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Demented parla da solo

Gli schiavi dell'alta classifica

Affinità e divergenze fra la Failu New Wave e noi.

Illustrazione di Simone Tso.

Mi capita spesso di fare dj set, e in queste occasioni ne approfitto per compiere ricerche approfondite a seconda della tematica del set in questione. Se non lo faccio, purtroppo mi rompo le palle. Ultimamente preparavo un dj set new wave e cercando fra sottogeneri sottogruppi e via dicendo mi sono imbattuto in una serie di band e individui con una cifra stilistica in comune: l’aver clamorosamente fallito l’ingresso nella top ten. Costoro, come schiavi che tirano su delle piramidi, hanno in qualche modo foraggiato l’industria discografica stabilizzando, confermando e sperimentando il gusto estetico/musicale del pop di alta classifica per essere poi dimenticati dai posteri.

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Questi gruppi, il più delle volte lungi dal presentarsi come formazione underground ma più spesso con ambizioni da vetta, non hanno mai assaggiato il trionfo. Semmai hanno collezionato sessantesimi posti, al massimo un quindicesimo o una metà classifica. C’è addirittura chi è riuscito a sfiorare il decimo posto fermandosi ad un fantozziano undicesimo. Si tratta del magico mondo della Failu New Wave, come lo battezzeremo da qui in avanti (ci metto la U da failure, perché mi suona meglio).

Finora la new wave, quel famigerato genere nato quarant’anni fa, non ha mai smesso di perdere smalto, esercitando un’influenza continua che ancora oggi ci troviamo in mezzo alle palle tramite i vari recuperi. Basti pensare alla famigerata Not Not Fun con i suoi eterni cloni di glorie del passato rivedute e corrette ecc ecc. Probabilmente, così come il rock n roll, la new wave non avrà mai la parola fine essendo oramai una contaminazione di diversi linguaggi, dalla psichedelica alla disco a frenesie free. Ma ovviamente c’è new wave e new wave.

In questo caso specifico si tratta di un ibrido, poiché l’insieme di look, ambizioni e sonorità, unisce in un sol colpo i gusti di più ascoltatori. C’è chi riesce a unire l’AOR al power pop passando per il new romantic e il metal, chi addirittura la proto-house con la canzonetta. Ci sono gruppi che vengono abbandonati dalle case discografiche perché nati nel momento sbagliato, chi viene ingiustamente sabotato e chi, nonostante stia quasi per farcela, viene falciato dalle faide interne. Uno specchio della vita, una classe sociale più che un genere musicale. Un crossover di astinenze e bulimie artistiche.

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Ma andiamo per ordine e passiamo in rassegna qualcuno degli esemplari più interessanti.

Potremmo cominciare dagli A flock of seagulls, probabilmente fra i più importanti gruppi new romantic degli anni Ottanta, ma il motivo non è certo—appunto—per lo scarso successo. Con le loro sole forze questi quattro liverpooliani riescono infatti a raggiungere i primi posti con "I ran" e sciorinare una serie di gol la cui frequenza arriva ben presto al capolinea. Proprio verso la parola fine, il quartetto tira fuori un singolo dal titolo "Who's that girl". Il pezzo non ha successo e sigla il crollo verticale della band ma stranamente, un anno dopo, una certa Madonna se ne esce con un brano fotocopia che sbanca le classifiche e si chiama, guarda un po’, "Who's that girl". A questo proposito farei partire un filmato.

A questi si aggiungono i The Brains, beffati con la loro "Money changes everything": la versione del gruppo non arriva neanche ad affacciarsi in classifica, tre anni dopo Cindy Lauper ne fa una cover e il brano sbanca le top ten. Vogliamo parlare del gruppo australiano Flash and the Pan? Chi se li ricorda? Nessuno, ovviamente. Ma tutti conoscono “Walking in the rain” di Grace Jones, di cui i Flash sono autori. Ovviamente lei ne fece un grande successo, loro no.

C’è anche chi si barcamena nel modo opposto, come gli After the fire. Dopo aver assaporato la top ten americana con un pezzo non loro—“Der kommisar” di Falco—vengono brutalmente scaricati dalla CBS senza riuscire a pubblicare l’album della possibile svolta. Il perché? Mistero.

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Alcuni, secondo biografie ufficiali, sono cavie da laboratorio per la casa discografica di turno. Soggetti a rigorosi test di marketing per saggiare le loro potenzialità commerciali, scoprono di poter raggiungere i primi posti senza problemi, stando alle statistiche. Eppure vengono ben presto sbugiardati per figuri dall’appeal più sicuro, rimanendo quindi sedotti e abbandonati con potenziali hit nel cesso.

Il motivo di queste oscillazioni è semplice: in primis, come noto a chiunque, negli anni Ottanta l’occhio era più importante dell’orecchio, che doveva adeguarvisi. È negli Ottanta che la musica diventa un prodotto multimediale puro, ed è così che va analizzata. Impossibile infatti pensare al successo di brani come "Do you really want to..” senza i trucchi di Boy George, i video, i gadget. Se avesse cantato pelato nessuno avrebbe decretato il successo del brano. Così come una “No more i love yous” a cui negli anni Ottanta dà voce un  personaggio quale il cantante dei The lover speaks dovrà aspettare gli anni Novanta per fare, ancora una volta, il botto grazie all’interpretazione “glam” di Annie Lennox. Qual è la novità, mi direte, rispetto alle classiche sfighe del rock che vanno avanti dai favolosi anni Sessanta? Risposta: il “vincerà chi si distinguerà”, come recita un famoso brano di Diana Est. Ma se si pensa che  gran parte dei successi dell’epoca sono praticamente tutti farina di un unico produttore (al massimo un paio), il piano della vittoria/sconfitta va esaminato anche da un’altra piattaforma. È più una questione meta-artistica, che sconfina nel jingle pubblicitario di se stessi, nella mafia o nel farsi, per primo, portavoce di un'innovazione videomusicale o di un dettaglio copiandolo in molti casi ad un rivale prossimo ma precedendolo nella proposta ufficiale. D’altronde il plagio è pratica antica che risale agli albori della civiltà e di qualcosa si dovrà pure mangiare.
Se vogliamo è qualcosa di più vicino agli anni d’oro del rock e del jazz. È infatti esemplare, all’epoca, il ritorno dei grandi dinosauri della musica leggera alle prese con brani rock’n’roll del tutto metabolizzati ma arrangiati con suoni tecnologici. Vedi George Harrison con la sua “I’ve got my mind set on you”. In pratica si riparte.

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Ma andrà meglio a chi tenta la sensazione?

Be’, non sempre. Esempio: gli Orange Juice sono i primi in assoluto a usare la bassline TB 303 negli anni Ottanta, e forse per questo riescono a ottenere un unico numero otto in Inghilterra. Ma poi tutto si ferma e lo spettro della sfiga—leggasi top 100—prende piede. Nel 1980 I londinesi New Muzik con “This world of water” raggiungono un mesto trentunesimo posto in Inghilterra. Ma il brano contiene elementi che non è difficile ritrovare nel blasonato brano “Pretty young thing” di Michael Jackson, che verrà alla luce due anni dopo. È solo un caso? Evidentemente no.

D’altronde non c’è scampo: le case discografiche non sentono la voce umana, ma solo il canto del profitto robotico. Se un prodotto non va abbastanza, una massiccia opera di restyling viene attuata al fine di spremere l’artista come un limone. In questo i “padroni della musica”—per citare Savelli—sono indirettamente responsabili degli ibridi sonori che i protagonisti della failu tendono a sperimentare per accontentare un largo raggio di pubblico. Basterebbe aspettare che le band trovino la loro strada; ma questo vorrebbe dire ritrovarsi di fronte un concorrente agguerrito, anziché uno schiavo liberto. Alcune band ce la fanno, altre rimangono imprigionate nelle miniere di sale delle “indagini di mercato”. Fra quelli che—nella loro ibridazione in parte forzata—ce la fanno, citiamo gli oramai famosissimi Art of Noise. Pochi sanno che il classicone “Moments in love” alla sua uscita collezionò un ridicolo cinquantunesimo posto. I nostri dovranno presto piegarsi alla pratica delle cover di lusso, toccando, allora sì, la cima delle classifiche con “Peter Gunn” di Henry Mancini e “Kiss“ di Prince. Come andare sul sicuro, insomma.

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Per loro non esiste altra scelta, devono scrivere quello che sentono dentro: le belle parole di apertura sono, appunto, di Prince. Abituato ad una corte di artisti-session man, musicisti di sicuro valore, non ebbe nessuna esitazione però a scippare “Kiss” ai Mazarati, un  interessantissimo gruppo della Paisley Park in cui militava il bassista dei Revolution. Funkadelici, sopra le righe, autori degli arrangiamenti di quello che diverrà un classico epocale di cui avrebbero dovuto essere gli interpreti. A loro, invece, Prince affida un suo brano minore che non riesce a superare il sedicesimo posto.

Che senso ha riscoprire e studiare tali personaggi? Be', semplice. Sorge spontaneo il paragonare tale non-movimento alla miriade di musicisti/videoartisti chill-glo-neo wave/neo psichedelici che dominano i tubi e i vimei di tutto il mondo, saturando e saturandosi. Allo stesso modo dei loro predecessori modellano il gusto, plagiano senza freno, lanciano sassolini nel mare virtuale, creano hit il cui appeal dura un minuto/secondo: il tempo di una fugace visualizzazione di massa. Di contro, alcuni hanno ambizioni di fama e successo anche se le classifiche praticamente non esistono più; la major inarrivabile diventa qui un’etichetta di culto o casareccia che però—nella pratica—esige quanto e come la RCA anche se le major oramai sono una barzelletta. Riciclano le poche idee rimaste come un programma digitale di recupero dati, lottando contro il Caso per creare una piramide che, fortunatamente, ancora non ha la punta. Ma sicuramente molti schiavi, poiché è da qua che l’industria si rifarà le ossa. Insomma, siamo nel medioevo degli anni Ottanta in cui ci sei, ma in realtà sei l’ombra di te stesso: in cui sei tutto ma non sei niente. L’unica soluzione è scrivere quello che ci si sente dentro e lasciare che si sfaldi come un mandala di sabbia, senza timore dei vari Prince di turno che ti fregano la roba e ti chiudono il tubo. Torniamo alla trasmissione orale: cantiamo da soli.

Demented Burrocacao è una nostra conoscenza di lunga data, e per VICE si occupa di recensioni, reinterpretazioni e altra musica. Una volta si è anche fatto intervistare. Come avrete capito, questa è la sua nuova rubrica. 

Settimana scorsa: Demented parla da solo