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La morte di Davide Bifolco continua a non avere senso

A una settimana dalla morte di Davide Bifolco, il 16enne ucciso da un carabiniere nel rione Traiano di Napoli, è ancora difficile capire cosa sia realmente successo quella notte—compreso tutto ciò che si è mosso intorno a questa morte.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Scritte contro i carabinieri nel rione Traiano. Grab da Pupia.tv.

A una settimana dalla morte di Davide Bifolco, il ragazzo 16enne ucciso da un carabiniere nel rione Traiano di Napoli, è ancora difficile capire cosa sia realmente successo nella notte tra il 4 e il 5 settembre 2014—compreso tutto ciò che si è mosso intorno a questa morte.

È una morte “accidentale” o un’esecuzione a sangue freddo? Una bravata finita male? Una vittima collaterale di quella che alcuni commentatori hanno definito una “zona di guerra” non convenzionale? La scintilla che può incendiare le periferie napoletane? Un altro caso di malapolizia?

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L’omicidio di Davide Bifolco potrebbe essere, o non essere, tutte queste cose insieme. Ma al contempo è già diventato qualcosa di più – è una vicenda in cui i contorni sono talmente sfumati e contraddittori che ognuno, come puntualmente sta accadendo, ci vede quello che vuole.

La confusione parte sin da subito. Secondo la versione fornita al pubblico ministero dal carabiniere che ha sparato—un appuntato di 32 anni (inizialmente erroneamente descritto come un 22enne) con dieci anni di servizio—verso le 22.30 arriva la segnalazione che Arturo Equabile, un 25enne ricercato da febbraio per furto, si troverebbe in una casa vicino al rione Traiano. I militari si appostano, ma “l’uomo scappa.” Dopo tre quarti d’ora arriva un’altra segnalazione: il “latitante” sarebbe “in sella a un Honda SH.”

La volante continua a cercarlo fino alle 2.30, quando il motorino viene individuato con tre ragazzi a bordo, tutti senza casco. L’inseguimento parte non appena i tre non si fermano all’alt. A bordo del mezzo viene riconosciuto il “latitante.” Il carabiniere dice anche di aver scorto “uno scintillio, che proviene da qualcosa di metallico, il soggetto ce l’ha nella sinistra.”

Quando “lo scooter perde velocità e si arena noi ormai non riusciamo a fermarci e finiamo per toccarli e farli cadere.” Uno dei tre riesce a scappare subito e viene rincorso dall’altro militare; il carabiniere 32enne, invece, esce dall’auto “con la pistola nella destra e il colpo in canna per difendermi.” Davide Bifolco è davanti a lui, ancora non si è capito bene se per terra, in ginocchio o in piedi. Il carabiniere, stando a quanto ha dichiarato, “trattiene il soggetto con la mano sinistra” e a quel punto inciampa sul marciapiede, facendo “inavvertitamente” fuoco. Il ragazzo muore quasi sul colpo.

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La ricostruzione (a fumetti) dell’attimo dello sparo fatta dai carabinieri.

Le varie versioni fornite da amici e testimoni, tuttavia, sono radicalmente diverse da quella “ufficiale” delle forze dell’ordine descritta dal carabiniere anche in un’intervista a Repubblica. “L’hanno ucciso tre volte,” dichiarano degli amici di Bifolco. “L’hanno inseguito, sparato e poi ammanettato. È arrivato in ospedale già morto.” Nella trasmissione Pomeriggio Cinque, uno dei ragazzi sul motorino racconta che “eravamo in tre, il motorino era senza assicurazione ed eravamo senza casco. L’auto dei carabinieri ci ha tamponato e fatti cadere, il ragazzo che guidava è scappato, io sono rimasto a terra e Davide si è alzato. Il carabiniere gli ha sparato direttamente alle spalle, non ha sparato in alto.” Il ragazzo poi aggiunge un dettaglio: “Con lui a terra, li ho sentiti ridere.”

L’irruzione di un carabiniere in una sala giochi dopo della sparatoria.

Il fratello Tommaso Bifolco dice che Davide “è stato colpito al cuore e quando era già a terra, hanno avuto il coraggio di ammanettarlo e di mettergli la testa nella terra.” Un testimone oculare ha riferito di aver visto il 17enne “a terra” che “si agitava,” e il carabiniere che “ha puntato la pistola e sparato ad un metro, un metro e mezzo di distanza e ha sparato ad altezza d’uomo.” I risultati dell'autopsia, effettuata il 10 settembre, parlano di un "colpo frontale" e di "foro d’entrata del proiettile in petto ed il foro d’uscita alla schiena."

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Nei giorni successivi all’omicidio viene fuori che la presenza del “latitante” sul motorino è tutt’altro che pacifica. Un amico di Davide afferma davanti alle telecamere: “Eravamo in tre, ma quale latitante, lo scooter lo guidavo io.”

E il 10 settembre è lo stesso Equabile a smentire la sua presenza sul motorino: “Un’ora prima del fatto sono venuti i carabinieri nella casa dove stavo. Erano con le pistole in pugno e gridavano 'apri, bastardo.' Ho avuto paura e sono scappato in un’altra casa. Dopo tre quarti d’ora ho saputo che in un’altra parte del quartiere c’era stata la sparatoria.”

La totale inconciliabilità tra le versioni va in parallelo con la netta spaccatura nel giudizio dell’opinione pubblica.

Da un lato ci sono la solidarietà corporativa dei carabinieri e la difesa aprioristica degli editorialisti reazionari, la vittimizzazione del carabiniere che ha sparato e la colpevolizzazione della vittima (come ha fatto il magistrato Luigi Bobbio), i deliri di personaggi del calibro di Mario Borghezio, gli insulti ai napoletani e il conformismo sparsi in dosi industriali sui social network e l’immancabile opinionismo, con tanto di paragoni tra le “teste mozzate dell’Isis” e le foto del cadavere diffuse dalle famiglie all’unico scopo di “indirizzare l’opinione pubblica.”

La sobria prima pagina di Libero. Via.

Dall’altro lato, invece, c’è la rabbia contro le forze dell’ordine, l’invocazione di un nuovo caso Aldrovandi e il tentativo di inquadrare politicamente la vicenda. Lo stesso Fabio Anselmo, il legale della famiglia Bifolco specializzato in vicende che riguardano possibili abusi in divisa, ha parlato di un caso che “potrebbe essere molto semplice sul versante giudiziario, quanto complicato sotto il profilo sociale e ambientale.”

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Le ripercussioni di quello che è accaduto la notte del 5 settembre non si fermano certo nei dintorni di viale Traiano, e la tensione nel rione è da subito altissima. La stampa parla di auto della polizia distrutte e danneggiate (quelle dei carabinieri, nel frattempo, sono sparite dalla zona) e di un automobilista aggredito perché “scambiato per poliziotto.” Nel corso del corteo del 6 settembre per chiedere “verità e giustizia” sul caso—tra i vari slogan intonati, “lo Stato non ci difende ma ci uccide” e “assassini con la divisa”—non mancano i momenti di tensione con la polizia.

La famiglia di Davide cerca di placare gli animi con un comunicato: “Nostro figlio deve essere ancora seppellito, nessuno e dico nessuno deve sentirsi autorizzato a compiere atti di violenza anche verbale in suo nome. Chi vuole bene a Davide deve rispettarlo. Noi chiediamo soltanto giustizia.” Le proteste continuano anche i giorni successivi, ma in maniera pacifica.

Il comandante provinciale dell'Arma, sollecitato dai manifestanti in un corteo del 9 settembre, si toglie il cappello in segno di rispetto alla morte del giovane.

Il tumulto iniziale è l'occasione per più di un commentatore (come Roberto Saviano) a tracciare paralleli tra il rione Traiano, descritto come una specie di “zona di guerra”, e quanto successo a Ferguson. Ma a ben guardare, il paragone non regge più di tanto. Mancano completamente almeno due elementi fondamentali che hanno contraddistinto la rivolta negli Stati Uniti: l’aspetto razziale e la crescente militarizzazione nel controllo del territorio impiegata della polizia americana. La conformazione urbana e sociale delle zone, inoltre, è completamente diversa.

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Il rione Traiano, come del resto troppe zone di Napoli, è il risultato del “fallimento del disegno urbanistico di un quartiere popolare che voleva essere un modello.” Questo fallimento, unito al silenzio che è calato su queste aree, ha trasformato il quartiere in una sorta di “ghetto” di prossimità ai margini della città, una piazza di spaccio in cui il tasso di disoccupazione è molto più alto della media nazionale e i cittadini sono schiacciati tra l’assenza pressoché totale dello Stato e il predominio delle organizzazioni criminali, che non si fa troppi scrupoli a sfruttarli per portare avanti i loro traffici.

La mappa del Corriere del Mezzogiorno dei “rioni off-limits” di Napoli.

Evidenziare questi elementi non significa voler spostare l’attenzione dalla scena della sparatoria a una realtà sociale problematica – anzi. Anche perché la sparatoria e il contesto sono difficilmente scindibili. L’uccisione di Bifolco, come ha scritto il giornalista Ciro Pellegrino, ha acceso i riflettori su una “realtà meno epica,” della “camorra pop a uso e consumo delle serie televisive,” ma molto “più violenta, sporca e sorda. Una realtà che si racconta solo a giorni alterni, una realtà invisibile all’agenda di governo (chi lo spiega a Matteo Renzi?) sparita dai discorsi della politica comunale e regionale.”

È esattamente l’intrecciarsi di queste dinamiche che marca la differenza con i “classici” casi di malapolizia. La vicenda, piuttosto, ricorda moltissimo quella dell’uccisione di Mario Castellano nella periferia ovest di Napoli, avvenuta nel 2000 in circostanze simili (un alt non rispettato) e conclusasi con la condanna in via definitiva a dieci anni di carcere per il poliziotto che aveva sparato.

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Il fatto di non trovarsi di fronte a un nuovo caso Aldrovandi o Cucchi l’ha riconosciuto anche il senatore Luigi Manconi, da sempre in prima linea nella denuncia degli abusi in divisa: “Le due vicende [il riferimento è a quella di Stefano Cucchi] sono assai diverse, anzi incomparabili.”

Questo, tuttavia, non vuol dire che non ci siano analogie di fondo. La prima a emergere è il fatto che le indagini, come nel recente caso della morte di Riccardo Magherini a Firenze, siano portate avanti dallo stesso corpo dei carabinieri. "La corte di Strasburgo continuamente ci sgrida," spiega l'avvocato Fabio Anselmo, "perché uno dei parametri di efficacia delle indagini è il fatto che le indagini vengano svolte da un corpo per niente collegato con il corpo militare dell’indagato."

Secondo Manconi, un altro “grandissimo problema” che emerge in tutti questi casi di morti nelle mani dello Stato è “rappresentato dalle regole di ingaggio,” ovvero da “quel sistema di disposizioni che dovrebbe amministrare gli interventi delle forze di polizia,” che si accompagna anche al tema della formazione e della professionalità degli agenti.

Il senatore, sempre nella stessa intervista, pone un quesito specifico: "È stato fatto tutto il possibile affinché, pur in un quartiere a rischio, in una situazione di tensione, quello che era al massimo un illecito venisse affrontato senza mettere a repentaglio una vita?” E anche Anselmo, riferendosi alle regole di ingaggio, si chiede: "Io ora voglio sapere: qui [a Napoli] abbiamo regole di ingaggio diverse rispetto alle altre città d’Italia?" Le risposte, a questo punto, le potrà fornire solo l’eventuale processo.

Per ora la sensazione principale è che questa vicenda, da qualunque parte la si guardi, non abbia molto senso.

A uccidere il 16enne Davide Bifolco non è stato una specie di Giudice Dredd che applica la legge a forza di esecuzioni sommarie; e lo stesso Davide Bifolco non era un pericoloso criminale che – come è rimasto impresso in una parte dell'opinione pubblica – in qualche modo si è meritato questo tipo di morte.

Se si azzera l’incredibile rumore di fondo generatosi in una settimana di discussioni sul caso—la Napoli senza rispetto per la legge, la Napoli dannata e infernale, lo Stato che ammazza i ragazzi napoletani perché colpevoli di essere proletari, gli "sbirri infami assassini", la Ferguson italiana che si ribella contro le istituzioni e così via—rimane però la domanda fondamentale: è anche solo lontanamente concepibile che un ragazzo possa morire così?

No, ovviamente. Il problema principale è che alla fine di questa storia non c’è nessuna spiegazione netta e risolutiva, e nemmeno una verità di comodo che possa “accontentare” tutti: e questo non fa che rendere il tutto ancora più inaccettabile e incomprensibile.

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