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Macro

Perché anche in Italia dovremmo lavorare di meno

Abbiamo parlato con un esperto per capire il rapporto tra economia di un Paese e orari lavorativi, quale è la situazione in Italia e a quali benefici porterebbe una loro riduzione nel nostro paese.

È un duro lavoro ma qualcuno deve pur farlo. Foto di Stefanie Katzinger.

Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!

Qualche tempo fa, mentre la Grecia era diventata il principale argomento di dibattito dentro e fuori i social network, il Pew Research Center aveva riproposto un sondaggio che metteva a confronto le percezioni interne ed esterne dei vari paesi europei in materia di lavoro: se la Grecia si definiva il Paese più operoso e stakanovista, l'impressione del resto d'Europa non poteva essere più diversa.

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Most hardworking in EU? Greeks say 'Greece,' everyone else says Germany — PewResearch FactTank (@FactTank)28 Gennaio 2015

In realtà i dati mostrano che non solo la Grecia è il paese europeo dove si lavora di più, ma si posiziona al terzo posto della classifica dei paesi OCSE del 2014 per orari lavorativi annuali. In quella stessa classifica l'Italia compare al ventesimo posto, dopo paesi come il Messico, il Cile e il Costa Rica, e prima della Svizzera, il Giappone e la Germania.

Queste classifiche dimostrano il fatto, già noto, che orari lavorativi più lunghi non corrispondono necessariamente a una maggiore produttività, e anzi che in linea generale i paesi economicamente più benestanti sono anche quelli con una maggiore distribuzione oraria del lavoro. Nonostante questi dati dovrebbero spingere a una riflessione in tal senso, in Italia ancora vigono gli orari lavorativi statuiti nel 1969, e la tendenza è stabile, se non in aumento.

Per capire il rapporto tra economia di un Paese e orari lavorativi, quale è la situazione in Italia e a quali benefici porterebbe una loro riduzione nel nostro paese, abbiamo contattato Marco Craviolatti, attivista e autore del libro E la borsa e la vita.

VICE: Dalle ultime ricerche OCSE sulle ore lavorative annuali dei singoli paesi emerge che in paesi come il Messico, la Grecia e il Cile si lavora di più che in paesi come Belgio, Germania e Svizzera. Come spiega questa apparente contraddizione?
Marco Craviolatti: Si spiega con il fatto che quello che conta per l'economicità di un sistema produttivo non è tanto la quantità di ore lavorate ma la produttività oraria, cioè quanto si produce in un'ora di lavoro. Ci sono paesi che, perché hanno un sistema di produttivo più arretrato o perché stanno perdendo elementi d'innovazione a spese di altri, giocano la concorrenza su prodotti a basso valore aggiunto, in cui conta spremere il personale facendolo lavorare tanto ma con scarsi investimenti nel capitale produttivo, con scarsa innovazione dei processi. E questo fa sì che si crei una forbice tra paesi che lavorano poco ma bene e paesi che lavorano di più e male.

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Il dato interessante è che c'è una correlazione statistica quasi perfetta tra orario di lavoro e produttività oraria: più sale l'orario più si abbassa la produttività oraria. Ma c'è anche un altro dato importante, che gli economisti chiamano 'la dotazione di capitale per addetto," cioè la quantità di investimenti che sono stati attivati in un sistema economico. Con un'alta dotazione di capitale per addetto, ovvero con investimenti significativi, la produttività oraria aumenta anche se le ore lavorative pro-capite sono limitate.

Ci sono delle variazioni anche a livello di occupazione, ovviamente.
In un paese in cui l'occupazione è concentrata su poche persone che svolgono lunghi turni, i tassi di occupazione sono di norma più bassi, e questo fa sì che tutta una serie di soggetti, il capitale umano ad alto potenziale produttivo––penso soprattutto ai giovani ma anche all'occupazione femminile––siano esclusi dal mercato del lavoro o limitati alla sottoccupazione, a lavoretti in cui le loro risorse e le loro capacità sono sottoutilizzate.

Dal punto di vista dell'identità individuale, quali sono i problemi associati a orari lavorativi come quelli che conosciamo?
Fondamentalmente c'è un grosso spreco di potenziale di vita. C'è una riduzione della vita alla dimensione lavorativa, quindi un'identità che si fonde totalmente con la mansione che si svolge, ed esclude altre dimensioni più creative, relazionali, personali. Il paradosso è che siccome il tempo libero è secondario rispetto al tempo lavorativo, spesso non ha valore e non si sa come utilizzarlo. Di conseguenza, questi turni lavorativi portano a un impoverimento dell'identità umana di 360 gradi.

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Fondamentale c'è poi l'irrigidimento delle differenze di genere, perché in questo contesto è molto più difficile mettere in discussione i ruoli maschile e femminile. Il ruolo maschile––che è storicamente fondato sulla percezione del reddito––non è stato più messo in discussione. I lunghi turni lavorativi in qualche modo legittimano questo ruolo e allo stesso tempo rendono molto più difficile l'accesso femminile al lavoro formale, perché la donna continua a gestire la casa e la famiglia, svolgendo di solito un triplo ruolo. Una disponibilità di tempo sociale maggiore probabilmente imporrebbe la messa in discussione di questi ruoli.

— Statista (@StatistaCharts)22 Aprile 2015

Ci sono degli esempi all'estero che possono insegnarci qualcosa? Più di quindici anni fa per esempio la Francia ha provato ad andare nella direzione di orari lavorativi più brevi con le "35 ore per legge." Qual è il bilancio di quell'esperienza?
La Francia ha cercato di arrivare a una riduzione generalizzata degli orari. È stata un'esperienza limitata, non ha riguardato tutte le aziende, e dopo pochi anni è arrivato il governo di centrodestra che ha depotenzializzato l'esperimento. Però l'esperienza francese, tra luci e ombre, ci dà degli elementi di interesse. Il primo è che effettivamente un impatto occupazionale positivo ce l'ha avuto.

Gli aspetti più interessanti sono la sostenibilità economica per tutte le parti: aziende, lavoratori e Stato. Si tratta di una misura che ha mirato a una riduzione degli orari generalizzata, e che non è costata cara. Spendiamo molto di più noi per la cassa integrazione, che conserva dei posti senza però cambiare la struttura del paese. In Francia erano stati pensati degli indennizzi soprattutto per le fasce di reddito più basse, che quindi non hanno assistito a un calo dei redditi. E la cosa più interessante è che le imprese, che paventavano aumenti di costi insostenibili, in realtà hanno sì attraversato uno shock organizzativo iniziale, ma hanno poi imparato a gestire meglio il tempo. L'aumento dei costi è stato inferiore all'aumento della produttività oraria––che è quello che conta, il rapporto tra costo e produzione.

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Quindi l'esperienza francese è stata limitata e non esente da alcune ombre––la riduzione degli orari è stata scambiata per un aumento della flessibilità––ma d'altro canto la flessibilità è aumentata anche in Italia senza neanche una riduzione degli orari.

Diversa è l'esperienza della Germania con il kurzarbeit e i mini job. A quali risultati hanno portato?
L'esperienza della Germania [la riduzione temporanea degli orari] ha avuto degli effetti molto positivi dal punto di vista della difesa dell'occupazione, ma la Germania ci dà anche un'esperienza negativa che è quella dei mini-job, i lavoretti part time affiancati poi da una serie di tutele su reddito, affitto, e altre cose. Il concetto è che adesso in Germania ci sono diverse migliaia di persone che sono entrate nel mondo del lavoro con questa trappola dei mini job, con i quali se da una parte si lavora poco, dall'altra si guadagna molto poco e questo porta le persone a dover mettere insieme due mini job per farne uno, con delle impostazioni di organizzazione dell'orario che spesso lo rendono difficile. Questo ci avverte sui rischi di incentivare il part time. Il part time rischia di diventare un ghetto in cui relegare magari le donne, magari le fasce più deboli della società, di cui ci si serve nel servizio delle pulizie, della ristorazione, e del commercio.

I part time stanno crescendo molto anche in Italia e ormai per i due terzi sono involontari, quindi accettati dalla gente semplicemente per mancanza di alternative. Il part time scelto come occasione di conciliazione è ormai minoritario. Il paradosso è anche questo, dove la gente vuole sceglierlo non può perché non c'è un diritto al part time. Le neomamme che vorrebbero lavorare, per esempio, spesso si devono licenziare, perché non ci sono più orari volontari.

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In Spagna Podemos ha inserito nel suo programma economico la riduzione del lavoro, e il discorso è ancora aperto sia in Francia che in Germania. In Italia c'è la prospettiva di avviare un esperimento del genere in tempi brevi?
Sul piano contrattuale ci sono esperienze positive, tra le quali i contratti di solidarietà, che comunque continuano a difendere dei pezzi d'occupazione. Quella che manca è una riflessione più strutturale. Bisogna avviare un piano di redistribuzione dei tempi di lavoro e per far questo serve il coinvolgimento dei sindacati e della politica. L'ultima volta che in Italia si parlò di un progetto del genere è quasi vent'anni fa, quando Rifondazione Comunista ne fece un piano di battaglia durante il primo governo Prodi. Poi il fallimento di quell'esperienza ha gettato nell'oblio tutta la riflessione.

C'è un dato sul quale si può giocare: le 8 ore in Italia nascono nel 1919. Dopo 50 anni, nel 1969, arrivano le 40 ore settimanali e il sabato festivo, e aumentano giorni di ferie. Sarebbe interessante mettere il 2019 come data obiettivo per una significativa riduzione dei tempi di lavoro.

Il modello che lei prevede nel suo libro per l'Italia è a metà tra il full time e il part time, una graduale riduzione dell'orario lavorativo che si avvarrebbe di concetti come "flessibilità buona" e congedo volontario. Mi spiega i cardini del suo modello?
I grossi fronti nel modello che suggerisco sono due. Il primo è quello della riduzione individuale volontaria. Come dicevo prima, ci sono milioni di persone che in alcune fasi della propria vita vorrebbero poter ridurre il proprio orario lavorativo ma non possono perché contrattualmente e legalmente non ne esiste la possibilità. C'è tutto un filone culturale del downshifting che in Italia forse è poco noto, ma che soprattutto nei paesi anglosassoni prende sempre più piede: persone che si rendono conto che non vogliono dare tutta la loro vita alla dimensione lavorativa e decidono di ritagliarsi un ruolo per altre attività. Questo è il primo livello ed è più facile, richiede un cambiamento culturale e richiede da parte delle imprese la capacità di legare la qualità del lavoro ai risultati e non alla presenza––concetto che in Italia facciamo molto fatica a far passare––ma comunque si basa sulla volontà a procedere in tal senso dei lavoratori stessi.

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La seconda dimensione è quella di pensare a un percorso di riduzione generalizzata che parta dalle 40 ore per scendere verso il basso con tempo e livelli non rigidi ma che possano essere assunti dalle diverse imprese in base alle proprie esigenze. Io in questo senso penso a una fascia intermedia che vada dalle 25 alle 35 ore in cui il carico fiscale e il carico contributivo siano inferiori. Quindi, se io azienda nell'arco di alcuni anni vado verso questo tipo di modello, ci sono degli sgravi contributivi. Al di sopra di quella soglia il lavoro dovrebbe valere di più, che è il contrario di quello che succede adesso, in cui alle imprese conviene far fare gli straordinari.

Io dico anche di non far pagare di più solo il lavoro sopra una certa soglia, ma anche il lavoro sotto una certa soglia, sennò ricadiamo in quei part time in cui uno né si guadagna da mangiare né ha la possibilità di organizzarsi la vita.

Per quanto riguarda il concetto di flessibilità buona, è l'autorganizzazione del lavoratore sia dal punto di visto della mansione lavorativa sia di gestione dei tempi. Ci sono una miriade di ricerche di microeconomia che dimostrano come questi modelli organizzativi siano virtuosi per entrambe le parti, e che siano efficaci nella riduzione sostanziale dell'assenteismo e del presenzialismo––pratica molto in voga in Italia.

Quali sarebbero i benefici economici del lavorare di meno?
Sicuramente sarebbe uno stimolo a un'evoluzione del sistema produttivo, e quindi a un livello produttivo non fondato su una concorrenza al ribasso––che è perdente perché ci sarà sempre qualche paese in cui la produzione costa meno che da noi––ma un sistema produttivo che si evolve, che innova, che stimola investimenti che migliorano la qualità dei prodotti e dei servizi. Questo è particolarmente vero in Italia, in cui la produttività è ferma da 20 anni, è il paese occidentale che da 20 anni non registra aumenti di produttività del lavoro perché si è giocato tutto su questo modello di concorrenza. E poi ci sarebbe la distribuzione dell'occupazione.
Sì, il riattivare non una crescita, ma una dinamica macroeconomica che stia in piedi da sola, dove ci sia una domanda interna che è efficiente per alimentare il mercato, con tutto ciò che ne consegue. Se la domanda interna langue, è evidente che la produzione non riparte, non si può puntare tutto sull'esportazione. Ovviamente il passaggio tra il tasso di occupazione e la riduzione dell'orario non è automatico, ma quello che si può affermare è che la correlazione tra orario medio e tasso di occupazione è molto evidente.

A new paper shows that reducing working hours can be good for productivity — The Economist (@TheEconomist)13 Dicembre 2014

E i benefici sociali?
I benefici sociali li declinerei nelle quattro dimensioni che ho provato a mettere in evidenza nel libro. Sono l'occupazione, la dinamica di miglioramento della produttività, il benessere e poi c'è un aspetto che è spesso trascurato, che è quello di una maggiore giustizia. Non è solo un discorso di redistribuzione del reddito––che è comunque importante––ma è il fatto che quello che è successo nell'ultimo secolo e soprattutto negli ultimi venti anni, è che tutti i benefici dell'innovazione scientifica e tecnologica sono finiti in profitti.

La produttività del lavoro si è moltiplicata di n volte, però i salari son cresciuti molto più lentamente della produttività. Se i salari sono cresciuti molto più lentamente, gli orari sono addirittura aumentati, dove è finita la ricchezza prodotta? È andata a concentrarsi nelle mani dei vari possessori di capitale e azionisti, e questa è stata una dinamica che ha moltiplicato a dismisura l'ingiustizia. Una distribuzione del lavoro significa far riappropriare la collettività di una parte dei benefici che il progresso scientifico e tecnologico ha prodotto negli ultimi decenni.

A livello salariale, la riduzione dell'orario lavorativo a cosa porterebbe?
Nel caso francese i salari più bassi sono stati integrati dallo stato, e il lavoratore non ha perso reddito, come neanche le imprese. In alcuni casi si può pensare che il salario subisca dei tagli non proporzionali, tra i redditi più elevati potrebbe esserci un taglio parziale. Deve essere un intervento mirato, posto che il reddito minimo deve essere garantito, tutto il resto si può discutere. Eppure l'esigenza espressa dai lavoratori sembra essere quella di lavorare di più. Spesso le persone accettano orari più lunghi per uno stipendio più alto e viene da pensare che difficilmente accetterebbero il contrario. Vede possibile un'inversione di tendenza in tal senso?
Sì e no. Ho partecipato da poco un corso della FIOM qui a Torino, in cui i delegati raccontavano della loro difficoltà a contrattare gli orari, perché appunto in questa cultura in cui si monetizza tutto molte persone non riescono neanche a contrattare gli straordinari, che spesso la gente fa a qualsiasi condizione purché guadagni di più. Questa è una realtà. Penso che sia fondamentale un lavoro a livello culturale, non per sminuire quella che è l'esigenza di reddito di molti, che con salari fermi o in calo è più che legittima, ma per ricondurre il ruolo del mercato a una dimensione della vita, non all'intera identità e a tutti i bisogni.