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Macro

Conviene ancora andare all'università in Italia?

Il numero delle immatricolazioni nelle università italiane è in calo costante ormai da oltre dieci anni, perché la laurea non è più percepita come un valore aggiunto per il mondo del lavoro. Ma è davvero così?

Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!

Il numero delle immatricolazioni nelle università italiane è in calo costante ormai da oltre dieci anni anni: erano 338mila nel 2002, 307mila nel 2007, 280mila nel 2011; sono state 265mila l'anno scorso. Dal 2013, il tasso di passaggio tra la scuola secondaria superiore e l'istruzione terziaria in Italia è sceso sotto la soglia del 50 percento: meno della metà di chi finisce le superiori si iscrive all'università. E a questa percentuale va tolta quella di chi abbandona gli studi prima del diploma—la cosiddetta "dispersione scolastica" che in Italia coinvolge circa il 30 percento degli studenti.

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Complice anche la crisi economica, in cinque anni il numero di iscritti all'università è diminuito del 9 percento, con 37.616 laureati in meno. Alla luce di questi numeri, è lecito domandarsi se andare all'università, in Italia, sia ancora una scelta conveniente—una domanda per nulla banale in un paese dove secondo l'Istat la disoccupazione giovane si attesta al 41 percento, i cui le condizioni economiche e sociali dei ventenni sono le peggiori mai viste da decenni e in cui il sistema universitario stesso viene accusato di sfornare lauree inutili per la vita professionale futura degli studenti.

Insomma, gli stessi diplomati sembrano essere coscienti di questa situazione e un numero consistente appare sempre più disinteressato agli studi universitari, non più percepiti come la soluzione al problema della disoccupazione di massa e della povertà. Per capire se è davvero così, bisogna dare un'occhiata ai dati che emergono dalla XVII Indagine sulla condizione dei laureati condotta da AlmaLaurea sotto la guida del professore di statistica Andrea Camminelli, che ha coinvolto circa 490mila laureati di 65 diversi atenei.

Come ha fatto notare sul Fatto Quotidiano Marco Bella, ricercatore in chimica organica all'Università di Roma La Sapienza, il primo dato a emergere è relativamente semplice: più si studia meglio è—perché più si studia più aumenta la probabilità di trovare un lavoro e di percepire stipendi più elevati della media. Prima della crisi, il tasso di disoccupazione tra i laureati era del 4,4 percento, quello dei diplomati del 5,6 percento e quello di chi aveva solo la licenza media del 7,3 percento. Con la crisi, questa forbice si è allargata: nel 2014, le percentuali erano rispettivamente del 7,8, del 11,9 e del 16,2 percento.

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Persino nelle fasi più acute della crisi i neolaureati hanno goduto di questo "ritorno dell'educazione" sul mercato del lavoro: tra il 2007 e il 2014, il differenziale tra il tasso di disoccupazione dei neolaureati e quello dei neodiplomati è passato da 3,6 punti (9,5 contro 13,1 percento) a 12,3 punti (17,7 contro 30 percento). Per non parlare di chi si è fermato alla scuola dell'obbligo, il cui differenziale nel 2014 era di 30,4 punti. Insomma, la crisi ha colpito tutti ma non allo stesso modo. La cosa più importante però è il fatto che, in un paese caratterizzato a numerosi divari di genere e territoriali, il titolo di studio conta più di questi ultimi due fattori: una neolaureata ha più probabilità di avere lavoro di un diplomato maschio, un neolaureato del sud ha più probabilità di lavorare di un diplomato del nord.

E questi differenziali influiscono anche sui redditi: "il premio salariale dei laureati, cioè il differenziale retributivo rispetto ai diplomati, risulta essere cresciuto durante la recessione," si legge nell'indagine di AlmaLaurea. "Sulla base di un confronto tra le retribuzioni dei diplomati, rilevate attraverso il progetto ALMADIPLOMA, e quelle dei laureati magistrali, risulta che ad un anno dal termine degli studi il differenziale è passato dal 20,8 percento del 2011 al 21,9 percento del 2014—sempre a favore dei giovani in possesso di un titolo universitario."

Stando ai dati Ocse, su tutta la popolazione in età lavorativa post-laurea (cioè dai 25 ai 64 anni) un laureato guadagna in media il 48 percento in più di un diplomato. Ovviamente bisogna tenere a mente che questo differenziale retributivo e occupazionale avviene pur sempre nel contesto di un paese poco propenso a valorizzare la conoscenza: le difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro dei neolaureati sono comunque presenti e "si accompagnano tuttora a un ridotto assorbimento de laureati da parte del sistema produttivo."

È anche per questo che per molti risulta più conveniente spendere la propria laurea all'estero—come confermano i dati dell'indagine di AlmaLaurea sulla base delle risposti dei neolaureati in triennale nell'anno 2013. Stando all'indagine, al nord un neolaureato guadagna in media il 18,2 percento in più rispetto a uno del sud: 903 euro mensili netti contro 764. All'estero le cose cambiano: un laureato triennale in un università italiana guadagna in media, dopo un anno, 1305 euro netti al mese—il 50 percento in più rispetto alla media nazionale. I laureati in magistrale italiani, invece, si fermano in media a 1065 euro mensili, ma a cinque anni dalla laurea guadagnano mediamente 1356 euro mensili netti lavorando in Italia e 2043 euro mensili netti lavorando all'estero.

Questo significa che, in un paese in cui il reddito medio è di circa 1500 euro netti al mese, un neolaureato in triennale guadagna poco più della metà delle media nazionale. Un dato che riflette quanto sia complicata la condizione economica dei giovani italiani. Anche se ci sono dei segnali positivi: da una parte, quel reddito sembra destinato ad aumentare, dall'altra in Italia la laurea sembra fare la differenza non tanto nell'accrescere le probabilità di guadagnare tanto quanto nell'offrire maggiori possibilità di guadagnare qualcosa. Che sembra poco, ma non lo è.

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