Salute

Durante l'epidemia di coronavirus abortire in Italia è ancora più difficile

Ora che gli ospedali sono in piena emergenza, diverse donne non riescono ad accedere ai servizi previsti dalla legge 194.
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Un ambulatorio di ginecologia. Foto Getty Images/iStockphoto/Vadimborkin.

Questa inchiesta è stata realizzata da openDemocracy.

Mentre l’epidemia di coronavirus iniziava a diffondersi in tutto il nord Italia, Lisa* è rimasta incinta. Ha più di quarant’anni, due figli, un lavoro precario e uno stato di salute non ottimale. “[A febbraio] mi sono accorta di essere incinta,” ha spiegato a Laiga, la Libera Associazione Italiana Ginecologi per Applicazione della legge 194, “e non me l’aspettavo, soprattutto alla mia età.”

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Per questo, e rientrando nei limiti di tempo previsti dalla legge, ha deciso di abortire. Ma se già in tempi in normali accedere all’Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) negli ospedali non è facile—l’Italia ha un alto numero di obiettori e subisce la pressione delle lobby cattoliche—con una pandemia in corso è un’impresa davvero ardua.

L’ospedale di Lodi a cui Lisa si era rivolta è stato tra i primi a essere travolti dall’emergenza coronavirus, e di conseguenza ha smesso di effettuare Ivg farmacologiche e cambiato in chirugiche quelle previste. Con altri ospedali non è andata meglio: alcuni l’hanno rifiutata perché erano in altre zone rosse, altri perché lei stessa proveniva da una zona ad alto rischio. Ci sono voluti giorni e giorni per trovare un reparto che la accettasse.

L’emergenza Covid-19 ha sconvolto l’intero settore ospedaliero: sono molti gli ospedali in cui interi reparti sono stati trasferiti o chiusi, sospendendo tutte le altre attività e rimandando molti interventi non urgenti. Ma in una Ivg non dovrebbe essere questo il caso, visto che per legge deve avvenire nei primi 90 giorni di gestazione (si può andare oltre questo limite solo nel caso dell’aborto terapeutico, ossia quando è a rischio la salute della donna).

Ciononostante, secondo Anna Pompili—ginecologa e co-fondatrice dell’associazione Amica—“l’emergenza sta effettivamente riducendo le possibilità di avere un aborto, specialmente nel Nord.” L’hanno notato anche altre sue colleghe, come Marina Toschi dell’associazione Agite: in molti posti, le Ivg farmacologiche sono state sospese per “evitare che le donne siano costrette a entrare più volte negli ospedali.”

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Una situazione del genere è stata immediatamente cavalcata dai gruppi anti-scelta. ProVita e Famiglia, ad esempio, ha lanciato una petizione per bloccare del tutto il diritto all’aborto con il pretesto che “non si tratta di un servizio essenziale durante una pandemia.”

Come mi spiegano le due ginecologhe, uno dei problemi principali dell’attuale situazione è l’estrema difficoltà a farsi prescrivere pillole abortive—che secondo le linee guida del ministero della salute devono essere necessariamente assunte in ospedale, dove la donna è trattenuta fino ad aborto avvenuto. Solo in un piccolo numero di ospedali questa procedura può avvenire in day hospital, comportando comunque un minimo di tre visite.

Per Toschi, questo protocollo è sempre stato “assurdo” e ora è un ulteriore impedimento. In molti paesi europei l’aborto farmacologico si può effettuare entro nove settimane, in linea con le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; in Italia, invece, il termine è di sette settimane. Giusto per fare un raffronto numerico, nel 2017 le Ivg farmacologiche effettuate in italia erano il 18 percento; in Finlandia quel tasso è del 97, in Svizzera del 75 e in Francia del 68.

La stessa tendenza di cui mi ha parlato Toschi è stata riscontrata dalle attiviste di Obiezione Respinta. Nelle ultime settimane, anche loro hanno ricevuto notizie di Ivg annullate e riduzione degli accessi. Per questo, hanno deciso di aprire un canale Telegram (gestito insieme al gruppo Ivg, ho abortito e sto benissimo) per “monitorare lo stato del servizio” di Ivg e fornire “punti di riferimento e aiuto a chi ha bisogno di abortire.” La loro mappa è inoltre sempre aggiornata.

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Tra le donne che si sono rivolte a Obiezione Respinta c’è anche Maria*, una donna di Napoli incinta di sette settimane. Ha raccontato della sua odissea per trovare un ospedale che effettuasse un Ivg, e di esserci riuscita solo dopo tre settimane di ricerca sfiancante.

Dice di essere stata “fortunata,” perché la struttura in questione aveva appena iniziato a effettuare visite e appuntamenti al telefono. In condizioni normali, si sarebbe dovuta recare sul posto e fare la fila.

In generale, è evidente come l’epidemia abbia messo ancora più in risalto tutte le carenze strutturali del sistema tema. “Se le pillole abortive fossero distribuite nei consultori,” dice Tiziana Antonucci, vicepresidente dell’Associazione Italiana per l’Educazione Demografica (Aied), “il carico di lavoro negli ospedali si sarebbe alleggerito di parecchio.”

Negli anni scorsi sono state lanciate diverse campagne che chiedevano proprio questo, ma sono state sistematicamente contrastate da politici di destra e associazioni antiabortiste.

In altri paesi europei, come Francia e Regno Unito, gli ordini professionali di ostetrica e ginecologia hanno fatto raccomandazioni specifiche per garantire il diritto all’aborto durante la pandemia di coronavirus, chiedendo un maggiore impiego di consulti a distanza e aborti farmacologici a casa. In Italia, tuttavia, ci si è limitati a dare consigli su come gestire gravidanze, nascite e allattamenti in questo periodo difficile.

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“Questo silenzio assordante non ci fa onore,” conclude la ginecologa Anna Pompili. “Anche nel pieno dell’emergenza non possiamo rinunciare ai diritti umani.”

* I nomi sono stati cambiati per rispetto della privacy.

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