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Perché il suffragio universale è davvero l'ultimo dei problemi della Brexit

Il risultato della Brexit ha acceso un grosso dibattito sull'opportunità—o meno—di togliere il diritto di voto a "vecchi" e "ignoranti". Ma il suffragio universale è davvero il principale problema delle democrazie contemporanee?
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Uno dei dibattiti più accesi che si è sviluppato dopo la Brexit è quello intorno al suffragio universale: è giusto continuare a far votare gli ignoranti, gli stupidi e i vecchi, visto che su questioni di tale portata si hanno risultati del genere?

Il tema del diritto di voto universale, visto il triste stato della democrazia rappresentativa nell'occidente, è quanto di più attuale ci possa essere. Ed è naturale che le posizioni e la letteratura sul fenomeno siano estremamente variegate.

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In questi ultimi due giorni, ad esempio, è girato moltissimo un articolo di David Harsanyi pubblicato qualche tempo fa sul Washington Post. Il pezzo, che è più che altro una provocazione, sostiene che servirebbe una specie di "test per gli elettori," poiché "se non hai la minima idea di ciò che ti sta intorno, hai anche il dovere civile di non soggiogare il resto di noi alla tua ignoranza."

Qualche tempo fa, inoltre, in Italia è stato tradotto il saggio breve di David Van Reybrouck, intitolato Contro le elezioni. In esso, l'autore belga argomenta che "stiamo distruggendo la nostra democrazia limitandola alle elezioni," e propone dunque il ritorno a una specie di democrazia deliberativa basata sul sorteggio.

Penso che entrambe le soluzioni di cui sopra non solo siano impraticabili, ma estremamente dannose: un test sulla cittadinanza potrebbe tranquillamente risolversi in una specie di apartheid elettorale, o comunque in un'inaccettabile diminuzione dei diritti civili; il sorteggio, invece, è per forza di cose limitato a realtà numericamente esigue.

Pertanto, voglio metterla giù in maniera molto semplice: mettere in discussione il suffragio universale è per me una posizione impraticabile, e in secondo luogo è un esercizio fuorviante che non porta a nulla. Tra l'altro, in una circostanza grossomodo analoga come il referendum greco del luglio 2015, nessuno ha invocato l'abolizione del diritto di voto o se l'è presa con la "stupidità" degli elettori.

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Sostenere la validità del suffragio universale non significa, comunque, che non ci si possa far venire dei dubbi sul comportamento ondivago dell'elettorato; oppure che non ci si debba interrogare sul grado di preparazione dei cittadini, considerata l'incidenza di fattori come l'analfabetismo funzionale e la disinformazione galoppante.

A questo proposito, in questi giorni ho ripreso in mano Governare il vuoto—l'ultimo libro di uno dei più grandi politologi europei, l'irlandese Peter Mair, scomparso qualche anno fa. Partendo da un assunto lapidario ("Il tempo della democrazia dei partiti è ormai passato"), l'autore dimostra come negli ultimi trent'anni l'elettorato sia diventato incostante, disimpegnato e difficile da fidelizzare.

Gli elettorati in tutta Europa, scrive Mair, "stanno diventando progressivamente destrutturati, affidando più importanza ai media ed investendoli del ruolo di decisori dell'agenda politica, e richiedendo sempre più sforzo ai partiti e ai candidati nel corso della campagna elettorale. In altre parole, stiamo assistendo a una forma di comportamento elettorale sempre più legata alle contingenze e ad un tipo di elettore le cui scelte sembrano addirittura più casuali."

Per certi versi, un meccanismo di questo tipo è stato piuttosto lampante nella Brexit. Da un lato, come è stato ampiamente sottolineato in molti articoli, diversi elettori si sono pentiti di aver votato Leave: il caso più eclatante è stato quello della Cornovaglia, una regione che ha praticamente supplicato l'Unione Europea di non sospendere i finanziamenti.

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Dall'altro lato i promotori del Leave—spalleggiati dai maggiori tabloid britannici —hanno costruito una campagna sovraeccitata, sguaiata e soprattutto basata sulle menzogne. Nigel Farage, ad esempio, si è rimangiato a poche ore dal voto la promessa di trasferire 350 milioni di sterline a settimana al sistema sanitario nazionale; e Boris Johnson, che probabilmente sostituirà il dimissionario David Cameron, ha dimostrato di non avere la più pallida idea su come condurre gli (eventuali) negoziati per la fuoriuscita dall'UE.

Tuttavia, anche per quanto detto sopra, un voto epocale come quello della Brexit è davvero impossibile da ingabbiare in una pretesa "irresponsabilità dei cittadini "—irresponsabile, semmai, è stata la decisione di Cameron di indire un referendum su un tema del genere al solo scopo di regolare i conti all'interno dei Tories e sottrarre terreno da destra allo UKIP.

E infatti, se si accantonano per un attimo le narrative semplificatorie, quello di giovedì scorso è stato un voto molto più strutturato e logico di quanto possa sembrare a prima vista.

Per iniziare, Brexit non è stato un voto solo sull'Unione Europea o sull'Europa in sé e per sé; né tantomento un voto univoco di vecchi di provincia ignoranti e razzisti (che pure esisteranno) contro giovani di città cosmopoliti e illuminati (che esisteranno anche loro). Questa narrativa generazionale, cavalcata in modo ossessivo dai nostri editorialisti più brillanti, era in realtà basata su semplici sondaggi effettuati prima del voto.

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La Brexit—l'ha riconosciuto persino il Financial Times—è stato invece "il voto più basato sulla classe degli ultimi decenni," e in quanto tale è stato rivolto principalmente contro l'establishment e le élite britanniche, ritenute colpevoli di essersi barricate a Westminster (ossia nei "palazzi") e di aver fatto esplodere la disuguaglianza in tutto il paese.

Lo spiega alla perfezione un lungo reportage del giornalista John Harris sul Guardian, che parte subito con la citazione di una cittadina che, nella sua semplicità, riesce a spiegare uno dei sensi profondi della Brexit: "Se non hai soldi, voti 'fuori'; se hai soldi, voti 'dentro'."

Il referendum, proprio per le sue caratteristiche polarizzanti, ha anche portato alla luce quanto i cambiamenti degli ultimi trent'anni abbiano trasformato il paese. E come ha osservato il commentatore britannico Gary Younge, la società britannica si è definitivamente scoperta come una società divisa, avvelenata, pronta a sfogare le peggiori pulsioni razziste e nazionaliste, e infine staccata come non mai dai parlamenti e dall'informazione di massa. Una società, dunque, che sentendosi abbandonata si è vendicata non appena ne ha avuto l'occasione.

Non è un caso, nota sempre Harris, che la Brexit sia arrivata in un periodo in cui l'Inghilterra è "contraddistinta da un vuoto crescente"—un vuoto politico, culturale e sociale creato sia da fattori globali, che dall'arroganza e dall'inettitudine della politica locale.

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A quest'ultimo proposito, la situazione è per certi versi simile a quanto scriveva George Orwell nel lontano 1941: "Una famiglia in cui comandano le persone sbagliate—questa, probabilmente, è la più esatta descrizione dell'Inghilterra che si possa fare in una sola frase."

Ecco: credo che questa affermazione si possa tranquillamente estendere al resto d'Europa—inclusa la disastrosa classe di tecnocrati di Bruxelles, che sta rendendo sempre più indifendibile il progetto dell'Unione Europea.

Ed è esattamente su questo punto che secondo me bisognerebbe ragionare, e non tanto sul restringimento del suffragio universale. Dopotutto, il vero problema non è far votare "il popolo": ma sono—appunto—la mediocrità della classe dirigente, la deriva xenofoba che ha infettato la società, l'arretramento costante sui diritti e la disinformazione sparsa a piene mani da leader politici e media.

Sono tutti fattori che stanno progressivamente spianando la strada alle forze populiste—sulle quali è sempre più necessario andare oltre la semplice denigrazione—che alla fine stanno riempiendo quel vuoto in maniera pressoché indisturbata, con i risultati che tutti stiamo vedendo.

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