Obbiettivi e limiti - Intervista a Pieter Hugo

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Obbiettivi e limiti - Intervista a Pieter Hugo

Pochi fotografi hanno saputo ritrarre le stranezze dell'Africa contemporanea come Pieter Hugo.

I lavori del fotografo sudafricano Pieter Hugo sull'Africa contemporanea sono conosciuti in tutto il mondo. Qualche tempo fa lo abbiamo intervistato a proposito della sua esperienza in Nigeria, dove ha fotografato una comunità di domatori di iene. In questi giorni, lo Hague Museum of Photography espone una collezione completa dei suoi ultimi otto anni di lavoro. Dalla mostra, chiamata This Must Be the Place, è nato un libro omonimo. Abbiamo nuovamente incontrato Pieter, con cui siamo finiti a parlare di fotografia, dei suoi limiti e della miriade di sempre più complesse strategie di rappresentazione.

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VICE: Come scegli quali temi affrontare?
Pieter Hugo: Gran parte della mia ispirazione nasce come reazione alle immagini che vedo nei media. The Hyena Men è partito da una foto scattata con un cellulare, probabilmente da un impiegato di una compagnia telefonica nigeriana che l'ha poi pubblicata online. La serie Nollywood è nata perché, mentre ero impegnato nel progetto sulle iene in giro per l'Africa Occidentale, ho notato che dappertutto, in ogni hotel o bar, la gente guardava questi film. All'epoca la cosa mi aveva davvero infastidito, ma successivamente mi sono reso conto che si trattava di qualcosa di incredibile, che valeva la pena esplorare. Permanent Error arriva da un articolo sul riciclaggio globale che ho letto su National Geographic. Conteneva la foto di una discarica di computer. Il lavoro sul Ruanda, invece, è venuto fuori da un articolo dell'Economist che ho letto un giorno in aereo.

Nei tuoi ritratti ci sono molti simboli, icone e costumi. Prendiamo i ritratti dei boyscout liberiani—puoi parlarci di queste foto?
È stata davvero una fortuna inaspettata, perché una rivista americana mi aveva incaricato di andare in Liberia a fotografare Ellen Johnson Sirleaf, la prima donna presidente d'Africa. Finito il lavoro ho deciso di rimanere in Liberia per un po', e mentre mi stavo bevendo una birra sotto il porticato dell'albergo ho visto passare questi boy scout. Per coincidenza uno di loro era il figlio di un uomo con cui stavo lavorando. Mi ha spiegato che molti dei ragazzi erano ex-combattenti della guerra civile. Credo che quando si è consapevoli di quali sono li propri interessi, se si tengono gli occhi aperti, questi si mostreranno. Da lì ho capito che non c'è bisogno di andare nella giungla del Congo per fare foto interessanti. Possono essere intorno a te, basta aprire gli occhi.

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Nel tuo nuovo libro hai inserito una citazione del curatore della fotografia del MoMa, John Szarkowski: “Un fotografo agli inizi spera di imparare a usare il suo mezzo per descrivere la verità. Il viaggiatore intelligente ha imparato che non c'è abbastanza pellicola per riuscirci.” In più di un'occasione hai detto che “la fotografia è finita.” Puoi dirci quali sono secondo te i limiti del mezzo fotografico?
Cavolo, domanda difficile. È importante sottolineare che ho fatto quell'affermazione quando ero completamente ubriaco.

È una questione interessante da affrontare, per un fotografo.
A un certo punto, dopo aver lavorato per un po', si diventa consapevoli delle intenzioni idealistiche che si avevano all'inizio e delle manchevolezze del proprio lavoro una volta pubblicato. C'è differenza tra le intenzioni e il modo in cui il lavoro viene letto dal pubblico. Penso sia questo il punto. Allo stesso tempo, per me è sempre stato difficile prendere sul serio la fotografia come forma d'arte. Quando si lavora con qualsiasi medium, è inevitabile, a un certo punto, rendersi conto dei suoi limiti. La fotografia, per esempio, può descrivere solamente la superficie delle cose. È simbolica. Non può fare più di quello. È una cosa che la letteratura ha capito anni fa, e la fotografia solo di recente.

Parliamo del tuo nuovo libro e della mostra, chiamati entrambi This Must Be the Place, e di come sono nati.
Attualmente c'è una mostra itinerante, partita dallo Hague Fotomuseum. Comprende più di un centinaio di stampe, quindi sembrava naturale produrne un catalogo. Poi il catalogo è diventato un libro! Metterlo insieme è stata un'esperienza fantastica. Ho sempre la sensazione di starmene fermo, senza combinare niente della mia vita. E un po' un senso di colpa alla calvinista, che mi fa pensare che dovrei essere più produttivo. Lavorando a questo catalogo, però, ho capito che posso anche rilassarmi un po'—mi ha impegnato davvero parecchio!

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Sono certo che sia stato catartico mettere tutte queste cose insieme e vederle nascere. Che tipo di tematiche hai individuato mentre curavi il lavoro?
Finita la scuola sono diventato subito fotografo; non ho studiato. Intorno ai vent'anni ho iniziato ad esercitare la professione, che si trattasse di lavori commerciali o editoriali o da fotoreporter. Non esisteva un vero luogo in cui si potessero imparare la teoria e la storia della fotografia. Erano cose che si imparavano col tempo, sul campo. Questa mostra è stata una buona occasione per fermarmi e guardare il mio lavoro, per vedere le varie tematiche emerse e capire meglio quali erano stati i miei interessi negli ultimi anni. Ci sono dei temi principali, indubbiamente, come “Cosa è reale?”. È una questione importante. In secondo luogo, c'è il dibattito sul diritto a rappresentare la realtà.

Ti sei diplomato nel 1994, l'anno delle prime elezioni democratiche in Sudafrica. Puoi dirci di come questo influenza le tue opere?
Sono cresciuto nella classe medio-alta, con una visione abbastanza liberale, ma ai miei occhi è sempre stato ovvio che la società in cui vivevo non era ideale e doveva essere cambiata. Sin da quando ero bambino, era evidente che sarebbe cambiata—il modo in cui andavano le cose non era sostenibile. Il mio lavoro è strettamente legato al fatto che sono cresciuto in Sudafrica. È molto difficile separare le due cose, e per quanto mi piacerebbe pensare che esso sia basato interamente sulle mie prerogative, è comunque legato al luogo in cui sono cresciuto. È un luogo problematico. Ci si chiede sempre qual è il proprio spazio d'appartenenza, e quale non lo è, o se abbia un senso lo stesso concetto di appartenenza. Penso che, all'inizio, la fotografia mi abbia dato una scusa affrontare la questione.

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Come lavoravano i fotografi, prima? Qual era la loro missione, è cambiata nel tempo?
Ora è completamente diversa. Fino a non molto tempo fa in Sudafrica non esisteva l'idea di raccogliere foto e metterle in un unico spazio.

Quindi era una cosa molto pratica?
Molto, anche se ci sono sempre stati fotografi che facevano lavori non puramente pratici. C'era un boicottaggio culturale. Non c'erano fotografie artistiche nei musei. Le opere presenti non erano internazionali. Se delle squadre sportive giocavano in Sudafrica, finivano sulla lista nera nel resto del mondo; nel periodo in cui sono cresciuto gli sport internazionali erano boicottati. Quindi era un posto davvero molto isolato. Eravamo consapevoli di essere il luogo in cui il mondo finiva, e di non piacere al resto del mondo che non approvava il nostro modello politico.

Sì, si percepisce nelle tue foto, ma c'è qualcosa di nettamente diverso tra queste e il lavoro di un fotoreporter. Qual è, secondo te?
Non lavoro propriamente su richiesta, non più, e questo comporta delle differenze. Mi danno degli incarichi, ma quelli che faccio sono per soggetti come il New York Times Magazine, che mi lascia il tempo per esplorare le cose. È un tipo di giornalismo del tutto diverso, lento, al contrario di quello dei quotidiani. Non è mancanza di rispetto, solo che quel mondo non è di particolare interesse per me. Non sono fatto per lavorare così.

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È impossibile non notare i riferimenti alle tue foto nel video di Beyonce, ma vedo anche il lavoro di Ed Kashi e il linguaggio visivo di vari fotografi. Prendere in prestito non è una cosa nuova, ma è un po' stridente vedere simili opere riprese per intenti commerciali. Omaggio o appropriazione?
Onestamente non gli do tanto peso. Una parte di me pensa che un'idea originale sia il peccato originale. È nata molto prima di te. Io sono in debito con così tante persone. Penso che basti ammetterlo, in un modo o nell'altro.

Almeno finché non si tratta di Richard Prince.
[Ride] Esattamente. La cosa di Beyonce mi ha fatto sorridere, ma quando ho visto l'uomo iena nel video di Nick Cave mi sono incavolato, perché avrei voluto farlo io, quel video. Sono sempre stato un grande fan di Nick Cave.

Dimmi se sbaglio, ma in Nollywood vedo della comicità.
Molte persone non hanno notato questo aspetto, ma il lavoro ha comunque suscitato tante reazioni. Particolarmente forti, anche. Uno degli autori nigeriani che ha lavorato a Nollywood ha ricevuto minacce per aver collaborato con me. È stato chiamato un traditore della razza! È abbastanza spaventoso quando si inizia a imporre agli artisti di essere politically correct o di rispettare determinate regole comportamentali, perché significa che dobbiamo iniziare a fare opere disoneste, moralistiche e propagandistiche. Trovo che questa cosa sia molto fastidiosa. Mi ci è voluto tanto per capire perché mi toccasse così profondamente. Mi disturba. Non è mai stata mia intenzione, assolutamente.

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Se mostrassi l'immagine a un nigeriano invece che a un europeo o un americano, quale sarebbe la reazione?
Dipende. Se vuoi leggerlo come un lavoro sull'industria cinematografica nigeriana, allora certamente non è accurato. Ma se lo vuoi leggere come l'interpretazione del fenomeno da parte di un creativo, interpretazione ispirata dall'estetica dei fenomeni e dalla loro lettura da parte del pubblico, allora ha i suoi pregi. Poi puoi dire: “Sono foto noiose in cui tutti sembrano piazzati in mezzo all'inquadratura.” Ma io non sono un antropologo. Non è ciò di cui mi occupo. Per molto tempo ho trovato queste critiche debilitanti. Ci ho messo un po' a superare lo scoglio. L'esperienza con quelle critiche al vetriolo mi ha reso molto consapevole di quanto può essere dannoso impegnarsi con il proprio lavoro a quel livello e cercare di imporre alle persone ciò che dovrebbero fare o meno.

Pensi che, come fotografo, sia una tua responsabilità fornire un'interpretazione?
In quanto artista non è mia responsabilità fornire una versione di come il resto del mondo dovrebbe percepire l'Africa. Prima di tutto, non è realmente mia intenzione occuparmi dell'Africa, è solo che lavoro qui ed è diventata un'estensione del mondo che abito. Definendo delle cose come “africane”, in qualche modo si continua solo a trasmettere il concetto di “diversità”.

Come vedi il lavoro di qualcuno che va in Africa e fa foto lì? L'approccio di un europeo o di un americano è diverso? Cosa pensi del lavoro di uno come Tim Hetherington?
Per molti aspetti credo che Tim Hetherington sia stato un fotografo moto più appassionato alle sue tematiche di quanto lo sia io alle mie. Ha vissuto per anni in Liberia. Io non ci sarei rimasto così a lungo. Dal suo lavoro emerge un ibrido interessante di tematiche e influenze. A suo modo era unico. Non aveva paura di sperimentare, né di prendersi il tempo necessario per farlo. Tim Hetherington era un mio amico. Il giorno che ho fotografato i boy scout sono andato a casa sua.

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Qui a New York ho passato un bel po' di tempo con Chris Hondros, ma non conoscevo Tim. Tu lo conoscevi bene?
Non ho mai incontrato Chris. Tim era così contento di trasferirsi a New York, la considerava liberatoria. Credo che fosse un outsider anche in Inghilterra. Era irritato perché aveva frequentato scuole private e costose, ma la sua famiglia si era arricchita solo recentemente. Non si è mai sentito appartenente a qualcosa. Ecco perché trovava l'America così liberatoria. Puoi trasferirti da qualche parte e reinventarti. Abbiamo avuto una bella discussione sull'idea di outsider. È parte del processo per cui spesso ho bisogno di andare via per produrre. Non tanto perché il tema sia esotico. Più che altro mi dà l'isolamento necessario a non distrarmi e mi permette di continuare a guardare quello che davvero voglio.

Pieter Hugo – This Must Be The Place con saggi diT.J. Demos e Aaron Schumann è edito da Prestel.

The Hyena Men of Abuja

The Honourable Justice Moatlhodi Marumo Lobatse, 2005

Abdulai Yahaya, Agbogbloshie Market Accra, 2010

Junior Ofokansi, Chetachi Ofokansi, Mpompo Ofokansi Enugu, 2008

Sophia Hugo on the day of her birth Cape Town, 2010

A wax mannequin of Louis Washkansky, who in 1967 became the world’s first human heart transplant recipient, at the Heart of Cape Town Museum 2008