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Il centro per i medici italiani che abusano di alcol e droga

A Torino starebbe finalmente per nascere la prima struttura italiana dedicata alla cura delle dipendenze da alcol, droghe o psicofarmaci esplicitamente pensata per il personale sanitario. Ne abbiamo parlato con i responsabili.

Foto dell'utente Flickr Phalinn Ooi.


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Affermare che quello del medico sia uno dei lavori più stressanti e totalizzanti del mondo è un'ovvietà. Allo stress di una professione con turni difficili e dalle cui responsabilità può dipendere la vita delle persone, si va ad aggiungere l'avere quotidianamente a che fare con la sofferenza e la precarietà della condizione umana. Tutte cose che non è facile scrollarsi di dosso per tornare alla propria vita una volta finita la giornata lavorativa.

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Tutto ciò porta professioni di alto profilo come quella medica a un rischio superiore, rispetto al resto della popolazione, di sviluppare dipendenze e disturbi comportamentali. Se da una parte il legame tra medici e dipendenze è vivo nell'immaginario collettivo e di esempi a riguardo è piena la storia, dall'altra per molti anni si è stentato ad ammettere l'esistenza di tale collegamento, o almeno di un suo rischio reale, e il conseguente bisogno di prevenzione.

In Italia, un passo significativo verso l'ammissione del problema potrebbe essere quello dell'Ordine dei Medici di Torino, che attraverso il Progetto Helper, di cui è promotore, si propone di creare una struttura completamente destinata alla cura delle patologie del personale sanitario, quali la dipendenza da alcol, droghe o psicofarmaci.

Il progetto è il frutto della partecipazione di diverse realtà, tra cui il Centro Torinese di Solidarietà e la Regione Lombardia e, già approvato, è alla ricerca di finanziamenti. Si tratterebbe di una struttura, resa disponibile dalla Città della Salute di Torino, in grado di offrire in modo del tutto anonimo un programma terapeutico ambulatoriale, semiresidenziale e residenziale indirizzato al personale sanitario affetto da dipendenze patologiche da droghe o alcol, burn-out e disturbi comportamentali. A questo si andrebbero ad aggiungere corsi di prevenzione e formazione.

"Si è trattato di un lavoro di circa 15 anni," mi racconta per telefono Tiziana Borsatti, responsabile del progetto per l'Ordine dei Medici, che da due anni lavora alla sua realizzazione. "Adesso finalmente l'Ordine dei Medici di Torino tramite questo progetto si è rivelato pronto ad ammettere che esiste un problema, e ad affrontarlo. È una svolta culturale importante."

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Quello di Torino sarebbe il secondo centro d'Europa, e andrebbe ad aggiungersi al Progetto Paime a Barcellona, con il quale è già stata organizzata una collaborazione e che dal 1998 offre assistenza al personale sanitario affetto da dipendenze e disturbi comportamentali.

In Italia, la stima del numero dei medici che potrebbe utilizzare la struttura rimane del tutto approssimativa, come mi spiega Borsatti: "Il fatto che in Italia non se ne sia mai parlato porta ovviamente a statistiche inconsistenti. Ce n'è una, risalente al 2012, che indicherebbe un numero pari al 10 percento, ma trattandosi di un argomento a lungo taciuto noi ci basiamo sui numeri che derivano da esperienze consistenti simili alla nostra in Spagna e negli Stati Uniti, che parlano del 12 percento."

Ma ciò che ha reso il problema più evidente, a quanto mi dice Borsatti, è un altro dato, quello sui suicidi: "Da una statistica nazionale appare che tra il personale sanitario i suicidi sono il doppio che tra le persone che fanno altre professioni. E quello stesso numero diventa il quadruplo rispetto al resto della popolazione se si parla di donne. Sono numeri che non possono essere ignorati."

I motivi dietro tale discrepanza sarebbero da attribuire alla natura stressante del lavoro, che in tempi recenti, secondo Borsatti, a seguito della crisi della sanità pubblica si sarebbe acuita. Sostiene che negli ultimi tempi i tagli abbiano portato a un peggioramento degli orari e delle condizioni lavorative, con inevitabili ripercussioni psicologiche. "[Per i medici ospedalieri] si tratta generalmente di cinque notti al mese in piedi e poi tutti i giorni di lavoro, più due weekend al mese. Vuol dire che la tua vita di relazioni è ridotta a niente. È una scelta, per carità, ma il massacro non diventa più una scelta."

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A questo si va ad aggiungere la responsabilità di non poter sbagliare, per gli eventuali risvolti dell'errore sia in termini di vite sia in termini penali—sempre più frequenti come suggerisce l'importante aumento di denunce e i problemi economici che queste comportano—e il rapporto del tutto particolare dei medici con le patologie e le strutture di assistenza.

A rendere necessario un progetto completamente destinato ai medici, in cui in totale anonimato possono prendersi una pausa da lavoro per curarsi dalle proprie dipendenze, sono in particolare due aspetti. Il primo, mi spiega Borsatti, riguarda la privacy, ovvero il rischio che rivolgendosi a strutture pubbliche si incontrino pazienti o colleghi, con le conseguenti ripercussioni professionali. A questo si va aggiungere il fatto che "il medico è un paziente speciale, in quanto tende ad autocurarsi. Lo fa con le diagnosi fisiche e anche con quelle psicologiche. E questa non può essere la soluzione quando si tratta di dipendenze."

Per quanto se ne sia cominciato a parlare apertamente all'interno dell'Ordine dei Medici solo di recente, il problema non è assolutamente nuovo. Piuttosto è sempre stata radicata la mancanza di volontà che la questione emergesse, come mi spiega Renato Armenio del Centro Torinese di Solidarietà: "Questi problemi quando sorgono lo fanno in maniera particolare: sotto forma di reati. I singoli casi vengono presi quindi a carico dalla commissione penale ospedaliera, rimangono singoli casi di reati affrontati a livello penale in cui al medico viene riconosciuta una colpa invece di un problema."

Per tradizione quella dei medici è una categoria professionale molto chiusa su di sé, e molto spesso è proprio il responsabile dell'ospedale, mi spiega Armenio, a voler nascondere il problema: "Se scopro che il medico ha qualcosa che non va tendo a ignorarlo, ad assicurarmi che non si venga a sapere. Me ne occupo quando c'è una denuncia o emerge l'illecito, solo a quel punto ci si prende carico del dipendente ospedaliero. Il problema in molte realtà ospedaliere italiane è noto, presso l'Ordine dei Medici è noto, ma il rovescio della medaglia non è stato considerato: dietro quella professione ci sono persone che stanno male."

Sicuramente la battaglia più grande sarà quella da compiere dal punto di vista culturale, una svolta nel modo di pensare che permetta al personale sanitario e ai dirigenti di vivere i loro disturbi come problemi e non come colpe.

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