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Música

Delusioni Primaverili

Sullo stato comatoso della musica indipendente, al Primavera Sound e non solo.

Quando si torna a casa da un festival estivo, generalmente la voglia di rificcarsi nel tedio quotidiano è meno di zero. La fine di una vacanza è sempre fonte di scazzi, figuriamoci quando il weekend è stato vissuto nell’illusione di dedicare la propria esistenza alla musica. Allora come mai sono quasi galvanizzato di essermi levato dalle palle il Primavera Sound? Già mi immagino la valanga di insulti: il media per cui lavori ti manda aggratis a uno dei festival più importanti d'Europa e tu ci sputi sopra. Me ne rendo perfettamente conto, ma se ho una sorta di funzione all’interno di quel media è proprio quella di fornire un parere non richiesto. Non si tratta di snobismi di alcun tipo, anzi spero di essermi tenuto un minimo di credibilità, che funga da garanzia della mia buona fede. E non sto solo esorcizzando un po’ di mal riposto senso di colpa cattolico.

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Me ne sono tornato a casa, quindi, leggermente scoglionato perché quello che da Barcellona mi sono portato dietro, è una consapevolezza parecchio irritante. In tre giorni di concerti l’unica testimonianza ufficiale che mi sento di riferire è quella di un incredibile, generalizzato piattume, sensazione ovviamente non riferita in senso stretto all’organizzazione del festival. Anzi, se non altro mi sento di ringraziare tutti i curatori dei vari palchi per avere reso questo fenomeno palese e avermelo piazzato chiaro davanti agli occhi. Quello che ho capito è che la musica indipendente contemporanea è in uno stato comatoso, pietoso, persa in un circolo di autoreferenzialità che si autoingoia all’infinito. In un certo senso è colpa della morte stessa dell’hipsterismo, che sta avvenendo sotto forma di implosione, trascinando con sé tutto quello che ci stava intorno.

Negli ultimi dieci anni, tutto ciò che è stato "scoperto" (o ri-scoperto), tutto quello che aveva una parvenza di "audacia" e "autenticità", ha avuto modo di risultare figo/interessante/valido molto più di quanto accadeva in passato, e soprattutto, ha avuto modo di poter essere proposto a un pubblico non esclusivamente di nicchia. Cos’è cambiato adesso rispetto a dieci anni fa? Poco niente, ma credo siamo arrivati al punto in cui se semo magnati tutto. Nel senso che a forza di fagocitare porzioncine di cultura pop, controculture, sottoculture e fenomeni vari, abbiamo sviluppato una digestione fin troppo rapida. Tutto scorre liscio, e la noia regna sovrana.

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Sembra un discorso fin troppo ampio per avere qualcosa a che fare con un semplice festival, ma è anche vero che una manifestazione così ampia non può fare a meno di catturare un po’ lo spirito dei tempi. In tre giorni, infatti, ho visto di tutto. Mi è sfilata davanti una selezione di artisti talmente eclettica da non esserlo affatto. Anzi, mi sembrava si fosse rispettato un programma in qualche modo prestabilito ma, di nuovo, ho paura non fosse tanto colpa dell’offerta quanto della domanda. C’erano le reunion di vecchie glorie anni Ottanta e Novanta che non potevi aver visto ai tempi. C’era elettronica più o meno massimalista, per ballare. C’erano il metal e l’hardcore che ascoltavi quando eri un po’ più giovane e ti piaceva ancora pogare. C’era la roba più sperimentale perché bisogna avere la mente aperta. Soprattutto, però, c’era tantissimo indie-rock generico, di quello raccomandabile con la camicetta. Però, ancora, non sarebbe un problema il fatto materiale che certo underground sia arrivato spalla a spalla col mondo “emerso”, che i Mayhem suonassero nello stesso posto dei Death Cab For Cutie, è solo che l’eclettismo a tutti i costi si è reso incredibilmente palloso, una scusa per non mettere più in discussione nessun valore estetico facendo invece finta di metterli in discussione tutti. Fatevi un giro per le line up dei maggiori festival pre-estivi d’Europa. Guardate bene, c’erano praticamente gli stessi gruppi. E al Primavera la mia sensazione è che ci fossero più perché “dovevano”, perché la gente insomma si aspettava che ci fosse “tutto”: Il kebab completo che un festival di queste dimensioni deve per forza rappresentare.

Quello che invece da un paio d’anni manca, è qualcosa di relativamente “nuovo”, fosse anche un nuovo revival, un nuovo mix di generi distanti ma preesistenti. Qualcosa che sappia rielaborare anche stimoli dal passato con un’urgenza diversa, genuina. Mi viene quasi da rimpiangere quella merda di sotto-garage che qualcuno cinque anni fa chiamava “shitgaze”. A dire il vero, i più acclamati tra gli artisti “nuovi” che ho scelto di vedere erano anche i più tristi. Mi vengono in mente, ad esempio, Grimes, cioè una sciacquetta teen-pop adatta a chi si sente troppo figo per andare a vedere direttamente Madonna; gli Iceage, che a fronte di un disco bellissimo sul palco dimostrano davvero gli anni che hanno, e sembrano la band del liceo; i The Men, la roba garage indie più anonima e pallosa della storia. Ancora peggio sul fronte reunion, che di solito servono più come “shock”, appunto per affrontare la noia di cui sopra, però alzi la mano chi ancora casca nel “WHOA, CI SONO ANCHE LORO, VOLEVO VEDERLI DA UNA VITA”. Non che alcuni di questi riesumati non siano stati capaci di concerti dignitosissimi (Godflesh e Pop Group, ad esempio), però siamo anche lì a un punto di non ritorno. Per capirci: mi ha lasciato molto perplesso l’esibizione dei Refused, patetici nei loro tentativi di apparire ancora coerenti, contraddetti dalle loro stesse giustificazioni, ma tutto sommato davvero alla ricerca di uno spazio in cui il loro messaggio estetico e politico possa avere ancora una rilevanza–missione fallita, secondo me. Poi qualcuno mi spieghi per quale cazzo di motivo bisogna sempre invitare gli Shellac, SEMPRE. Ci sono tutti gli anni, maledizione…

Quello che ho capito davvero, è che l’idea che da qualche anno mi ero fatto del futuro della musica tutta era sbagliata. Pensavo che le barriere tra i livelli di “emersione” si sarebbero definitivamente piegate, abbattendo soprattutto quello che stava in mezzo e che non era né carne né pesce, invadendone completamente lo spazio. Per un po’ è stato effettivamente così, anche per l’under-underground, per la roba più bizzarra e “inascoltabile”. Invece ora credo che ci sia veramente bisogno soprattutto di piantarla con quel distacco ironico che ci fa mettere tutto su uno stesso piano innocuo.

Perché, appunto, la cosa peggiore del festival è stata l’atmosfera. Non che non ci fosse della moderata fattanza, quel giusto marciume che ci vuole al festival, ma tutto si svolgeva in maniera sin troppo “normale” e pacata, e di nuovo quell’aggettivo: innocua. Stiamo parlando comunque di un area musicale che ha “mercato” e non è necessariamente interessata alla rottura, però persino nei tanto schifati anni Novanta, gli anni del "Woodstock sponsored by Coca-Cola", gli interessi di chi sosteneva il mercato della musica “alternativa” erano diversi. Magari erano solo tutti più ingenui. L’hipsterismo e la messa in discussione forzata, invece, se da una parte ci hanno permesso di vedere molte cose in maniera nuova e laterale, hanno anche creato un mondo in cui troppi tra quelli che si sono bevuti la favola della libera espressione e dell’individualità hanno deciso di esprimersi senza avere granché da esprimere. Il risultato è che pochissima musica oggi sa comunicare davvero qualcosa oltre l’intrattenimento, e spesso neanche quello.