FYI.

This story is over 5 years old.

Foto

Oltre piazza Tienanmen

Stuart Franklin ha scattato una delle foto più famose del ventesimo secolo, ma il suo lavoro non si riduce al rivoltoso sconosciuto di piazza Tienanmen.

Stuart Franklin, ex presidente dell'agenzia Magnum, è conosciuto principalmente grazie alla sua foto di un uomo con in mano delle buste della spesa che sfida una fila di carri armati a piazza Tienanmen. Tuttavia, come ho scoperto nella nostra intervista, quella fotografia non è diventata immediatamente celebre, come molti immaginano. Stuart mi ha parlato della sua formazione, della differenza tra approccio e stile, del vero significato di “news photography” e di come è stato coinvolto nella strage dell’Heysel.

Pubblicità

VICE: Contrariamente a molti altri fotografi della tua agenzia, tu hai avuto un’educazione in campo artistico.
Stuart Franklin: Ho studiato disegno, pittura e fotografia al West Surrey College of Art and Design.

Pensi che abbia influenzato la maniera in cui lavori?
In termini di fotografia, i miei studi mi hanno trasmesso una migliore percezione delle luci e a non sentirmi in difficoltà di fronte a nulla—formati o tecniche. Per quanto riguarda la post-produzione, ho avuto la possibilità di crearmi una camera oscura personale a Londra, trattare le mie pellicole e lavorare per la carta stampata, cosa che mi è stata molto utile.

Inghilterra. Manchester. Estate. 1986.

Ho l'impressione che i tuoi stili, così come i tuoi soggetti, coprano una gamma più ampia rispetto a quelli della maggioranza degli altri fotografi. Anche questa è una conseguenza della tua apertura di fronte a formati e tecniche?
Credo che si debbano considerare due cose: la prima è lo stile, l’altra è l’approccio. Credo che l’approccio che ho come fotografo sia abbastanza coerente. È un approccio ponderato e delicato, che devo studiare in ogni contesto. Gli strumenti possono variare molto, a seconda del progetto. E così facendo diventano uno stile localizzato e temporaneo, ma penso comunque che nel mio lavoro ci sia un sostrato, una sorta di ritmo uniforme, dato dal mio approccio che cerca di essere sempre delicato e tranquillo. Gli strumenti cambiano: possono essere una matita come una macchina fotografica.

Pubblicità

A metà degli anni Ottanta ti sei fatto conoscere al pubblico con un reportage sulla carestia nel Sahel, subito dopo aver terminato gli studi artistic. Come sei arrivato a fare giornalismo?
All’inizio degli anni Ottanta ho lavorato molto a Città del Messico, con il sostegno del Telegraph. Ho fatto anche molti lavori nel nord dell’Inghilterra, sul declino dell’industria manifatturiera, come anche in Francia, nell’area di Pas-de-Calais, vicino a Metz. Questi sono stati i primi lavori. Sono diventato membro della Sigma nel 1980, e per cinque anni ho lavorato come reporter per notizie dell’ultim’ora. Il primo reportage importante che ho realizzato è stato sul bombardamento della caserma americana a Beirut nel 1983, durante il quale hanno perso la vita 285 militari circa [erano 241; altri 58 militari francesi sono rimasti uccisi da un’altra esplosione avvenuta diversi minuti dopo. Anche alcuni civili e i due attentatori hanno perso la vita.]. Ho fatto anche un reportage sulla guerra civile in Libano—ed è successo prima del reportage sulla carestia nel Sahel.

Libano. Beirut. 1983. Soldati americani setacciano la zona in seguito all'esplosione di un ordigno.

Come sono stati questi primi incarichi, rispetto alle tue aspettative? Fotografare per lavoro è stato uno shock?
Ricordo che uno dei primi incarichi assegnatomi dalla Sigma è stato il doppio bombardamento dell’IRA a Hyde Park e al Regent’s Park, nel 1982. La Sigma mi ha chiamato da Parigi e mi ha chiesto di andare a fare il corrispondente. Una volta lì, mi sono trovato davanti la zona recintata dalla polizia, a chilometri dal luogo dell’accaduto. Non riuscivo a vedere nulla, così sono tornato a casa. Mi hanno chiamato poco dopo, furiosi, chiedendomi cosa fosse successo. Ho imparato che, per una notizia, conta tutto—anche soltanto una foto del nastro della polizia con dietro qualcosa di sfuocato a un chilometro di distanza.

Pubblicità

Per diverso tempo l'aspetto materiale dei reportage di guerra o di cronaca ha prevalso sul potenziale estetico, ed è stato uno shock per me. Mi aspettavo di fare fotografie con del potenziale, impressionanti, e spesso invece ci si aspettava che fotografassi semplicemente tutto ciò che potevo.

A proposito di foto che lasciano il segno, pensavo a quella dell’uomo di fronte ai carri armati a piazza Tienanmen. Pensi mai che una sola fotografia abbia eclissato tutto il resto del lavoro che hai fatto durante la rivolta studentesca?
Be', non è successo proprio così. Quando sono tornato dalla Cina sono andato nell’ufficio di Michael Rand, al Sunday Times. Voleva mettere in copertina una delle mie foto, un’altra di quelle scattate durante il mio viaggio—un ragazzo a torso nudo con le braccia alzate. Anche quella ha avuto un discreto successo. La foto dell’uomo del carro armato ha acquisito importanza nel tempo, non si è distinta subito dal resto del lavoro.

Ma sì, negli ultimi anni la gente parla molto di quella foto. Se mi dà fastidio? Be', una cosa del genere non può certo darti fastidio. Sono felice di esserci stato. Tutto quello che so è che ho fatto il mio lavoro, e credo di averlo fatto bene.

Cina. Pechino. Piazza Tienanmen. 1989.

Cos’è successo subito dopo quel momento, a te e ai manifestanti? Immagino non sia stato facile portare quelle foto fuori dal paese.
Era tutto molto confuso. La polizia e la sicurezza hanno setacciato le stanze del mio albergo, cercavano i giornalisti per confiscargli le pellicole. L’atmosfera era molto preoccupante. Mi ricordo di aver impacchettato il mio rullino in una bustina del tè fornita dall’albergo e chiesto a una persona di ritorno a Parigi di portarla per me. Sono rimasto in Cina senza il rullino. Non ero preoccupato, una volta salvato il rullino, anche se ho perso un paio di macchine fotografiche. Non è stato facile—a volte sparavano anche—ma sono stato fortunato.

Pubblicità

Bruxelles. Strage dell’Heysel. Fan del Liverpool in viaggio verso lo stadio. 29 maggio 1985.

Immagino che il modo in cui le immagini sono utilizzate nel giornalismo sia cambiato, da allora. Quali altre storie sono state importanti per te, in quel periodo?
Il disastro dell’Heysel ha evuto un richiamo enorme. In Europa ha avuto più risonanza di piazza Tienanmen. Paris Match gli ha dedicato 22 pagine. Nell’era del fotogiornalismo, prima che televisione e internet le facessero prendere un’altra direzione, la fotografia era l’unica fonte di testimonianze. Ora, se guardi i giornali, più o meno parlano delle stesse cose e usano le stesse foto. Non era lo stesso, negli anni Ottanta. Ogni giornale aveva la sua storia.

A quel tempo stavo facendo reportage sul fenomeno degli hooligans in Gran Bretagna. Non sapevamo bene come affrontare l’argomento, così abbiamo pensato di andare a Bruxelles con i fan del Liverpool, durante la finale degli Europei. Non ci aspettavamo nulla. Era solo un modo di entrare nella vita dei tifosi, osservando come si relazionavano tra loro e con il mondo. Doveva essere una storia tranquilla. Sono andato in tribuna con loro e ovviamente poi le cose sono andate diversamente. Questo è un esempio di reportage approfondito, molto raro al giorno d’oggi. Una volta era la norma.

Bruxelles. Finale degli Europei. Strage dell’Heysel. 29 maggio 1985.

Passando ai tuoi lavori più recenti, cosa ne pensi delle città? Di recente abbiamo intervistato Jonas Bendiksen, che ha una visione radicale in merito. Lui crede che i bassifondi debbano essere considerati parte integrante delle nostre città, non buchi neri su cui sorvolare. Tu come la vedi?
Riguardo ai bassifondi, come ho detto all’inizio, i miei primi impegni fotografici si sono svolti in alcuni dei quartieri più poveri di Manchester, nel Moss Side, poi a Liverpool, a Glasgow, a Newcastle e a Città del Messico. Quando sono arrivato a Città del Messico e ho visto i bassifondi della città, ho pensato alle teorie degli antropologi americani, come quella di Oscar Lewis, che diceva che i poveri stanno nei bassifondi perché se lo meritano, e che non sarebbe mai cambiato niente. Ovviamente sono stupidaggini. Chiunque vada a vivere da qualunque parte, che sia una villa o una scatola di cartone, ha delle aspirazioni.

Pubblicità

Sono tornato anno dopo anno in un particolare barrio di Città del Messico. Nel tempo sono comparsi degli infissi, sono stati creati giardini, le strade sono migliorate. Penso che i bassifondi siano spesso l’inizio di un processo di transito dalla desolazione all’integrazione nella città.

Narcissus, 2009-2013.

Cambiamo un attimo argomento, come si è integrato Narcissus con i tuoi lavori precedenti? È abbastanza lontano da gran parte di ciò di cui ti sei occupato.
Immagino che Narcissus sia stato influenzato da vari fattori. L’idea di un meta-progetto che mostrasse “i posti più belli della Terra” o i peggiori mi aveva un po' stufato. Sono progetti imponenti. E io avevo già fatto molta roba del genere: Dynamic Cities contiene scatti da circa 40 città. Mi sembrava di aver tralasciato qualche aspetto. Per me Narcissus è stato un po’ come tornare a esercitarti sulle scale quando sei già musicista. Ho cercato di acuire la vista e dirigere la messa a fuoco.

Ho iniziato a riflettere sulla nozione di fotografia paesaggistica, sulla natura della fotografia in generale. E in effetti i paesaggi sono come tutto il resto. Ciò che mi spinge a fotografarli è l’astrazione, quei ritagli che puoi ricavare dall’enorme tela che sta di fronte a te. Pensavo, se non c’è qualcuno che si aspetta qualcosa da me—come avviene, per esempio, quando fotografi paesaggi per National Geographic—cosa mi guida? Ho trovato la risposta nei paesaggi che hanno risonanza nel mio passato, nella vita sociale che ho vissuto. Le forme che riconosco nei paesaggi sono forme umane, semi-umane o zoomorfe. Penso che Freud, parlando di fotografia, la connettesse molto di più alla memoria che alla vista. È stato molto diverso, sì, e non lo farò di nuovo, ma ho imparato molto. Ho imparato a lavorare in uno spazio ristretto e a limitare i miei bisogni. E’ stato spartano e molto coerente.

Pubblicità

Continua nelle pagine successive.

Gran Bretagna. Ufficio di collocamento. 1986.

Yokahama, Giappone. Auto Nissan. 1987.

Belfast, Irlanda del Nord. Disordini. 1985.

Kabul, Afghanistan. Donne soldato. 1989.

Honduras. Guerra civile. El Capire. I cadaveri di uomini delle truppe sandiniste giacciono sul terreno. 1986.

Honduras. Guerra civile. 1986.

Sudan. Rifugiati. 1985.

Narcissus, 2009-2013

Altri fotografi:

Jonas Bendiksen fotografa paesi che non esistono

Steve McCurry va in posti tremendi e torna con foto incredibili