla Siria al fine di limitare l’influenza del regime. Al contempo, diverse emittenti locali hanno interrotto la produzione di nuovi programmi fin dall’inizio della rivoluzione. Tutto ciò accade in un Paese che negli anni ha realizzato alcune tra le soap opera più note nel mondo arabo, fenomeni come Ash-Shatat (La diaspora), una serie propagandistica di 29 puntate largamente ispirata ai Protocolli dei Savi di Sion—un falso documento anti-semita prodotto nei primi anni del Novecento che descrive i tentativi di leader ebrei di assumere il controllo del mondo. La serie include una scena che suggerisce come, in un dato periodo della storia, gli ebrei uccidessero bambini cristiani e ne usassero il sangue come ingrediente per il pane azzimo.

STAMPA CLANDESTINA

Nel panorama mediatico siriano, posto sotto stretto controllo dallo stato, per chi si trova nel Paese può essere difficile accedere a un’informazione libera dalle manipolazioni del partito Baath. Il monopolio sulla stampa, tuttavia, ha permesso lo sviluppo di diversi quotidiani antigovernativi clandestini, realizzati con stampanti e fotocopiatrici casalinghe.

Spiccatamente di parte, questi giornali forniscono un contrappeso alla disinformazione e le distorsioni dei media mainstream così come un veicolo di espressione per l’opposizione.

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Abbiamo contattato Kareem Lailah, caporedattore di Hurriyat, che, secondo lo stesso giornalista, sarebbe stato il primo quotidiano dell’opposizione, fondato lo scorso agosto. Kareem ci ha spiegato che Hurriyat è consegnato a mano dagli attivisti, che affiancano alla propria professione quella di intrepidi ragazzi dei giornali recapitando il proprio messaggio alle porte delle abitazioni di Damasco, Homs e Aleppo. Secondo la procedura standard, la copia del giornale viene depositata all’ingresso dell’appartamento, si suona il campanello e ci si dilegua a gambe levate prima che qualcuno possa accorgersene. Anche se la percentuale di successi è molto elevata, Kareem ha spiegato che “Due nostri coraggiosi giornalisti sono stati arrestati… uno è stato incarcerato per un paio di giorni, e l’altro per tre mesi.”

Sebbene la maggior parte delle pagine di queste pubblicazioni clandestine sia dedicata a notizie ed editoriali, molte includono vignette a carattere politico e articoli sulla cultura locale. Zeina Bali, giornalista siriana autrice di un pezzo sul tema per Syria Today, ci ha spiegato che il giornale Souriatna pubblica anche recensioni di libri collegando la narrativa agli sviluppi della guerra civile.

Quando abbiamo chiesto a Zeina quale, secondo lei, fosse la ricezione di questa stampa, ci ha risposto piuttosto succintamente: “Penso presentino il movimento antigovernativo in maniera pacifica. Nella mia opinione, soprattutto considerato che sono tuttora in stampa, si tratta di una cosa molto positiva. Proverà alla gente che esiste un aspetto civile della rivolta. Penso che molti abbiano semplicemente perso la fiducia.”

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VITA CITTADINA VS. VITA RURALE

Come molte delle rivolte della Primavera Araba, il processo di incubazione della rivoluzione siriana è avvenuto in aree rurali e semirurali, dopo le proteste di Daraa. Non si tratta di una coincidenza. Il guazzabuglio di combattenti dell’ESL e attivisti è rapidamente divenuto l’equivalente siriano del movimento Occupy—se Occupy avesse armi, RPG e un vero e proprio obiettivo. La gente è arrabbiata e confusa, e come sempre, i ricchi di città sono indicati come i responsabili.

Circa il 54 percento della popolazione siriana è inurbato, mentre un 44 percento vive fuori città, e comprende una nutrita porzione beduina che si sposta nel vasto deserto del Paese. Come immaginabile, il ribaltamento della situazione ha creato una grande disparità di classe. Ma il conflitto ha anche invertito i flussi migratori tradizionali. Molti siriani fuggono da Damasco e Aleppo per tornare ai villaggi dei propri avi, mentre i poveri delle aree rurali cercano rifugio nei sobborghi sovraffollati delle periferie urbane.

L’Internal Displacement Monitoring Centre riferisce che nel corso del conflitto circa 1.5 milioni di persone si sono spostate dal proprio luogo di residenza. Secondo un report compilato congiuntamente da ONU e governo siriano, circa tre milioni di residenti hanno necessità di aiuti supplementari per colture e allevamenti. Entro i prossimi tre o sei mesi, la metà di questi saràprossima a soffrire la fame.

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La situazione di ristrettezze degli ultimi anni è stata inasprita dal conflitto, e quest’anno il settore agricolo ha perso 1.8 miliardi. Gli economisti sostengono che la ricaduta della guerra potrebbe contrarre l’economia nazionale di oltre 14 punti percentuali. Le attività imprenditoriali stanno attraversando difficoltà economiche (nel caso in cui non siano ancora state ridotte in un fumante cumulo di macerie).

CITTADINANZA

La carta d’identità siriana prevede l’inserimento del nome della famiglia e del “luogo di origine”, ovvero il quartiere e la città più strettamente associati al cognome. Prima della rivolta, la richiesta di presentazione dei documenti d’identità poteva comportare scocciature di piccola portata, le stesse con cui ci confrontiamo in Occidente quando siamo in viaggio.

Negli ultimi 20 mesi, però, la carta d’identità è diventata uno strumento per tracciare il profilo e sbarazzarsi di potenziali membri dell’opposizione. Venire fermati a un checkpoint quando si appartiene a una città o un quartiere ribelle può fare la differenza tra vita e morte. E anche se la religione non viene riportata sui documenti, le forze dell’ordine sono per lo più in grado di fare supposizioni sulla base delle altre informazioni presenti. In Siria, l’uso delle restrizioni alla cittadinanza per determinare chi sta dentro e chi fuori è tutt’altro che recente. Nel 1962, lo stato revocò arbitrariamente la cittadinanza di 120.000 curdi. Questi e i loro discendenti passarono immediatamente all’essere considerati ajanib,  stranieri, con complicazioni in ambiti quali proprietà, matrimonio e il possesso di regolari documenti. Sotto agli ajanib vi sono poi i maktumin, coloro che non furono registrati e vennero obbligati a vivere nel limbo, contemporaneamente impossibilitati a lasciare il Paese e a procurarsi un lavoro.

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Dopo decenni di oppressione nei confronti dei curdi, tre settimane dopo l’inizio dell’insurrezione Assad ha indetto un’amnistia garantendo loro piena cittadinanza. Questa mossa, con le sue tempistiche accuratamente pensate, ha rappresentato un cinico tentativo politico volto a impedire che i curdi armati si alleassero con l’opposizione. E la cosa ha funzionato: i curdi sono diventati un terzo partito, silenziosamente occupato a gettare le basi di una propria rivoluzione curda nel nord del Paese, mentre ESL e regime continuano a sterminarsi a vicenda.

Anche quando il possessore non è contro il regime, la carta d’identità può essere usata per punire chi non ne ha cura. A settembre, il regime ha rilasciato 267 persone finite in prigione a causa di documenti d’identità lacerati. Nel ultimi mesi, uno sheikh ha aizzato la popolazione chiedendo di distruggere i documenti per manifestare la propria opposizione al regime. Una fonte avrebbe dichiarato all’Agence France-Presse di essere stata intercettata dalle forze di sicurezza mentre era sulla via di casa e perquisita fino al ritrovamento del documento d’identità danneggiato. Come ha raccontato un altro, “Mi hanno picchiato e obbligato a confessare che stavo seguendo le istruzioni dello sheikh, istruzioni di cui ero completamente all’oscuro.” I siriani rilasciati mostravano evidenti segni di tortura. La morale, in questo caso, è di avere cura della propria patente, soprattutto quando si vive sotto un regime schizofrenico e belligerante.

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ARMI CHIMICHE

A fine luglio, il governo ha pubblicamente riconosciuto che il Paese è in possesso di armi chimiche, per poi fare immediatamente marcia indietro. Ma la Turchia e l’Occidente sono da decenni a conoscenza delle scorte siriane: Sarin, VX e perfino gas mostarda, in uso ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, una vasta collezione di armamenti efferati ampiamente denunciata dal mondo civilizzato.

Un tempo la Siria importava gli agenti chimici necessari a creare il gas nervino, ma dagli anni Settanta, con lo sviluppo di un settore chimico di discrete dimensioni, la produzione avviene entro i confini. Il possesso di armi biologiche rimane invece oggetto di dubbio—il procedimento necessario al loro sviluppo può essere mascherato come ricerca per la difesa. E qualunque siano gli armamenti a disposizione, rimangono i missili Scud di fabbricazione russa, che con la gittata di 280 km permettono facilmente di raggiungere Israele. Fortunatamente per il resto del mondo, l’impiego di armi di distruzione di massa da parte della Siria finirebbe probabilmente per deteriorare il legame del regime con Russia e Cina. Ma detto ciò, e nell’eventualità della caduta di Assad, una delle maggiori preoccupazioni della comunità internazionale riguarda la possibilità che al-Qaeda e i gruppi a essa affiliati possano entrare in possesso degli armamenti e far precipitare la situazione dalla padella alla brace. Qualsiasi cosa accada, è indubbio che il prossimo governo siriano userà l’arsenale chimico come contrappeso geopolitico alla capacità nucleare israeliana.

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DOMINIO DELL’ARIA

L’aeronautica militare siriana è fornita quasi esclusivamente di velivoli di produzione russa, ma gran parte di questa flotta da Guerra Fredda è obsoleta o fatiscente. Alcuni rapporti indicano che metà degli apparecchi non può operare. Buona porzione dell’armamentario è costituita da caccia MiG, ma esistono dei filmati che mostrano come per attaccare i ribelli il regime si sia servito di aerei da addestramento cechi—altro probabile segno di carenze nella flotta.

Sebbene video girati tramite cellulare indichino che i combattenti anti-regime hanno abbattuto elicotteri e jet, il regime mantiene la supremazia dell’aria, bombardando a tappeto le aree ribelli. In un attacco aereo lanciato su Maarrat al-Numan il 9 ottobre sarebbero morti almeno 40 civili.

I ribelli hanno più volte invocato una no-fly zone imposta a livello internazionale, come quella prevista per la Libia nel 2011 e di importanza determinante nel minare i tentativi di Gheddafi di sopprimere la ribellione armata. Finora, Stati Uniti e NATO hanno declinato tali proposte.

GIOCO D’AZZARDO

Il Corano è molto chiaro in materia di gioco d’azzardo, considerato un gravo peccato al pari dell’ubriachezza, quindi non deve sorprendere che molti Paesi mediorientali siano sprovvisti di casinò. Anche se il regime di Assad è di stampo laico, i dotti musulmani hanno esercitato un’influenza sufficiente a che negli anni Settanta il governo bandisse ufficialmente il gioco d’azzardo e chiudesse i casinò esistenti nel Paese. Da allora, i siriani in cerca di piaceri proibiti sono costretti a spostarsi in Libano o rivolgersi a case di gioco illegali.

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Nel 2010, l’imprenditore siriano Khaled Hboubati ha apertamente sfidato il divieto aprendo l’Ocean Club, un casinò nei pressi dell’aeroporto della capitale. Anche se la struttura era sprovvista di licenza—inesistente nel Paese—il Guardian riporta una fonte secondo cui il governo avrebbe dato al casinò il “via libera”. Questa tolleranza era vista da alcuni come un segno di modernizzazione e occidentalizzazione della Siria.

Ma come molti indicatori di liberalizzazione nel Paese, l’Ocean Club è finito in breve gambe all’aria. A metà febbraio, e a meno di due mesi dall’apertura, il Ministero dell’Amministrazione Locale ne ha decretato la chiusura. Alcuni musulmani particolarmente inflessibili si erano rivolti al Parlamento perché fossero presi dei provvedimenti.

Due mesi dopo, la rivolta era ormai partita da Daraa, e la legalità del gioco d’azzardo è divenuta una questione controversa. È difficile dire se altri imprenditori cercheranno di aprire nuovi casinò a guerra ultimata e con un nuovo governo, ma se i gruppi estremisti assumeranno il controllo, tale eventualità diverrà automaticamente impossibile.

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DONNE

Per molte giovani siriane, il detto sull’erba del vicino ha un corrispettivo nel Libano. Beirut è vista come uno scintillante bastione di liberalismo e libertà d’espressione—un luogo in cui le pressioni famigliari vengono meno e i locali stanno aperti tutta la notte. Per altri, il Libano funge da necessaria via d’uscita dal claustrofobico sistema di appuntamenti o da luogo discreto per una scappatella del fine settimana.

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La costituzione siriana garantisce libertà religiosa. Le donne sono libere di indossare ciò che vogliono; la scelta di coprirsi o meno—e di quanto coprire—è personale e generalmente si basa sulla tradizione di famiglia. Cristiani e musulmani, vestiti in maniera diversa, si

frequentano tra loro. L’hijab è solitamente riservato agli impegni formati, e indossato più per ragioni culturali che religiose. Nel Paese, è possibile imbattersi in madri in niqab (velo che copre il volto) accanto a figlie a capo scoperto e zaino di Hello Kitty. Donne moderatamente coperte fanno acquisti nei suq insieme ad amiche scoperte.

Le cristiane siriane, ingiustamente o meno, hanno la reputazione di mettere in mostra il proprio corpo. Pantaloni attillati e magliette scollate scatenano gli uomini di ogni religione, e tanto cristiani quanto musulmani ringraziano Gesù per l’invenzione dei jeans fascianti. Per alcuni musulmani conservatori, è offensivo che le “cristiane indossino pantaloni attillati” poiché tale pratica condurrebbe a pensieri peccaminosi, ma la maggior parte ne è grata.

LINGERIE

Nel campo della moda, la Siria è considerata uno dei punti di riferimento del Medio Oriente. Gli uomini apprezzano completi sciccosi, magliette simil-Ed Hardy e Nike in edizione limitata. Ma la maggioranza dei capi prodotti nel Paese sono destinati al mercato femminile: veli colorati, abaya sberluccicanti e una quantità mostruosa di abbigliamento intimo high-tech.

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Le siriane adorano la lingerie per lo stesso motivo per cui le donne di tutto il mondo l’adorano da tempo immemore—per sentirsi bene e far sì che i propri uomini non le tradiscano. In Occidente, la maggior parte delle future spose non reagirebbe bene se la suocera regalasse loro un perizoma di peluche e lucine capace di slacciarsi al battito di mani e la formula “Apriti sesamo”, ma in Siria si tratta di una pratica completamente accettabile. I regali di addio al nubilato possono includere mutande con piume e fiocchi, reggiseni pitonati e ornati di lustrini, o un cellulare con vibrazione che copre le parti intime—e non c’è niente di tabù in questi capi, perché a vederli sarà soltanto il marito.

LA MOSCHEA DI SAYYIDAH RUQAYYA

Nel 632, la morte del profeta Maometto accelerò una separazione tra i suoi sostenitori risultata nella divisione tra sunniti e sciiti. Questi ultimi credevano che sarebbe stato diritto di Ali, il cugino del Profeta, assumere il controllo della comunità, mentre i sunniti parteggiavano per Abu Bakr, fido compagno di Maometto e suo suocero. Abu Bakr uscì vincitore della disputa politica e ascese al califfato, creando le premesse per 1.500 anni di dominio sunnita e risentimento sciita. Aggiungendo il danno alla beffa, il figlio di Ali, Husayn, fu ucciso e decapitato, e la nipote di Maometto, Sayyidah Ruqayya, fu imprigionata e uccisa alla tenera età di quattro anni. Oggi, fedeli sciiti arrivano a Damasco (principalmente dall’Iran) per rendere omaggio alla moschea eretta nel luogo in cui il corpo di Sayyidah Ruqayya sarebbe sepolto. I pellegrini vestiti di nero comprano giocattoli e li portano sulla tomba di Sayyidah Ruqayya, in ricordo della grave ingiustizia della sua uccisione. Dopodiché, prima del lungo viaggio in bus di ritorno verso l’Iran, fanno tappa alla Moschea di Sayyidah Zaynab (intitolata alla sorella di Husayn).

RAMI MAKHLOUF

Sebbene poco conosciuto al di fuori della Siria, Rami Makhlouf è considerato da molti cittadini simbolo di corruzione e nepotismo. La scelleratezza del più potente uomo d’affari del Paese è talmente grande che i detti popolari vengono spesso modificati per diffamarlo. Si tratta inoltre del cugino per via materna di Bashar al-Assad. Col contributo del sistema di clientelismo mafioso del regime, le iniziative imprenditoriali di Rami—tra cui Syriatel (una delle due principali compagnie di telefonia mobile), beni immobili e banche—hanno un monopolio virtuale del 60 percento dell’economia siriana. Il valore netto delle sue ricchezze si aggira intorno ai sei miliardi di dollari. In Siria molti lo considerano un ladro, nonché una testimonianza dei problemi che hanno permesso alla ricchezza del Paese di restare nelle mani di pochi scelti.

Nel giugno 2011, in un’intervista alla Reuters, Rami ha dichiarato di volersi ritirare dagli affari e donare gran parte delle sue ricchezze in beneficenza. Parte centrale dell’iniziativa risiedeva nella vendita del 40 percento delle sue quote Syriatel. Alcuni membri dell’opposizione hanno messo in discussione la sua dedizione alla filantropia, forse a ragione—come suggeriscono alcune informazioni pubblicate da Al-Akhbar, Rami avrebbe acquistato importanti quote in varie banche per tutto il 2012.

CHIRURGIA PLASTICA

Il Ministro della Salute regola il prezzo degli interventi di chirurgia plastica. In Siria una rinoplastica va dai 700 agli 800 dollari, un terzo del suo prezzo in Europa. E per un po’ di soldi in più, è possibile ottenere anche una bella mastoplastica additiva. Ma il risultato è perfettamente in linea coi costi: la chirurgia plastica è notoriamente scadente. A Beirut, quando qualcuno ha un naso che sembra uscito da un tritacarne, la battuta più comune è, “Se lo sarà fatto in Siria.” Molti chirurghi estetici operano senza licenza.

Nel Paese è possibile sottoporsi anche a un intervento meno diffuso: per 17.000 dollari, le donne possono vedere i propri occhi marroni trasformarsi in verdi o azzurri. I medici intervengono direttamente sull’occhio, rimuovono l’iride e la sostituiscono con una artificiale. Se l’operazione non va a buon fine, il paziente perde la vista. Nonostante i tentativi di controllo da parte del Ministero della Salute dello zoppicante mercato della chirurgia estetica, con lo stato di guerra perenne, le richieste di interventi a basso costo si stanno comprensibilmente stabilizzando.

CIBO

Lo status di fucina culinaria conservato dalla città vecchia di Aleppo può essere attribuito all’ottima collocazione lungo la via della seta, e le sue specialità classificate come fusion d’epoca. Per secoli, gli specialisti della regione hanno avuto accesso alla più ampia varietà di spezie, cereali, frutta e verdura che il mondo ottomano avesse da offrire.

Prima che la guerra civile decimasse consistenti parti di Aleppo, non esisteva luogo migliore del quartiere armeno di Jdeideh per assaggiare la rinomata cucina della città. E fino alla sua distruzione agli inizi di ottobre, Beit Sissi era considerato uno dei migliori ristoranti del Paese, annoverando tra le specialità uno dei più gustosi kebab karaz (polpette speziate alla salsa di ciliegia) al mondo. Il cortile di Beit Sissi, o Sissi House, era circondato da sale da pranzo private completamente in legno.

Il rinomato storico aleppino Abraham Marcus ci ha spiegato che Beit Sissi “offriva un’atmosfera ideale. Rappresentava il meglio dell’architettura tradizionale della città: sobrio ed elegante, con pareti in roccia calcarea la cui patina dorata e le incisioni delicate circondavano gli ospiti in tutto il loro calore. Negli ultimi anni grandi dosi di denaro e cure sono state investite nella rimessa a nuovo di questo e altri edifici storici di Aleppo. Oggi, una città considerata un modello di preservazione del patrimonio storico è diventata la scena di una sconvolgente distruzione.”

OMOSESSUALITÀ

Per chi cerca delle avventure omossessuali in Siria, gli hammam (saune) gay sono il luogo ideale. Proprio come ogni spa, gli hammam hanno stanze private, e rappresentano un’alternativa più economica e discreta agli alberghi. Dal 2010, tuttavia, i frequenti controlli della polizia hanno spinto i gestori a guardare con maggiore sospetto ai nuovi arrivati. Molti gay sono tornati a frequentare i parchi di Damasco.

Gli uomini gay siriani erano soliti radunarsi e socializzare liberamente nonostante una legge che, tecnicamente parlando, dichiarava illegale l’omosessualità. La polizia ha mostrato i propri muscoli omofobi scagliandosi contro gli hammam—un facile bersaglio, essendo l’omosessualità considerata spregevole all’interno della regione mediorientale. Secondo Mahmoud Hassino, publisher della rivista gay Mawaleh, nell’aprile 2010, 25 gay sarebbero stati arrestati, violentati e torturati per tre mesi.

ANTICHITÀ

In Siria, città, centri urbani, deserti e paesini sono disseminati di rovine. Fin dai primi giorni dell’antichità, regni sono stati eretti sulla cima di altri regni. Ittiti, greci, romani, persiani, bizantini, arabi, crociati, ottomani e francesi, ognuno a suo tempo, hanno stabilito una roccaforte nella regione, lasciando dietro di sé monumenti a testimonianza del proprio passaggio.

L’esempio migliore è la Moschea degli Omayyadi di Damasco. Costruita come tempio arameo circa 3.000 anni fa, con la conquista romana della città nel 64 d. C. fu intitolata a Giove, re degli Dei. Il tempio fu trasformato in chiesa a termine del quarto secolo e infine convertito in moschea nel 706.

Nel deserto siriano non sono rare scoperte archeologiche monumentali. Negli anni Settanta, vicino al confine con la Turchia, fu scoperto l’insediamento di Tell Qaramel, vecchio di 12.000 anni. Gli archeologi rinvennero cinque torri circolari in pietra edificate 2.000 anni prima della torre di Gerico, in precedenza considerata la più antica al mondo.

La lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO protegge sei monumenti storici siriani: le antiche città di Aleppo, Bosra, Damasco, gli antichi villaggi della Siria settentrionale, il Crac des Chevaliers con la cittadella di Qal’at Salah El-Din e il sito di Palmira.

Durante il conflitto, cinque di questi hanno subito ingenti danni. Secondo una recente dichiarazione del direttore generale dell’UNESCO, Irina Bokova, “La moschea degli Omayyadi, cuore della vita religiosa della città, una delle più belle moschee del mondo musulmano, è stata soggetta a gravi danni, la vastità dei quali ci è ancora sconosciuta. Nel nord della Siria, la regione degli antichi villaggi inclusa nella lista del Patrimonio dell’Umanità 2011 [è stata] pesantemente colpita, e sembra che l’inestimabile complesso di San Simeone Stilita potrebbe essere stato danneggiato.”