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A8N6: Il sesto annuale di narrativa

Le persone sull'autobus

"Le persone alla fermata sono quasi sempre sbagliate. Non si vedono mai persone così in televisione."

Illustrazioni di Vikki Chu
Traduzione di Sara Silanus

A volte non mi trascino fuori di casa. Quando lo dico durante una conversazione, cioè nel modo in cui le persone a volte si ammorbano in pieno giorno, la gente tenta a tutti i costi di cambiare argomento.

Quando sto a casa guardo la televisione. A casa non faccio quasi mai niente a parte guardare la televisione. Certo, dormo e mi faccio la doccia. Ho una bella doccia a casa, e se non sto guardando la televisione allora sono lì. A volte mangio, di solito due volte al giorno; verso mezzogiorno mi faccio qualcosa per colazione, tipo uova sode e un toast, e poi solitamente la sera mi arrangio con quello che c’è. Magari apro una zuppa, o ordino qualcosa a domicilio. Nulla che intralci la televisione però. Che io stia mangiando o meno, faccio zapping dal canale 2 all’80, avanti e indietro. Sto circa cinque secondi su ogni canale. Quello che trasmettono non è importante per me. Il fatto di cercare qualcos’altro è l’importante. Sono uno che cerca, io.

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Cerco.

Quello che non ho mai cercato guardando la televisione è un lavoro. E nemmeno la fama, o la fortuna, o condizioni di vita accettabili, o Trina. Ma non sono in grado di pensare a Trina adesso. Trina sta al suo posto, che non è qui né ora.

Dice che si è comprata solo di recente un televisore, che per anni ne ha fatto a meno. Non ho idea di come passasse il suo tempo o di come fosse la sua vita.

Questo è un motivo per cui non sono pronto a pensare a lei.

A volte sono obbligato a uscire di casa, e ogni volta è una tragedia. A volte sono costretto a presentarmi in un certo luogo a una certa ora, e a svolgere determinati compiti per molte ore, e alla fine di tutto prendo la strada più breve per tornare a casa dalla televisione.

Devo prendere l’autobus per arrivare al certo luogo ad una certa ora. Quello che succede è che mi sveglio con grande difficoltà, mi lavo, mi faccio la barba, mangio qualcosa di deplorevole, mi vesto ed esco. Faccio tutto questo in quindici minuti. So che le persone ci mettono circa un’ora. È una cosa che non mi sono mai spiegato.

Gli autobus di questa città fanno un suono orrendo quando si fermano. A volte mi scoppia la testa quando lo sento. Per evitarlo mi devo coprire le orecchie con entrambe le mani, e la gente mi guarda quando lo faccio. Chissà cosa pensano.

Le persone alla fermata sono quasi sempre sbagliate. Non si vedono mai persone così in televisione, anche se mentre penso questa cosa mi rendo conto di sbagliarmi. Si vedono persone così in televisione, ma io scelgo sempre di non guardarle. Non mi interessano. Non si dovrebbe socializzare con loro, e normalmente non lo si fa.

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Perlopiù sono le persone insignificanti e le vecchiette a prendere l’autobus in questa città. Per la maggior parte sono grassi, e solitamente sono brave persone questi grassi, anche se comunque non è sempre così. A volte, quando penso qualcosa, credo che sia corretto per poi capire a metà strada che non lo è. Quindi, alla fine, non posso essere certo di nulla se prima non ci rifletto un po’. Il problema è che non sempre si ha il tempo di riflettere sulle cose. Ad esempio, è successo così con Trina.

Alcuni di loro, i grassi, sono brave persone, tranne quelli che non lo sono, ma alla fine chi se ne frega, davvero. Non sto dicendo che i grassoni sull’autobus siano importanti per me, ma uno non può far finta che non esistano. Occupano troppo spazio per fare finta di niente. Poi credo che alcuni di loro siano colleghi, oltretutto. Non posso dirlo con certezza perché non parlo mai con i miei colleghi, a parte Trina, a cui la prima volta ho detto Dopo di te davanti alla caraffa del caffè. Ma so che gran parte dei colleghi è sovrappeso. Li vedo ciondolare per l’ufficio, mangiano e parlano delle loro responsabilità. Sull’autobus molti indossano il vestito buono della domenica e si sventagliano con i fogli della messa. Questi insignificanti sudano un sacco a causa della mancanza di aria condizionata sull’autobus, e anche perché i grassi sudano troppo in ogni caso.

Anche i grassoni dell’ufficio sudano troppo, li vedo asciugarsi la fronte, bere liquidi e svenire.

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Pure Trina è grassa, e suppongo che adesso sia il caso che io parli di lei.

Nel caffè mette molta panna, e quasi sempre si porta una ciambella alla scrivania. Non la vedo mai mangiare la ciambella, ma immagino che sia quello ciò che fa con le ciambelle.

Non credo che a Trina importi di essere grassa. A volte si capiscono queste cose di una persona dal modo in cui si muove, dal portamento, da come si veste, come mangia, magari coprendosi la bocca mentre mastica, come per dire Normalmente non lo faccio, ma non resisto, scusate.

Trina cammina in maniera normale, sta bella dritta, ha una certa eleganza, mette vestiti che si adattano alla sua figura, etc.

È successo che a fine giornata, ore dopo che le avevo detto Dopo di te, è arrivata alla mia scrivania e mi ha chiesto cosa facevo dopo il lavoro. Mi sembrava un interrogatorio in cui ero sospettato di qualche crimine. Le ho chiesto cosa intendesse.

Speravo che scattasse l’allarme antincendio. A volte scatta e tutti dobbiamo evacuare l’edificio.

A quel punto mi ha detto che mi avrebbe portato fuori a cena. Mi sembrava di non avere scelta. Avrei potuto dire che avevo già mangiato, che non era vero, ma lei non poteva saperlo. Ed ecco che mi sono ritrovato a raccogliere le mie cose e a uscire dall’ufficio con Trina per andare a cena.

Non ricordo cosa abbiamo mangiato, o se il cibo fosse buono. È raro che mi piaccia mangiare al ristorante; c’è sempre troppa gente intorno e qualcosa va sempre storto, così alla fine ti ritrovi a dover pagare per gli errori di qualcun altro. Inoltre, ero troppo occupato a pensare a cosa dire, alle domande da fare. Trina sembrava abbastanza a suo agio, rideva, sorrideva, faceva domande sul lavoro, sulla casa, su quello che mi piace fare, su come sono cresciuto. Penso di aver risposto sinceramente a quasi tutte le domande, tranne quelle che non erano affari suoi. Non c’era bisogno che sapesse della zia e dello zio che mi hanno cresciuto, del fatto che mi facessero spacciare a scuola, o fare da palo durante certe commissioni. Credo di non aver mai raccontato a nessuno la mia infanzia, perché non è stata così male come può sembrare. La gente spera sempre che le cose siano brutte come sembrano, e Trina non è un’eccezione.

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Le ho detto che mi piace guardare la televisione e fare la doccia. Le ho detto che faccio delle docce molto lunghe. Lei ha detto che preferisce farsi il bagno. Le ho detto che a casa ho solo la cabina doccia, che però è bella. Le ho parlato della pressione dell’acqua e delle piastrelle, e a quel punto lei ha ordinato dell’altro vino al cameriere.

Non abbiamo mangiato il dolce perché ai grassi a volte non va di mangiarlo se sono in compagnia.

Dopo cena mi ha portato a casa sua. Mi sono posizionato all’angolo sinistro del divano, mentre lei girava per il piano di sotto. Non sapevo che cosa stesse facendo, ma ero felice di essere da solo sul divano. Volevo riflettere, pensare a quello che era successo e a cosa probabilmente sarebbe successo dopo. Volevo trovare un modo per tornare a casa dalla televisione. Avrei potuto guardarla ancora un’ora o due prima di dormire. Non riesco a prendere sonno se prima non guardo per un paio d’ore la televisione, e devo dormire almeno dieci ore a notte.

La verità è che non sapevo cosa volesse Trina da me. Non andavo a casa di qualcuno da molto tempo e non ero sicuro di come comportarmi. Mi aveva detto di mettermi comodo prima di sparire in cucina. Non sapevo cosa intendesse, se mi dovevo togliere la giacca o anche il resto dei vestiti. Alla fine mi sono allentato la cravatta, e nel caso le avrei detto, È così che mi metto comodo. Le avrei detto che mi sento a mio agio così raramente che non vale nemmeno la pena di provarci.

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Dopo è successo che abbiamo fatto sesso, credo. A un certo punto, senza preavviso, mentre guardavamo un horror, lei è salita sopra di me e si è tolta la biancheria intima. Appena prima eravamo seduti vicini sul divano. Non c’era contatto mentre eravamo uno di fianco all’altra, anche se lei aveva tolto il cuscino che io avevo messo come barriera. Ha detto una cosa tipo Non ne abbiamo bisogno. Le ho risposto una cosa tipo Come vuoi. Aveva portato due bicchieri di vino dalla cucina e li aveva messi sul tavolino davanti al divano. È lì che ha posato il cuscino, sul tavolino, accanto al vino. Sullo schermo un pazzo stava facendo una carneficina mutilando delle ragazze a caso.

Non riuscivo a concentrarmi sul film a causa di quello che Trina stava facendo.

Dopo essersi sistemata sopra di me, mi ha slacciato la cintura. Poi mi ha sfilato i boxer e ha iniziato a toccarmi. Ho provato a guardare lo schermo dietro di lei, ma era complicato. Era particolarmente grossa messa così, in braccio.

A quel punto mi pare che il pazzo fosse in una cantina, all’insaputa dei padroni di casa. Stava per massacrare una famiglia intera.

Non volevo guardare giù. Sentivo quello che stava facendo ma non volevo guardare. Mi pare che lei abbia detto Molto bene, mentre mi toccava, io ho detto Grazie.

Ha sospirato. Non sapevo cosa fare, se dovevo dirle qualcosa. Avevo le mani appoggiate al divano e i piedi saldi a terra. Aspettavo che succedesse qualcosa, che partisse l’allarme antincendio, che uno di noi due morisse d’infarto. Avevo visto in televisione che delle persone erano morte d’infarto così. Immaginavo che se fossi morto, Trina sarebbe stata accusata, ma non avrebbero mai potuto incolpare me se fosse morta lei, data la mia posizione rispetto alla sua.

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Trina aveva gli occhi chiusi e sembrava sul punto di svenire.

Le ho chiesto, Stai bene?

Mi ha detto, Stai zitto.

Ero seduto immobile.

Ha cominciato a muoversi avanti e indietro, come su un cavallo a dondolo. La sensazione non era spiacevole, anche se dopo un po’ le mie cosce iniziavano a bruciare. Le avevo messo le mani intorno alla vita, o almeno a quella che credevo fosse la sua vita. Non c’era modo di capire se aveva un punto vita. Ad ogni modo immaginavo che le servisse un supporto, e non volevo che cadesse. Se fosse caduta ne avremmo risentito entrambi. Ha tenuto la testa bassa tutto il tempo, come se stesse facendo attenzione a qualcosa. Il dondolio è andato avanti per un bel po’. Avrei voluto guardare l’orologio ma non mi andava di toglierle la mano dal fianco. Il film era finito e ne era iniziato un altro. Non ho idea di cosa sia successo al pazzo e alla famiglia che stava per massacrare.

Mi sono reso conto che avevamo finito quando lei ha smesso di muoversi, mi ha schiaffeggiato e ha iniziato a dimenarsi. Le convulsioni sono durate circa un minuto, poi si è calmata e il respiro è tornato regolare. Ha lasciato andare la testa e per un secondo ho pensato che fosse morta, che dopotutto avrei dovuto spiegare alle autorità che eravamo colleghi, avrei dovuto raccontare della macchinetta del caffè, della cena, del cuscino che avevo messo come barriera. Ma poi lei mi ha guardato. Sembrava distrutta, sfatta.

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Le ho chiesto, Stai bene?

Mi ha detto, Lo rifaremo ancora.

Le ho chiesto, Sei sicura?

Mi ha risposto, Lo sono.

C’è un mio vicino che sta sempre fuori dal palazzo, e non riesco mai a evitarlo la mattina, quando vado verso quel posto. Non so cosa fa o come vive. Indossa sempre dei vestiti adatti al tempo, ma c’è qualcosa che non va in lui. Mi chiama Capo.

Io non mi sono mai presentato come Capo e lui non ha mai espresso la volontà di essere un mio subordinato. Io lo chiamo Ehi Ciao. Ehi Ciao non assomiglia a nessuno del certo luogo, quindi probabilmente non mi confonde con un capo. Io non sono il capo di nessuno. Nel certo luogo le mie responsabilità sono futili, nessuno lì sta sotto di me.

Io sto sempre sotto a Trina, perché a lei piace così.

Trina non ha mai incontrato Ehi Ciao, e quando l’ho nominato durante una conversazione non aveva idea di chi stessi parlando. Ciò significa che non credo che Ehi Ciao sia un collega.

Stamattina Ehi Ciao era fuori dal palazzo, mi ha detto qualcosa tipo Che tempaccio e io ho risposto Lo so, non parlarmene.

Anche Trina fa così. La prima cosa di cui parla al mattino è il tempo, e il mio compito è quello di darle ragione. Le persone hanno sempre bisogno di conferme, di rassicurazioni. In realtà non so di cosa hanno bisogno le persone.

Trina mi porta a letto ogni volta che le va, ma dubito che per lei sia una necessità. Nessuna vita dipende da questo.

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Qui il tempo è sempre uguale e tutti lo sanno.

Eppure, le persone tra di loro fanno così. Fa freddo o lo sento solo io? Fa abbastanza freddo per te o sono io?

Non faccio mai domande alle persone, perché non mi aspetto che abbiano le risposte. Con i miei zii era lo stesso. Non ho mai chiesto come dovevo vendere la roba a scuola ai compagni, ma mi sa che me lo avevano spiegato loro, quindi forse questo non dimostra nulla. Mi pare che una volta mio zio mi abbia fatto sedere, e mi abbia spiegato cosa dovevo fare e dove farlo, cosa non dovevo fare e cosa avrei dovuto dire se i professori o il preside mi avessero beccato. Non avrei dovuto dire niente, ma solo sperare nella loro clemenza.

Probabilmente il mio Dopo di te è stato scambiato per galanteria, ecco perché con Trina sta succedendo quello che sta succedendo. La verità è che non volevo nessuno intorno mentre versavo il caffè nella tazza, perché di solito non ci riesco.

Lo rovescio quasi sempre.

Quando sono solo a casa per giorni, mi obbligo a uscire se nel corso di una carrellata tra i canali riesco a contare venti donne più grasse di Trina. Questa non è una ragione valida per uscire. Capita che Trina mi telefoni per controllare se sto bene quando resto a casa per qualche giorno. Vuole sapere se sono ancora vivo, se sono malato, cosa c’è che non va. Una volta ho commesso l’errore di rispondere. Le ho detto che sì, ero ancora vivo, e che in effetti ero malato. Le ho detto che avevo la bronchite ed ero contagioso, che mi sembrava di soffocare e che il petto mi faceva male. Ho tossito al telefono, mi sono scusato e le ho detto che dovevo sdraiarmi. Allora mi ha chiesto se avevo bisogno di qualcosa, del brodo di pollo o del succo d’arancia. Le ho risposto No, grazie. Ho aggiunto che sarei tornato la settimana dopo, e che ci saremmo visti allora.

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Adesso quando so che è lei lascio suonare il telefono.

Devo andare a lavoro solo due volte la settimana, ma comunque a volte chiamo e dico che non posso esserci. Dico che ho la bronchite, cronica. Quando non vado e faccio l’errore di rispondere al telefono, Trina mi dice Mi manca vedere la tua faccia. Non avevo mai sentito questa espressione prima, sentire la mancanza di una faccia, né nella vita reale, né in televisione. Non c’è niente nella mia faccia che possa mancare a qualcuno.

Se riesco ad arrivare a venti donne grasse esco, ma una volta fuori mi rendo conto che non ci faccio niente in giro, a sopportare le persone e le temperature rigide.

Stessa cosa sull’autobus. Cerco un posto vicino al finestrino, preferibilmente un posto singolo, ma spesso non c’è speranza di trovarlo. Gli insignificanti si prendono sempre i posti migliori. Sono come quelli in televisione, però quando ce li hai accanto sull’autobus senti il loro profumo e il loro sudore.

A volte sono i tipi normali, semplici, a prendere l’autobus che va avanti e indietro per la città. Questa gente semplice è troppo grassa per girare in qualsiasi altro modo, perciò non ha colpa. Portano jeans scoloriti tenuti su da cinture di pelle marrone, infilate per ogni passante dei jeans. La cosa bella di Trina è che non si mette mai i jeans. Le donne grasse non devono mettersi i jeans, e Trina questo lo sa. Sull’autobus, quelli che non hanno la cintura hanno le bretelle, e sembrano ancora più grassi. Di tutti i grassi sull’autobus, quelli con le bretelle sono i più ciccioni. Sono praticamente sicuro che alcuni di loro siano colleghi.

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Non parlo quasi mai con gli insignificanti o i tipi semplici e grassi sull’autobus. Li ascolto parlare tra di loro. Passo circa cinque secondi ad ascoltarne uno, poi passo a un altro. Anche in questo caso sono uno che cerca.

Quando arrivo in ufficio vado dritto alla mia scrivania. Delle volte provo a vedere se Trina è alla sua. Alcuni quando arrivano vanno subito a prendere il caffè, quindi guardo anche lì. Io ci vado solo quando non c’è nessuno, perciò non ci vado mai la mattina appena arrivo. Dalla mia postazione li vedo brulicare e a volte li sento parlare. Sono gli stessi discorsi che sento sull’autobus. Non credo che nessuno sia obbligato a vagare e bere il caffè. Ci sono alcune regole in ufficio ma non penso che questa sia una di quelle.

Ho una mia postazione, ed è lì che sto. Ho una scrivania, e sopra la scrivania c’è un computer. Il mio compito è quello di leggere delle cose sul computer e capirle. Scrivo dei resoconti e li invio a certe persone. I superiori. Ogni tanto uno di loro arriva e mi fa una domanda. A volte so la risposta, se non la so dico che mi farò vivo in seguito per rispondere.

Per poco non dovevo chiamarli per raccontare quello che mi è successo sull’autobus una volta. Un insignificante si è messo di fianco a me ed è partito a raccontarmi delle sue paure. Non mi ha salutato, non si è presentato. Ha fatto la lista delle sue paure, una dopo l’altra. Ha paura dei piccioni, di svegliarsi troppo tardi, delle sveglie, degli spaghetti, e così via. Ha parlato di sua madre, di come fosse stata lei a trasmettergli la paura di tutto. Lei aveva paura del latte scaduto, delle foglie secche, delle piante da appartamento, del preparato per i pancake, delle cartoline, dei tagliaunghie, degli armadi. Sua madre era morta da cinque anni, e adesso aveva paura del suo fantasma. Non ho riconosciuto questo insignificante in particolare, ma era uno di loro, quelli che prendono l’autobus sempre, avanti e indietro. Aveva vestiti insignificanti e anche il suo odore era insignificante. Ogni volta che ci avvicinavamo a una fermata speravo che scendesse, ma niente. Continuava a elencare quello che lo spaventava: i barboncini, gli spinaci appassiti… Dopo aver nominato anche gli elicotteri mi ha guardato e ha strizzato gli occhi. Così gli ho raccontato dei miei zii, di come mi facessero spacciare a scuola per conto loro, o fare delle commissioni. Gli ho detto come lo facevo, nel bagno dei maschi, dietro il campo da baseball all’intervallo, dal benzinaio dopo la scuola. Gli ho detto che né i professori né i poliziotti mi avevano mai beccato, e poi gli ho raccontato di come gli zii sono stati uccisi da un rivale una domenica mattina, ma questa parte era una bugia. Immaginavo che avesse bisogno di sentire una cosa del genere, qualcosa che lo facesse stare meglio, che gli facesse notare le cose belle che aveva, che lo facesse andare via.

A questo insignificante, però, non importava dei miei zii. Invece di farmi domande parlava del tempo, di quanto avesse paura del freddo, delle insolazioni, dei tornado. Gli ho dato ragione, dicendogli che anche io temevo quelle cose. Gli ho detto che delle volte non riesco a tirarmi fuori di casa, che non ce n’è motivo, dopotutto lì ho tutto ciò che mi serve, la televisione e la doccia. Forse non mi stava ascoltando, perché continuava a blaterare degli tsunami e della risacca. Allora sono sceso dall’autobus. Ero già una fermata più avanti di quella a cui scendo di solito, e dovevo farmi il pezzo indietro a piedi.

Questa è stata l’unica conversazione che ho mai fatto sull’autobus. Una volta la stavo raccontando a Trina, ma stava per cambiare il ritmo del dondolio e ho lasciato perdere. Non le piace quando le parlo nel mentre. Dice di lasciarla fare prima, e poi possiamo parlare. Ma non lo facciamo mai, non parliamo mai di niente, e probabilmente è meglio così.

Quindi non le racconto mai dei tipi di persone che prendono l’autobus che va avanti e indietro per la città. Ci sono anche persone magre, che non assomigliano né agli insignificanti né alla gente semplice. Non le racconto mai dei magri perché non ne vuole sentir parlare.

So che nessuno dei magri è un mio collega.

Non so quanto andrà avanti questa cosa con Trina, ma non credo che dipenda da me. A meno che io decida di non uscire più di casa, che è quello che sto pensando di fare. Sono due settimane che non esco. Al lavoro i miei superiori non sono venuti alla mia scrivania per fare domande, non ho beccato Ehi Ciao sulla via dell’autobus, non ho sentito le frenate e non mi è scoppiata la testa. Per quanto ne so, Ehi Ciao potrebbe anche essere morto. Potrei andare alla finestra e guardare se è laggiù, ma non mi interessa.

La prima cosa che faccio la mattina è avvicinarmi alla televisione e accenderla. Poi sento suonare il telefono, e so che è lei. Penso che voglia sapere quando tornerò al lavoro, quando mi potrà portare a cena, quando mi potrà sfilare i boxer di nuovo. È la cosa peggiore, quando mi chiama così, nel bel mezzo di un programma.

Altrimenti mi chiama quando sono sotto la doccia. Allora non mi dà fastidio. L’acqua della doccia e il volume della televisione coprono gli squilli del telefono. Alzo il volume apposta, per riuscire a sentire dalla doccia. È perfetto.